tre fratelli maschi nella stessa casa è tutt'ora una cosa inconcepibile per i miei parametri smaccatamente femminili

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Lorenzo e suo fratello Pierluigi hanno passato davvero molto tempo a guardare la tv, ed è un peccato accorgersene solo adesso che uno ha delle specie di crisi durante le quali va in trance e puoi chiedergli di fare qualsiasi cosa, per esempio la mossa che consiste in una specie di balletto in cui si dà una botta su un fianco e sull’altro e sposta le anche e le gambe, una specie di hustle (vi ricordate il celebre ballo anni 70 in cui ci si scontrava ammiccanti sul dancefloor?) ma in solitario. Pierluigi, l’altro, invece è stato dentro per spaccio ma perché non guardava bene quello che succedeva in giro e non ha mai smesso con l’eroina. Dal suo negozio di cibo per animali arrotondava con l’erba e i suoi derivati agli amici, ma in città è facile farsi sgamare nelle attività poco chiare. Dario, che invece è il loro fratello minore, era il disagiato della mia classe, quello che diceva alla maestra di essere allergico al gesso e si dichiarava senza indugi alle tirocinanti. Tre fratelli maschi nella stessa casa è tutt’ora una cosa inconcepibile per i miei parametri smaccatamente femminili e non oso pensare allo sforzo educativo. Cioè, voglio dire, non mi stupisco dei risultati e anzi secondo me con quei tre poteva andare peggio. La loro madre faceva buon viso a cattivo gioco, ricordo come fosse ieri il viaggio sulla Fiat 132 piena di almanacchi di Topolino verso la festa di Giuliano, con il mangiacassette che diffondeva un disco di cui nel 77 già coglievo in pieno la portata dirompente del calibro di “The Man Machine” dei Kraftwerk. Lorenzo e Pierluigi, i due grandi che erano già alle medie, storpiavano l’inglese mitteleuropeo di “The robots” molto meglio di me che ero fermo ancora al modello nazional-popolare di presincolinensinanciusol. Lorenzo poi è guarito, sembra che si trattasse di una forma di epilessia ma tutta particolare e non chiedetemi cosa perché mica sono un medico. Dario non si è ma sposato e ora fa l’ingegnere in Danimarca, lì forse il gesso non dà fastidio come qui in Italia. Pierluigi qualche mese fa per la strada mi ha chiesto degli spiccioli nemmeno ci fosse ancora la lira, oggi un euro non lo darei nemmeno a quelli che fanno le giocolerie agli incroci della Milano del dopo Expo e dello Street Food, con l’aggravante di aver citato un tormentone di un vecchio programma presentato da Magalli che seguivo anch’io, ma non mi deve aver riconosciuto subito, forse sono cambiato io o forse non è cambiato lui.

quel periodo tra october degli u2 e november spawned a monster di morrissey

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Comunque se vi dovessi dire qual è l’immagine che più associo all’autunno, quello inoltrato, quello quando fa già freddino e devi indossare il parka ma senza esagerare con i maglioni sotto e le calze pesanti e ti devi tirare su il colletto e Halloween non è stato ancora inventato dalle nostre parti, non è certo quella nebbia in cui non sono nato e che ora che mi sono trasferito qui nella pianura mi dicono ormai, almeno in città, essersi volatilizzata da tempo. Che sfiga, mi viene da dire, perché uno dei pochi manti di romanticismo che poteva avere un posto come questo è stato spazzato via non tanto dall’abbattimento del Turchino, come farneticava quel tizio a Portobello, quando dal global warming e dagli effluvi come conseguenza del riscaldamento sovradimensionato. Io che già mi immaginavo su una bici con i freni a bacchetta, tremolante sulla superficie incerta del pavé metropolitano incedere lungo le piatte vie all’interno delle mura all’imbrunire nell’invisibilità completa per rientrare in una delle corti con case di ringhiera dei tempi del miracolo a Milano, mi sono accontentato di un appartamento anni 80 con vista su distributore Total di periferia, e quell’aria impenetrabile e densa della bruma di ottobre è solo il racconto di chi l’ha vissuta qualche decennio fa, quando la mattina non si scorgeva nemmeno la casa di fronte alla propria. No. Se dovessi scegliere un ricordo illustrato per esemplificare l’autunno come quelli che ti chiedono le maestre da portare a scuola per fare i temi descrittivi, sceglierei una domenica pomeriggio a una sagra delle castagne in mezzo a un po’ di gente di mare che se ne è andata sul serio, perché nei posti mare che intendo io il lavoro non si trova più e scappano tutti, con un bicchiere di vino in mano e C. che vuole andare via da lì perché è li con la sua tipa ma per caso ha intravisto una con cui ha avuto una storia proprio qualche sera prima e lo sapete, la provincia è più piccola di ogni cosa e gira che ti rigira i posti dove andare sono quelli. C. con il suo cappotto a quadrettoni e la faccia del colore della malattia che poi se l’è portato via, e quello è stato proprio il suo ultimo autunno con il vento che profuma di caldarroste e che è talmente forte che la nebbia proprio è fuori contesto, e così vedi tutto chiaro e limpido, tanto che poi con i ricordi non hai scampo.

esami che non finiscono mai

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Li chiamo il gatto e la volpe perché girano sempre insieme e hanno anche l’aspetto un po’ losco, ma quel losco da cattivi di una storia per bambini che ai grandi sembrano grotteschi, i classici protagonisti da brutto sogno, quelli che ti atterriscono durante l’infanzia e poi da adulto li rivedi e ti mettono a disagio. Uno è alto quasi due metri ed è anche un po’ grasso e potrebbe essere il gatto. La volpe invece è smilzo, un po’ più basso e ha occhiali tondi con le lenti scure e il codino. Già. Di losco hanno vari traffici illegali, droga più che altro ma fondamentalmente per stretto uso personale, e ci si chiede il perché siano sempre insieme a condividere quel tipo di storie raddoppiando così la loro anomalia, una macchia sospetta e mobile che attira l’interesse delle forze dell’ordine, per esempio, un facile bersaglio per una perquisizione. Documenti. Cosa hai in tasca. Svuota lo zainetto. Il gatto e la volpe sono due tossici, ma per il resto sono innocui. Ora sono preoccupati, il gatto ha un controllo proprio la mattina dopo, un esame delle urine, dev’essere stato beccato e ora ha queste scadenze periodiche per dimostrare di sapersi tenere pulito. Ma pulito non è, nemmeno stasera. E la simbiosi è tale per cui il problema di uno è il problema dell’altro. Questa è amicizia. Quando li incontro mi chiedono se posso fare una cosa per loro, e per una volta non sono soldi né un passaggio. Ma vi rendete conto di dove siamo, gli dico, in una piazza centrale all’una di notte, e poi nessuno dei tre ha con sé un recipiente. La volpe tira fuori la confezione di tabacco, sfila la busta di nylon che la contiene e me la porge. Non serve a nulla fargli notare che non si tratta di un contenitore asettico, non voglio aumentare il livello della complessità. C’è un portone aperto, mi infilo lì dentro, vado dietro il vano dell’ascensore e riempio il sacchettino, per fortuna loro avevo lo stimolo. E in quel mentre penso ai residui di tabacco che si mescoleranno al liquido, a come lo porteranno a casa, a quanto tempo dovranno tenere quel recipiente di fortuna in mano, voglio dire, la mira a quell’ora nella penombra può essere imprecisa. Penso al fatto che le analisi a cui sarà soggetto quel campione riguarderanno me, e che quindi se sarà diagnosticato qualche disturbo il gatto si spaventerà, poi si ricorderà che non si tratta di roba sua anche se lui qualche disturbo poi lo ha avuto, e anche serio. Cerco di chiudere il nylon come posso, mi ricompongo e torno fuori. Sono entrambi lì, ai due lati dell’ingresso, le sigarette accese. Consegno la merce, mi ricambiano con un sorriso, evito di stringere loro la mano, hanno già di che sporcarsele.

dallo zoo al bioparco

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In effetti sono un po’ cambiato, cioè se sono passati quindici o vent’anni dall’ultima volta che mi hai incontrato è difficile che tu mi riconosca immediatamente, e non solo per la barba. Poi non bazzicando più il paesello non sei più abituato a trovarmi nei posti dove era facile vedermi, e se è molto tempo che non ci si becca a spasso non è che ti aspetti che la persona che hai davanti sia il sottoscritto. Poi, la domenica di estate a ridosso di ferragosto, le strade sono deserte. In giro vedi solo le stesse facce disperate, quelli un po’ sbandati e i reduci della vera generazione X, la generazione con la croce sopra nel senso che c’è stata una strage un po’ di anni fa dalla quale ne sono usciti superstiti ben pochi. Il body count delle vittime da eroina di quella generazione, gente che ha circa dieci anni più di me, è elevato se si fa un calcolo relativo. La cittadina è piccola, ci si annoia, e se il divertimento è a portata di mano difficilmente ci si rinuncia. Anche a costo di pagarne le conseguenze. C’erano personaggi addirittura mitici. Un ragazzone castano, capello lungo e mosso, bellissimo, uno tipo Jim Morrison per intenderci, che se lo incontravi era facile che ti minacciasse per avere un po’ di moneta. Una volta sfondò il vetro del portone di casa mia, a fianco di una farmacia, per trovare un angolo tranquillo in cui farsi. Poi lo trovarono morto di overdose l’estate stessa, per la strada come era la prassi. Magari in mezzo ai rifiuti indifferenziati.

I costumi poi si sono evoluti, persino nelle droghe, tranne per voi irriducibili. Fino a qualche anno fa era facile vederti in compagnia appunto di quel manipolo di sopravvissuti, in attesa dell’apertura del centro di distribuzione del metadone, un angolo già di per se squallido di un ex ospedale che avrebbe dovuto essere demolito già da un paio di decenni – il comitato di quartiere aggiorna giorno per giorno un grottesco calendario posto al’ingresso -. Finita l’era di quel modello assistenzialistico, avete iniziato a vagare come cani sciolti, vi siete dileguati. In effetti non ho mai più intravisto nessuno di voi. Chissà se avete smesso, se siete guariti, o se siete morti. Ho perso i contatti anche con tuo fratello, quindi l’ultimo aggiornamento sulla tua vita risale ad almeno cinque anni fa. Fino a quando, a spasso con la mia famigliola, forse anche per questo irriconoscibile, mi hai fermato per chiedermi qualche spicciolo. Nel 2011, qualche spicciolo. C’hai cento lire, no, ora si dice hai qualche centesimo, ancora più umiliante perché ti ricorda la moneta di Paperopoli e la mancia che Paperone elargisce ai nipoti per i servigi resi a suon di angherie. Dai, qualche spicciolo.

Poi mi guardi, hai un barlume di lucidità che probabilmente ti ricorda le notti di bisboccia, quel club o gli svariati tour dei locali alternativi genovesi il venerdì, le cose fatte insieme, il fatto che ci si conosce dalla prima elementare. E non so chi dei due sia più imbarazzato, chi prova la maggior vergogna, alle soglie dei cinquanta ancora costretto a chiedere l’elemosina per acquistare chissà che cosa. Ma esistono ancora i pusher? Ma il rito è ancora quello? La monodose, il cucchiaio, l’accendino, la stagnola, l’angolo nascosto, Lou Reed, Cristiana F., siamo ancora fermi lì? Scusa, non ti avevo riconosciuto. Ma è tua figlia? Che fine hai fatto? Scusami, davvero, è tanto che non ti vedo, con la barba poi… Va bè, stammi bene, ci si vede. No aspetta, tieni, ho due euro. No no, scusa, lascia stare, ciao.

emancipate yourselves from mental slavery

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Il 27 giugno del 1980 ero lì, non proprio sotto il palco ma nella massa di persone arrivate un po’ da ovunque per un concerto che è già passato alla storia. Bob Marley a San Siro, Milano. Stavo con I., ai tempi, che aveva una R4 scura costantemente satura di fumo, in tutti i sensi. Soprattutto di fumo di fumo. Di canna. Ma I. ed io eravamo già passati oltre. E quel pomeriggio, stesi nel prato in attesa della sera, tra una canzone di Pino Daniele e un groove della Average White Band, ci siamo strafatti. Eroina, certo.

Eravamo in tanti a strafarci. Se mi guardo indietro, non c’è stata la solita gavetta. Le Camel, la canna e la siringa. C’è stata tanta sfortuna, molta emulazione, un incidente dietro l’altro, un po’ di debolezza e di disinformazione, solitudine percepita non a livello individuale, ma di massa. Un esercito di giovani, soli tutti insieme, specialmente nel posto dove sono nata e dove ho vissuto. Gli spari intorno e i boati delle bombe che deflagravano lontano, sì, qualcuna anche in città. Ma chi se ne importa, stava già tutto per finire. Meglio chiudere la realtà in bianco nero fuori e concentrarsi sugli effetti stupefacenti e multicolore della droga. Hai mai provato l’eroina tu per parlare? Guarda, provala e poi mi dici. Non smetteresti mai.

E la cosa paradossale è come mi sono lasciata convincere a iniziare, così mi sono lasciata convincere a smettere. La mia famiglia si è ribellata e ho mollato I., quindi ho mollato l’eroina e ne sono uscita. Ma la sfortuna, dicevo. Non dalla sfortuna. Oramai si stava diffondendo come metastasi nella mia vita. Le scelte sempre sbagliate. Un marito alcolizzato, qualche anno dopo, quanto me. Ironia della sorte: ci siamo conosciuti in ospedale, entrambi già con il fegato a pezzi e l’epatite. Quando si è speso tutti i soldi del suo lavoro ancora in droga è scappato via, per fortuna.

Così ho puntato tutto sui miei genitori, su mia sorella, su un paio di cugini e qualche amico, quelli che però se ne approfittavano (avevate ragione voi, mannaggia), mi hanno chiesto soldi per i loro problemi e glieli ho dati. Praticamente tutti. Poi ancora tante bevute, un lavoro tutto sommato decente, ma che fatica. Qualche anno fa, infine, ho iniziato ad avere seri problemi. Psicofarmaci e alcol, a volte a giorni alterni, a volte contemporaneamente.

Avrebbe potuto essere altrimenti? Prima è morta mia mamma, poi poco dopo mio papà, che ormai era nel delirio più completo. Ed ecco che mi sono sentita nuda, non ho niente (se non una tetto che mi avevano comprato i miei, per fortuna) e non so cosa devo fare. Qui non c’è mai stato niente da fare. Sempre più vecchia, sempre più in crisi. Sempre a piangere, al telefono con tutti. E non c’era più mia madre, nessuno mi avrebbe più consolato.

Qualche mese fa, ho bevuto di brutto e preso le pastiglie. Sono salita sul motorino ma il coma etilico mi ha buttato giù. Hai pensato anche tu che fosse l’inizio della fine, vero? Io si. La polizia mi ha sequestrato lo scooter, non sarei potuta più andare al lavoro, ma quello era irrilevante. Il mio fegato ormai era finito. In ospedale sono stata messa in lista d’attesa per un trapianto. Sì, un trapianto. Non me l’avrebbero mai fatto. Perché se continui a bere, perdi il tuo posto. Vai in fondo.

Mia sorella e la sua famiglia, gli unici rimasti a prendersi cura di me, sono stati così cari. Ho trascorso il natale con loro, gonfissima, ma con un po’ di speranza. Di essere fortunata, almeno una volta, nella vita. E lo sono stata: stanotte sono morta. Ho spento tutto, a 50 anni. Anzi, una polmonite mi ha spento. Fa sorridere, vero? Sopravvissuta a un investimento in vespa, siringhe condivise, botte di alcool e tranquillanti. Chissà che altro che non ti ho mai detto. Per poi morire per una polmonite.

Scusa, ho perso il filo. Ti dicevo del concerto di Bob Marley a San Siro. Qualche settimana dopo, quell’anno, sul divano di velluto blu che era nell’ingresso di casa della zia, tua mamma. Io, tu, le tue sorelle. Ascoltavamo musica. Tu avevi 13 anni, giusto? Ma ti eri impallato con il reggae. Lo eravamo un po’ tutti ai tempi. Insomma, ho tirato fuori dalla borsa il biglietto, quella parte che rimane a chi va ai concerti, e che i fanatici come me e te tengono nel portafoglio. C’era Marley di profilo con una canna in bocca, su sfondo verde giallo rosso. Senza che me lo chiedessi ti ho regalato quella reliquia, visto che tu, a 13 anni, non avevi giustamente avuto il permesso di andare.

Senti però, prima che questa tua elegia funebre diventi patetica, e già lo è abbastanza, fai una cosa. Chiudi le virgolette, metti un punto e finiscila qui. E, se proprio vuoi dedicarmi un pezzo, che non sia Redemption Song“.

Ok Gabri, niente Bob Marley. Rimaniamo in silenzio.