l’inventore dell’automobile che va a peli di gatto messo a tacere dalle lobby del petrolio sveglia!!1!11!!

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Si chiama Lorenzo De Paoli ed è uno dei precursori del trend dei cervelli in fuga. Il suo cervello, e che cervello, è stato valutato tanto oro quanto pesa, poi il risultato è stato moltiplicato per una cifra a dieci zeri e insieme al resto del corpo ha fatto armi e bagagli e si è trasferito ai Caraibi dove, da quasi vent’anni, l’insieme dei suoi organi – tutti perfettamente funzionanti e gaudenti – conduce un’esistenza da nababbo. L’ingegner De Paoli è l’inventore di un avveniristico motore che al posto della benzina sfrutta i peli di gatto. Si tratta di una scoperta ancora più sensazionale dei motori ad acqua o a olio di colza o a esalazioni prodotte dai rifiuti perché, con tutti i gatti che ci sono al mondo, è in grado di mettere in ginocchio il sistema economico mondiale che, da sempre, si basa sui petrol-dollari, sull’oro nero e sugli equilibri geopolitici controllati dai poteri forti che le pensano tutte per tenerci sotto controllo e spartirsi la quali totalità delle ricchezze e delle risorse di questo pianeta alla faccia nostra.

Ma attenzione: non sono i peli di gatto ancora attaccati ai gatti quelli utili a far funzionare il motore di De Paoli, gli amici animalisti possono dormire sonni tranquilli, almeno finché i loro gatti non li svegliano perché hanno fame. Nessun pelo sarà torto ai nostri buffi amici domestici. Se il pelo viene rasato o strappato perde infatti tutta la sua carica combustibile e vede svanire l’efficacia energetica.

I peli di gatto che avrebbero potuto dare una svolta sostenibile alla nostra civiltà sono quelli che cadono naturalmente in certe stagioni e che noi proprietari di felini troviamo un po’ dovunque in casa. Io ne trovo nei posti più impensati: nel freezer, nel lettore cd del mio portatile, persino nella plafoniera della cucina quando mi accingo a sostituire le lampade a basso consumo. Nei giorni estivi di vento, lasciando le finestre aperte, torno a casa e mi si presenta uno spettacolo degno dei film di Sergio Leone con il grande Clint che fa il pistolero. I peli di gatto risucchiati in piccoli vortici di aria rotolano per casa come il “bush” nel deserto, avete presente?

Chissà se l’ingegner De Paoli ha avuto l’illuminazione perché esasperato come noi dai peli di gatto, che finiscono ovunque e di cui non ci libereremo mai nemmeno quando, tra trenta o quarant’anni, i nostri attuali mici saranno cenere e, sull’onda delle precedenti esperienze, di gatti non ne vorremo più sentir parlare. Così De Paoli ha messo a frutto il suo intuito da scienziato e ha trovato il modo di trarre vantaggio da uno dei fattori più invalidanti della nostra armonia famigliare. Grazie a un particolare impianto di aspirazione che filtra l’aria selezionando i peli di gatto presenti nelle stanze che abitiamo, l’ingegner De Paoli ha raccolto tonnellate di peli di gatto che poi, grazie al suo motore, possono muovere automobili e qualunque tipo di trasporto su gomma con costi irrisori. Pensate a quanti gatti ci sono al mondo e quanto pelo perdono. Non ricordo addirittura chi sosteneva la teoria per cui il buco dell’ozono è causato proprio da veri e propri banchi di peli di gatto che, condensandosi, vanno a farsi beffe della nostra atmosfera.

Ma frenate i vostri entusiasmi. Le multinazionali che maneggiano il petrolio, venute a conoscenza della notizia, hanno allestito una colletta stra-miliardaria (d’altronde era interesse di tutti) e hanno offerto a De Paoli la felicità più sfrenata in cambio del silenzio. Ora l’ingegnere fa la bella vita in un posto da sogno con donne da sogno, del suo brevetto se ne sono perse le tracce e noi, poveri proprietari di gatti domestici, non solo siamo costretti a respirare gli scarichi dei motori a benzina senza soluzione di continuità ma lottiamo quotidianamente contro i peli di gatto sui nostri divani, sui nostri abiti e persino nel nostro cibo.

il post definitivo sui gatti domestici

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Tra diecimila anni, quando gli alieni sbarcheranno su questo pianeta privo di vita e scopriranno tra le macerie di un data center scampato alla catastrofe definitiva un hard disk che in qualche modo riusciranno a collegare a qualcosa e a vedere che cosa contiene, si troveranno di fronte alle vestigia di una civiltà che usava tappezzare le pareti dei propri ambienti virtuali di foto di gatti.

Gatti di ogni razza, colore, dimensione, età. Gatti in tutte le pose, buffi, grassi, denutriti, sani e malati, mentre giocano o dormono o graffiano o fissano qualcosa che noi non vediamo. Da quello che rinverranno nell’hard disk, gli alieni quindi potranno desumere che la nostra civiltà faceva cose come riprendersi durante la pratica del sesso in tutte le sue varianti, esprimersi con punteggiatura discutibile (ciò significa che gli alieni leggeranno questo blog) e osservare una religione basata sul culto dei gatti domestici. Oppure arriveranno a pensare che i gatti domestici a un certo punto abbiano preso il sopravvento sugli esseri umani imponendo la loro legge naturale che, se avete gatti in casa come il sottoscritto, è spesso in antitesi con la nostra.

Venerdì in pausa pranzo ho riflettuto, rispondendo a una domanda di un’amica, sul fatto che due gatti in casa mi costano una media di 2.50 euro al giorno di cibo, cioè 75 euro al mese a cui va aggiunta la lettiera igienica, per un totale di circa 90 euro al mese, e tenete conto che i miei due gatti non mangiano secco perché la gatta, a differenza del fratello, il secco lo vomita all’istante da sempre. Partendo da questo dato – ma non è la prima volta da quando, sei anni fa circa, li ho accolti in casa mia – ho pensato al senso di avere dei gatti in appartamento.

I miei gatti mi svegliano da sei anni a questa parte ogni fucking mattina tra le 4.30 e le 6.00 per essere nutriti. La cosa buffa è che il maschio, che si chiama Oliver ed è il più sfrontato, per non dire il più cagacazzo, ha affinato con il tempo una tecnica di miagolio sottovoce perché ha capito che facendo così sveglia solo me e non mia moglie o mia figlia. Al miagolio sottovoce aggiunge la carezza con unghia, le leccate sul mento e vari classici del sadismo felino come le camminate disinvolte sull’addome umano oppure i raspamenti dell’abat jour, sull’anta dell’armadio o sul comodino. Ho provato a chiuderli in sala ma Oliver il cagaminchia inizia a miagolare – in questo caso con il suo registro standard – e continua senza ritegno finché non gli apri, con il rischio di svegliare tutto il condominio.

Non c’è un momento della giornata trascorsa in casa in cui non abbia nel mio campo visivo almeno un gatto. Mi siedo al pc e inizia la solita solfa dei passaggi sulla tastiera tasto invio compreso, gli strusci sull’angolo dello schermo, poi le fusa e il posizionamento sulla mano che governa il mouse fino al mettersi sulle gambe. Mi sdraio sul divano e arrivano immediatamente addosso per condividere la pennichella con me. Mi metto a fare colazione ed eccoli a dare testate sulla tazza per tentare di accattivarsi gli avanzi, per non parlare a pranzo e a cena e non solo se c’è carne o pesce. I miei gatti sembrano apprezzare di tutto, persino la pizza, così devo interrompere il pasto per catturarli e chiuderli di là ma poi iniziano a miagolare, così mi tocca aggiungere un posto, anzi due, a tavola.

Poi mi guatano in continuazione, si siedono sull’asse dietro di me quando sono al gabinetto, devo lasciarli soggiornare in bagno mentre faccio la doccia, gli parlo e mi rispondono in un linguaggio tutto loro, ogni tanto vomitano anche le scatolette e nel migliore dei casi me ne accorgo e riesco a pulire il pavimento, nel peggiore calpesto le loro schifezze o le devo togliere dal computer portatile, che per fortuna lascio sempre chiuso. Appena mi alzo dalla sedia, dal divano o dal letto si precipitano immediatamente dietro di me per capire se è il momento di mangiare. Se passo a fianco della gatta, che si chiama Doremi, lei mi dà una specie di “poke” felino brancandomi con la zampa unghie incluse perché vuole essere accarezzata. Oliver fa la stessa cosa ma è molto più materiale. Mi si piazza addosso e mi sbrodola ronfando con quella roba che gli scende dal naso e quando scrolla il muso spruzza dappertutto come fanno i cani dopo il bagno, senza risparmiare nulla tantomeno il monitor del pc.

Un capitolo a parte meritano i danni che hanno provocato in casa, a partire dal rivestimento del divano e delle poltroncine della sala (il tappezziere mi è costato quasi 1500 euro), da tre bocce di vetro di una lampada anni 70 ricordo di zia Pina, che vanno ad aggiungersi ai tiragraffi da venti euro a botta che posiziono nei punti strategici come deterrente ai tessuti più preziosi (come quello nuovo del divano e delle poltroncine). L’elenco comprende i buchi sulla schiena delle t-shirt: un classico della richiesta di attenzione quando hanno fame è saltarmi sulle spalle da dietro mentre sono seduto alla scrivania, una modalità con cui non risparmiano cose più preziose come le maglie di lana. Ma non è tutto. Se devo dedicarmi a un lavoro di precisione con cacciavite o pinza, magari uno di quelli in un punto in cui si fa fatica ad arrivare, ecco che corrono a impicciarsi di quello che sto facendo annusando dita e arnesi. Quando mi appropinquo allo stereo per mettere un disco, Doremi corre e salta sulla fila di vinili impilati con il suo miagolio da gatta morta (e invece è viva e vegeta) e vorrebbe pure provare l’ebbrezza della rotazione sul piatto credo ma non c’è mai riuscita perché la faccio volare a terra prima che combini qualche disastro sulla mia collezione di quarant’anni di ascolti musicali, a cui tengo più di tutto il resto che ho elencato fino a qui.

C’è poi il fattore vacanze. Ogni anno è la solita storia se dobbiamo partire. Per fortuna abbiamo gli amici del quinto piano – anche loro proprietari di una micia – con i quali ci scambiamo le operazioni di accudimento, ma in ogni occasione dobbiamo far fronte alle difficoltà organizzative. Lo scorso anno Doremi per farmi capire il suo disappunto mentre preparavo le valigie ha fatto la pipì sul mio abbigliamento da corsa a poche ore dalla partenza, le dovrei quindi addebitare anche un set completo di maglietta, pantaloncini e calzini in tessuto tecnico se gli animali domestici fossero in qualche modo redditizi.

Inutile dire che in questo momento, mentre sto scrivendo il post definitivo sui gatti domestici, si avvicina la loro ora di rifocillamento e Oliver continua a fare le vasche sulla scrivania strusciandosi sul mio mento. Vi chiederete perché, pur essendo gatti di tutta la famiglia, abbia scritto questa lista di attenzioni feline come se fossero unicamente rivolte a me. La risposta è perché fatto cento il rapporto tra loro e noi, novanta è quanto li ho io sul groppone, in senso proprio e figurato e non certo perché l’ho deciso io, ma perché, da perfetti opportunisti, l’hanno scelto loro.

La conclusione di questa riflessione la lascio a voi, soprattutto se state per prendervi in casa uno o più gatti. I gatti sono furbi ma sono comunque una versione tamagotchi dei cani, e con questo non voglio alimentare il dibattito tra canisti e felinisti. Scordatevi che i gatti siano animali indipendenti perché in appartamento si rompono i maroni e, per una forma di contrappasso o transfert imposto della loro legge naturale, rompono i maroni all’essere umano più debole e consenziente che trovano a disposizione. Lo stesso che poi tappezza i suoi ambienti virtuali con millemila primi piani dei suoi gatti, fermo restando che questi due, al secolo Oliver e Doremi, giuro saranno gli ultimi animali domestici che metteranno le loro zampotte vellutose in casa mia.

Cattura

bestialità di agosto

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Ancora a proposito di aggiornamenti, il gattino che avevo eroicamente strappato a un destino crudele lungo un’autostrada toscana ora è un gigantesco felino che vive a casa di mia cognata, io non avrei potuto tenerlo visto che ne ho già due. Probabilmente porta i segni dell’esperienza di aver viaggiato incastrato in una feritoia di un’automobile, nel senso che non ha proprio un carattere addomesticabile. Comunque a suo modo è affettuoso. Ha persino subito una confusione di genere, nel senso che si pensava fosse una gattina e per qualche mese è stato chiamato con un nome femminile, fino a quando l’appartenenza è risultata inequivocabile così gli è stato affibbiato un nome maschile ma sempre terminante con la lettera a, forse per mitigare un passaggio transgender che lo avrebbe frustrato ulteriormente.

Invece non so più nulla del caro vecchio cane che aveva infilato l’ascensore per errore trovandosi poi in un appartamento simile a casa sua ma sistemato diversamente. Ho cambiato ufficio da un anno circa e non ci siamo più incontrati. Spero che lui (o lei) e relativo padrone che, come si dice, si assomigliano in tutto e per tutto continuino il loro menage quotidiano fatto di attese, per uscire e tornare a casa, perché in fondo la vita è così e ce ne accorgiamo se sbagliamo piano.

Avere cani d’altronde è una grossa responsabilità, e se vi ricordate bene il mio rapporto con il più fedele amico dell’uomo è piuttosto variabile soprattutto quando vado di corsa e devo per forza attraversare luoghi frequentati da chi li porta a spasso. A volte invece ho proprio paura perché fanno paura i loro proprietari, e quando te ne ritrovi uno che si è perduto – nolente o volente – è sicuramente da maneggiare con cura. C’è poi il dolore di quando cani e animali in genere si separano da noi, e lì ci accorgiamo del valore dell’esperienza di averli adottati. Se siamo quel che siamo, in fondo, è anche grazie a loro.

Quanto ai miei, di animali, anzi, di felini, ogni tanto spargo notizie e foto qui e là. Tutto sommato fa piacere averli per casa, un po’ meno notare che non perdono le cattive abitudini di svegliarmi a ore assurde, fino a quando combinano disastri o svomitazzano il cibo sul pavimento e allora devo rileggermi storie come queste per ricordarmi il motivo per cui ho deciso di condividere i miei spazi con loro.

momento luddico

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A che serve una sveglia quando si hanno due gatti?

se non ce l’hai nel sacco

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In principio era solo una bambina. Poi si è aggiunto un pesce rosso nella sua boccia di vetro, ma si sa, non sono molto interattivi i pesci, e la bambina voleva un animale più incline ai rapporti con il genere umano. Gli animali aiutano a crescere, diceva sua moglie, sono educativi, affinano il senso di responsabilità. Sarà. Il papà ricordava ancora i gatti da appartamento con cui ha condiviso parte della sua crescita. Il primo, anzi secondo in ordine di arrivo, era praticamente inavvicinabile, raccolto chissà dove e caratterizzato da un approccio aggressivo avuto come imprinting nei confronti dei bipedi di sesso maschile, calzanti scarpe n. 44 di fattura abbondante e di colore scuro. Probabilmente aveva avuto un duro scontro con un anfibio, e la sorte ha voluto che proprio nell’appartamento in cui gli era stata offerta una seconda opportunità convivessero già entrambi gli allarmanti particolari, il maschio e la calzatura rinforzata n. 44 nera, quindi la sua vita di felino non era migliorata di molto. Pasti caldi (si fa per dire) e sicuri, ma sempre all’erta e unghie pronte. Il secondo, anzi primo in ordine di arrivo, era un esemplare extralarge, poco più che un soprammobile a causa della stazza raggiunta dopo anni di pietanze eccessive e di vita sedentaria, campato non si sa come fino a 17 anni, i peli del quale è facile ancora trovare in qualche anfratto nascosto di quel monumento alla “vita che fu” che è la casa-museo in cui il papà era nato. Per farvi capire, il soprannome di quel gatto era “Supersize Meow”. Morti entrambi i felini, il papà oramai adulto ha evitato di un soffio l’arrivo della terza gatta, la meno socievole mai vista nella storia degli animali casalinghi. Per sua fortuna viveva già altrove. Ma i ricordi delle nauseabonde lattine di cibo per gatti aperte la mattina presto, o della lettiera impregnata dei loro scarichi, confinata negli ambienti meno frequentati della casa, ma comunque da pulire e rimescolare ogni dì, erano ancora vivi nella sua memoria, e si era ripromesso che mai più avrebbe condiviso i suoi luoghi con esseri viventi dotati di più di 2 gambe e privi della funzionalità del pollice opponibile. Tenendo conto che le scimmie non possono essere adottate, la scelta si era ridotta di molto.

E invece, per farla breve, un bel giorno è bastato un attimo di debolezza, più che distrazione, ed è accaduto l’irrimediabile. Un gatto, sì papà prendiamo un gatto, sì caro un gatto riempirebbe di più la casa. Ma poi come si fa in vacanza? Ma sì, una soluzione si trova. Ma poi si sentirà solo tutto il giorno in casa mentre siamo al lavoro e lei a scuola. Allora prendiamone due, così si tengono compagnia. Sì papà prendiamone due, due fratellini, così possono giocare anche quando noi non ci siamo. No, non se ne parla, e i peli, e il veterinario, e il buco nella porta finestra per farli uscire, e la puzza, e insomma va bene, prendiamo due gatti. Ecco. Il caso poi ha voluto che il pesce rosso si suicidasse proprio la sera prima del loro arrivo, quindi non ha potuto nemmeno salutare i suoi nuovi due compagni di ventura. E ora voi non potete vedermi, ma oggi, primo giorno di ferie, sono ancora a letto, ho il pc portatile in grembo, e malgrado i 30 gradi ho due gatti, sorella e fratello, pigramente appisolati lungo le mie gambe. E, appiccicata al mio fianco, c’è anche la  bambina che li ha pretesi, che si gode il sonno del mattino. Non vi dico la sensazione del contatto tra corpi caldi in agosto, ma, tutto sommato, sorridendo, mi sento di dire che va bene così.

autogatto, storia a lieto fine di un felino abbandonato

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Dunque, sono in ingresso al casello autostradale di Bettolle (SI), sono lì fermo perché pur pigiando ripetutamente il pulsante, il biglietto non esce. Scendo a smadonnare accanendomi sul sistema di richiesta di aiuto, nessuno risponde, la barra è su e Autostrade per l’Italia non dà segno di vita. Nel frattempo si forma la coda dietro e cresce il mio imbarazzo di contribuire al traffico del rientro dal ponte. Improvviso una sorta di danza propiziatoria per convincere gli automobilisti a cambiare porta, facendo i gesti più preoccupanti del mio repertorio. Come se non bastasse, il tizio sull’auto appena dopo di me mi dice di stare attento a ripartire, ho un gattino sotto il veicolo. Mi chino, ma appena quello mi vede, è minuscolo, avrà a malapena un mese, con un balzo salza dentro un anfratto dell’auto (non chiedetemi quale, la mia conoscenza dei motori è meno che inqualificabile).

Panico, partono i primi clacson, spunta anche il biglietto dalla fessura. Porto l’auto più avanti di qualche metro, mi metto carponi ma non si vede nulla. Memore di Pollicino, azzardo un sentiero di pezzettini di prosciutto crudo tra il sotto dell’auto e me, l’unica cosa commestibile che è sopravvissuta alla vacanza. Ma il terrore e il trambusto sono troppi, nulla vale un nascondiglio sicuro. E, mio caro felino in miniatura prossimo al sacrificio, quel nascondiglio è un simulacro di salvezza, che addirittura ti può essere fatale. Nonostante ciò, l’istinto opta per l’immediato certo.

Così mia moglie ed io cerchiamo di far capire a nostra figlia che purtroppo non c’è nulla da fare, non c’è soluzione alcuna. Il gattino è stato abbandonato, così piccolo probabilmente avrà appena lasciato il resto di un gruppo di fratellini, l’accostamento animali-arterie stradali haimè non lascia scampo. Ci abbiamo provato, ma probabilmente è un segno che la natura e il destino debbano seguire il loro corso. Noi anche, se vogliamo tornare a casa. Avvio il motore, ingrano le marce e mi rimetto in viaggio. L’umore nell’abitacolo non è dei migliori. Magari nel frattempo è già caduto, appena avrà sentito il motore sarà fuggito. Chissà.

Mi fermo comunque al primo Autogrill perché ho avuto un’illuminazione, che in realtà avrei potuto avere anche prima. Proviamo a sollevare l’auto con il cric. Mentre mi accorgo di esserne sprovvisto, è mia moglie ad avere la tragica visione: si vede uno zampino penzolare inerme dalla fessura in cui il gattino ha trovato rifugio, sotto la vettura. Mi chino e confermo il nefasto presagio. E comunque conviene intervenire asportando quel che rimane del cadavere, mica posso lasciarlo lì. Una coppia di clienti alle prese con il self service si mobilita per prestarmi l’attrezzo, il mio devo averlo lasciato chissà dove quella volta che in Sardegna ho forato, rientrando sulla strada sterrata del campeggio ebbro di Monica di Sardegna dall’agriturismo. Riesco a sollevare l’auto il minimo sufficiente a far passare la testa e il torace e vado in immersione, non senza il timore che il cric ceda e che giornata, ponte ed esistenza finiscano lì, sull’asfalto rovente di una stazione di servizio. Provo a toccare la zampetta, che si ritrae all’istante. Rassicuro il pubblico sullo stato di salute del micino, che ora riesco a guardare negli occhi (aperti). La zampetta lascia il posto alla coda che afferro con forza riuscendo così a staccare il gattino da lì, a prenderlo al volo e a tirarmi fuori da quella pressa in potenza, gatto alla mano.

Il piccoletto, in condizioni perfette e senza nemmeno una bruciatura ma comprensibilmente fuori di sé, non mi ha risparmiato le dita di graffi ed è stato così immediatamente riposto in uno scatolone di cartone fornito da una dipendente dell’Autogrill, solidale alla causa. La seconda esperienza di vita di Autogatto o “Telepass” (si vedrà che nome scegliere) sicuramente meno avventurosa di un viaggio ai 130 aggrappato al fondo di un’auto è stata quindi un faticosissimo rientro a Milano dopo nove ore di coda. Che comunque, sano e salvo, potrà raccontare alla sua famiglia adottiva.