alcuni aneddoti dalla settimana prossima

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Fate attenzione, però. C’è molta gente che poi arriva a un punto che non ne può più e passa gli ultimi giorni di vacanza anticipando quello a cui si troverà a far fronte di lì a poco, come se avesse applicato una sorta di dissolvenza stile transizione di Power Point tra due blocchi della propria vità, sporcando un po’ di qua e di là sperando che questo tipo di contaminazione – c’è un po’ di lavoro nelle ferie e e c’è un po’ delle ferie nel lavoro – porti giovamento e abbatta lo shock della fine di un qualcosa. Fate attenzione perché hanno un che di contagioso e il morbo che questi infiltrati del futuro sono in grado di trasmettere è un male contagioso e ti mette l’ansia. Cominciano a dare un’occhiata alla posta del lavoro, pensano a come risistemare tutta la roba in auto, credono sia meglio dare una riassestata ai capelli prima di ripresentarsi in ufficio e si chiedono se il barbiere di fiducia sarà già rientrato. Ma anche tutta la sfera domestica è fonte di questa deviazione nostalgica, anzi nostalgia deviante, perché puoi anche non essere uno che ha sempre la valigia in mano e/o la seconda casa in cui trascorrere i finesettimana ma alla fine durante l’inverno negli ambienti in cui abiti ci stai poco, quasi sempre con la luce accesa, molto spesso in fasi transitorie prima di buttarti a letto o di uscire per il lavoro. E questi li capisco di più, dopo due o tre settimane di assenza sentono la mancanza delle loro cose, magari hanno lasciato i gatti alla cura di amici e parenti, poi le routine a cui non pensano proprio perché sono routine e si eseguono meccanicamente ma quando non si eseguono per un po’ poi uno ci pensa, ai gesti e alle attività per allontanarsi dalle quali si paga e profumatamente. Poi metti che l’acqua è più fredda e la vita all’umido nel continuo susseguirsi di mare e docce e piedi da sciacquare inizia a stargli stretta e così questa gente che ha già attivato la procedura di reinserimento pensa che forse avrebbe fatto meglio a prevederla questa cosa che poi l’estate stufa e l’anno prossimo giurano che prenoteranno almeno tre-quattro-cinque giorni in meno perché più di così loro lontani da casa non ci sanno stare. Io di gente così ne ho anche un paio in famiglia. Una grande che rimpiange più che altro il suo materasso matrimoniale e le comodità da appartamento, l’ebbrezza di camminare senza sentire la sabbia tra le dita dei piedi e altre amenità minimali. Una piccola a cui mancano le amiche del cuore, le compagne di classe e addirittura non vede l’ora di ricominciare la scuola. Roba da pazzi, dico loro. Perché ci sarà tutto il tempo che vorranno per i piaceri dei doppi vetri, della lavastoviglie e dell’adsl. Del tempo pieno in aula e delle merende in cameretta, Diciamo così basta a questi anticipatori del dopodomani, che mesi prima di partire iniziano il conto alla rovescia e scelgono con cura le creme solari e poi, quando il soggiorno è agli sgoccioli, cominciano con i buoni propositi per la stagione a venire. Fermiamoci qui in questo istante che sa di iodio e di maestrale e impegnamoci una buona volta a scandire solo il presente momento per momento, onda dopo onda, venditore ambulante dopo venditore ambulante.

cerimonie di chiusura

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Domenica pomeriggio d’agosto, devo essere l’unico a casa nel quartiere perché nelle pause tra gli sbuffi del vapore del ferro da stiro –  le ultime incombenze prima della partenza per le ferie – fuori non si sente alcun rumore. La tentazione è troppo forte per non mettere un disco a un volume adatto all’occasione. Mentre i pezzi filano via uno dopo l’altro, che poi il bello dell’ascoltare i vinili è il fatto che dopo quattro o cinque canzoni bisogna girare il disco dall’altro lato, ogni tanto esco fuori sul balcone per vedere l’effetto che fa. E non è male, perché la musica invade gli spazi esterni fino all’esaurimento della sua portata e lì sotto, nelle vie adiacenti, un po’ si sente. Il che mi rende orgoglioso perché mi fa sentire il dj del momento. Addirittura spengo la vaporella che a lasciarla accesa inutilizzata consuma e scendo in strada, giro intorno all’isolato e in effetti dato che abito al secondo piano da lì si sente, eccome. Peccato non vi sia anima viva, sotto il solleone c’è solo un tipo strambo vestito da casa che svolge degli inutili test audiometrici sulla potenza del suo impianto hi fi. Ma poi la facciata del disco volge al termine proprio mentre mi decido a rientrare in casa e terminare la valigia, e a quel punto non è vero che subentra il silenzio che mi ero immaginato ci fosse. Da una delle villette più avanti si ode il commento a una gara olimpica, probabilmente una finale perché è l’ultimo giorno e non c’è più tempo per gare eliminatorie. Oro o argento, le possibilità sono limitatissime. Quest’anno mi sono divertito a seguirle in famiglia, mia moglie accesa sostenitrice dei velocisti e del nuoto, mia figlia appassionata di volley e di Bolt come immagino tutti i bambini, un po’ perché è imbattibile e un po’ perché fa ridere con il suo comportamento poco ortodosso. E anche io, che avrei voluto vedere la nazionale USA di basket ma alla Rai non si è vista.

E su quella telecronaca che non capisco cos’è ma che intanto cresce di volume sino ad avvolgere quel fermo immagine irreale che è la città in estate e a catturare la mia attenzione, penso alla prossima edizione dei giochi olimpici. Penso a scadenze come queste che sono così lontane tra loro che poi invece arrivano in un battibaleno e siamo tutti quattro anni più grandi, più adulti, più vecchi. Così appena rientro accendo anche io la tv e mi sento in sintonia con quel vicino di quartiere che non conosco ma che si diverte a seguire lo sport delle grandi occasioni. E faccio i calcoli sull’età che avremo nel 2016 e se Bolt sarà ancora il più veloce a Rio de Janeiro e che clima insopportabile ci sarà per gli atleti del nord Europa. Ma a me la ginnastica artistica – è quello che stanno trasmettendo in diretta – non mi entusiasma e poi mi viene in mente che devo finire di stirare e mi sovviene anche che stavo ascoltando un disco, prima di tutte quelle riflessioni. Spengo la tele, temporeggio ancora un po’ sporgendomi dal balcone, ma non si sente più nulla, forse il vicino si è stufato, troppo sport alla fine stanca, così ha deciso di spegnere la tv e aspetta che qualcuno, nelle vicinanze, metta un po’ di musica.

e l’ultimo chiuda la porta

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Leggendo questo post di Melusina ho ripensato a quanto mi ha detto un’amica, cioè che se non fosse per la voglia di fuga del marito e dei figli lei trascorrerebbe luglio e agosto a casa a godersi “gli altri” in vacanza. A me le ferie invece piacciono poco perché poi finiscono e l’abitudine a una situazione piacevole ma circoscritta perde nel confronto con il ripristinarsi dell’ordinarietà, un argomento molto debole, lo so, perché poi ci sono quelli che addirittura dicono che la vita è così e secondo questo punto di vista allora uno non nasce nemmeno e io a quel punto tra me penso che be’, in effetti. Ma poi alla fine cerco di godermele più che posso e come ancora di salvezza, come obiettivo di sopravvivenza al rientro che per me è ai primi di settembre mi dico che a tre mesi ci sono le festività natalizie e ci si ferma di nuovo. Ma è lo stare ad aspettare che tutti siano via la cosa che ogni anno mi rattrista di più, presidiare una casella di posta che si riempie giorno dopo giorno di risposte automatiche, una sfilza di cartoline dagli uffici vuoti spedite da quel inconsistente alter ego virtuale che rimane negli spazi di lavoro abbandonati a sé stessi. E ancora una volta aspetto che escano tutti, controllerò sede per sede che i clienti siano davvero già partiti, inserirò l’allarme alla fine dei mesi produttivi e metterò una professionalità in stand-by, sempre con il dubbio che al rientro ci sia energia sufficiente a riaccendere tutto.

la fortezza

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C’è quasi buio e fa caldo ma solo da una parte e io lo so il perché, stiamo salendo e alla nostra destra c’è il muro che ha assorbito i raggi del sole fino a meno di un’ora fa e ora lo caccia fuori tutto. Così abbiamo il vento che tutto sommato è fresco sul viso e questa irradiazione di calore sulla spalla e sulla gamba e sulla guancia destra, così mi hai detto prova ad appoggiare la schiena, prova ad abbandonarti sul muro e a sentire quello che sentiremo anche domani. Ci sono gruppi di turisti che scendono dalla cima così ti prendo per mano e ti spingo di fianco a me, a guardare la gente che torna giù e guarda noi che non sappiamo nemmeno se continueremo su o se ne avremo abbastanza, ma intanto ci sono queste mura roventi che ogni giorno da mille anni a questa parte traggono in inganno pellegrini antichi e moderni, catturano l’estate e la rilasciano di notte a chi si appoggia, come un’illusione. Da sotto si sente uno di quei pezzi che ogni bella stagione vanno per la maggiore e che si ballano qualunque sia l’arrangiamento, ti potrei cantare anche una decina di versioni differenti e soprattutto la più brutta che era pure una pubblicità di qualche cosa, sicuramente telefoni con comici discutibili come testimonial. Ma questa non è male, un po’ jazz e un po’ afro, la cantante può prenderla alta e farsi bella con la sua estensione vocale. Le luci in quel punto sono basse e ora non si vede quasi più nulla, i passanti sono molto abbronzati e non percepiamo nemmeno i lineamenti, per fortuna vestono quasi tutti di bianco, alcuni hanno anche il cappello a tesa larga. Possiamo spostarci ora, andiamo dove c’è un po’ di chiaro, se proseguiamo fino in cima corriamo il rischio di non sentire più nulla, solo la salita nelle gambe e le mani strette per la paura di perdersi.

per quest’anno non cambiare

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La fine può costituire un deterrente all’inizio di una qualsiasi cosa. Non si adottano gatti in casa per la paura che muoiano, d’altronde succede, prima o poi. Non si intraprendono storie d’amore complesse perché si è consapevoli che almeno uno dei protagonisti ne soffrirà. Non si va in vacanza perché un giorno poi si deve prendere la nave o l’aereo o l’autostrada del ritorno, e nel giro di 24 ore si è di nuovo qui, a scrivere che era meglio non partire nemmeno per poi stare così male alla fine. Ecco, quello delle vacanze potrebbe essere l’unico caso in cui si può scegliere la trama, decidere il proprio destino. Homo faber est suarum quisque feriarum.

Invece no. Tutti, ma proprio tutti, chiudiamo in agosto. Si stacca la corrente, ogni esistenza e relativo riporto passa in modalità stand-by, interi dipartimenti aziendali si trasferiscono in blocco. E non sapete quanto vi invidio, voi tre che vi siete fermati alle strisce pedonali per farmi attraversare. In tre nella cabina di guida di un camper, madre, padre al volante e ragazzino in mezzo, un camper da almeno 6 posti che lasciava supporre la presenza di altri familiari dentro. Tutti con quella faccia da predestinato, da chi può permettersi di partire un mercoledì mattina alle 8.30 da Milano per andarsene chissà dove senza il rischio di trovare traffico (tangenziali a parte), code all’imbarco dei traghetti, lidi affollati, italiani in viaggio e bancarelle fricchettone.

Ma sappiate, voi tre o quanti eravate davvero su quel camper, che la fine della vacanza arriverà puntuale, la fine è tale e non ammette proroghe. Chissà, potrà coincidere con il giorno della partenza dei comuni impiegati, il 15 agosto, quando i comuni impiegati si incolonneranno in direzione di Civitavecchia a prendere l’unico traghetto per la Sardegna trovato a un prezzo accessibile, e ci sarà anche il resto del mondo degli impiegati comuni, perché non si può triplicare il costo di un viaggio in nave in 12 mesi.

E poi, una volta allestita la tenda nella piazzola – prenotata a febbraio con difficoltà perché tutti vogliono essere lì in agosto – in Costa Rei dopo solo 36 ore di viaggio, i comuni lavoratori, dipendenti e non, possono bearsi della vista delle tende dei vicini, con il classico piglio invidioso per i tedeschi e i francesi, numerosissimi, silenziosissimi, attrezzatissimi e austeri. E gli italiani, impiegati comuni, arrivano stremati come ogni anno, a quella data, perché le ferie andrebbero fatte come le fate voi tre camperisti, a giugno, appena i bambini finiscono la scuola e, in una realtà ideale, quando dovrebbe finire anche tutto il resto.

La scena è quindi facile da immaginare: c’è un ragazzino seduto in mezzo a genitori camperisti e fabbri del proprio destino, perché se sono lì al suo fianco in canotta alle 8:30 di un giorno di metà giugno è perché hanno in qualche modo riscattato il proprio tempo e la propria vita come si fa quando estingui un mutuo perché hai vinto un’eredità grazie alla morte di un tuo parente, con la quale magari ti sei comprato anche il camper. Un ragazzino che mi guarda con quell’espressione perplessa che a quell’età resta accesa non più di qualche istante, forse perché, attraversando la strada sulle strisce, gli sto rubando una manciata di secondi di estate.