mio figlio è un fratello unico

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Avere fratelli o sorelle non è una bella esperienza. Con tutte le eccezioni del caso, sia chiaro, penso ai fratelli Cervi, ma da queste parti la brotherhood con parentela di primo grado è stata un vero danno tendente al disastro con avvocati di contorno. Un’esperienza che ha fatto piazza pulita del passato, terreno bruciato intorno a un’idea di roots, sbilanciamento dei pesi e punti riferimento esterni solo su passato prossimo e il presente. Il futuro, chissà. Di certo non può migliorare le cose, sanare ferite, consentire ai dissapori di riassorbirsi quando ormai, abbondantemente tracimati, hanno inquinato ogni dove. E, per quello che ricordo, non ho beneficiato di una guida fraterna nemmeno da ragazzo: al massimo ho avuto una debole indicazione su qualche gruppo musicale di riferimento, spazzato via al primo virgulto di ribellione adolescenziale, favorito da gente del calibro di Joe Strummer, e nient’altro. Cresciuto con la status honoris causa di figlio unico a tutti gli effetti, ora mi rammarico del fatto che non sia la mia condizione naturale. Perché subire un torto intra moenia è disorientante, ordire una trama più o meno criminale facendo forza sulla fiducia fraterna è diabolico.

Né io né mia moglie abbiamo impostato in partenza la dimensione che la nostra famiglia avrebbe dovuto avere. E crescendo, la nostra primo e “unicogenita” ha più volte manifestato il desiderio di una sorellina, pensando a quanto potesse essere più completa la struttura di noi, avere una complice più o meno coetanea in un letto a castello, una compagna di viaggio con cui cantare le filastrocche in coda al casello al rientro dalle gitarelle domenicali. Un’alleata nei contrasti contro i gruppi di fratelli o cugini nei giochi all’aperto, nei campeggi, al parco dopo la scuola. Ci siamo fermati a uno non per nostra scelta, ma abbiamo preferito non accanirci. E, col senno amarissimo del poi, va bene così. Meglio un amico, pochi amici, tanti amici. Mia nonna e suo fratello hanno trascorso 50 anni della loro vita, fino alla morte, senza rivolgersi la parola per una striscia di terra. Ecco una maledizione contadina che si perpetua nelle generazioni. Ma così, con una figlia unica, si estinguerà con me.

monsters & co

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Mia figlia si indispettisce spesso quando in casa, tra amici, o al telefono, sente mamma e papà discutere di politica. Quando cerchiamo di seguire un telegiornale, giusto per non dipendere da Internet come unica fonte d’informazione, ma lì la capisco, a quell’ora le piacerebbe rilassarsi sul divano e guardare un cartone dal media player. Quando viene il Beppe, e si discute sul partito, sulla sua riorganizzazione, sulle iniziative per portare la politica al territorio, per farla percepire come uno strumento di governo dal basso e una sorta di pannello di controllo per decifrare quello che succede. O quando siamo su un sentiero di montagna, squilla il telefono ed è l’amica che ci aggiorna sull’ultima schifezza del governo in auge, sul tale o talaltro processo del premier, e via dicendo.

In effetti, mia figlia ha i suoi buoni motivi, per indispettirsi. E siccome è mia moglie quella più dentro alle questioni, io prendo da parte la piccolina e cerco di farle capire che sì, che i grandi parlano di cose che possono sembrare noiose, ma che è come se in classe doveste prendere una decisione importante ed è necessario discuterne, sentire il parere di tutti, convincere tutti a partecipare perché è così che funziona la società, anche una micro-società come quella di una seconda (a breve terza) elementare. Che, insomma, quello che succede intorno a noi, e intorno ai grandi, dovrebbe anche interessare i bambini, perché tutte le decisioni che passano attraverso il confronto politico riguardano anche loro.

Ma lei si imbroncia di più, e mi dice che no, non è vero che riguardano anche i bambini, e che in classe, tra compagni, ci sono argomenti ben più interessanti su cui discutere. Le chiedo di fare un esempio. Lei mi guarda con quella espressione che fa quando sa che sta per dire una cosa che mi contrarierà, un misto tra timore, il fascino della sfida sferrata ai genitori e il dispiacere di dare al nostro dialogo una venatura di contrasto. Quindi mi dice un nome, il nome è Yara.

A casa stiamo il più possibile attenti a lasciare nostra figlia esposta agli input esterni da sola, sia di attualità che di puro entertainment, senza il nostro filtro almeno finché ci sarà riconosciuta l’autorevolezza di fonte e di opinionisti, a costo di subire, come succedeva anni fa, interminabili gag dei Teletubbies, o di testare i film anche più assurdi per bambini con l’obiettivo di evitare le distorsioni della realtà che l’informazione mediata dalla tv è in grado di dare. Per farvi un esempio, l’unica volta che non ho controllato un cartone animato trovato in rete, scelto da mia figlia per una visione collettiva con nonni e zii, si è rivelato essere un film porno, non vi dico l’imbarazzo tra gli adulti seduti sul divano, una domenica pomeriggio, di fronte alla prima scena che stava per svolgersi in giardino.

Stesso discorso per la cronaca nera, che abbonda nella scaletta dei telegiornali. Non abbiamo trattato insieme di fatti inquietanti come l’omicidio di Yara Gambirasio, anche perché, per un genitore di una figlia femmina, confesso essere argomento molto difficile. Ma ammetto l’errore, perché considerando tutta la storiografia che ne è derivata, inerente immigrazione e xenofobia, pedofilia, comportamenti devianti di un branco eccetera eccetera, è facile immaginare come i dettagli possano arrivare a una bambina di 7 anni di rimbalzo a scuola. E la sintesi fatta dai bambini di quella età, mettendo insieme le voci del tg, le interviste voyeuristiche di programmi squallidi seguiti in case in cui la tv si accende oramai per riflesso incondizionato non appena si torna dal lavoro, forse per colmare i silenzi e la mancanza di dialogo, la sintesi contiene il peggio del peggio in diverse varianti. Il marocchino che l’ha rapita per rubarle lo stereo che stava riportando in palestra, l’istruttore di ginnastica adulto che spia le ragazzine durante le gare, il muratore rumeno che la voleva portare in discoteca. E ogni bambino partecipa attivamente al confronto, probabilmente, mettendo del suo, e il suo è quello che ha assimilato la sera prima, durante l’ora di cena. L’argomento deve aver colpito molto l’immaginario infantile, visto che le sessioni di discussione si sono protratte per tutto l’anno scolastico, a quanto pare.

E a quel punto il danno è fatto; perché rimettere insieme le tessere di un puzzle, già di per sé difficile, magari scremando la narrazione dai dettagli più piccanti che possono stimolare la fantasia di un bambino, è una partita persa in partenza. Sono certo, e mi serva come lezione per il futuro, che insieme alle storie che più l’appassionano, sto pensando a Ulisse nell’antro di Polifemo, o Clorofilla di Bianca Pitzorno e alcune amene avventure di animali antropomorfi visti sul grande schermo, tra le reminiscenze dell’infanzia di mia figlia e dei suoi amichetti, una volta cresciuti, troverà posto anche la storia epica di una ragazzina presa e uccisa da chissà quali esseri cattivi. Gli alieni, chissà.

quando deframmentare non serve più a nulla

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Sapete quanto ami usare l’informatica come metafora dell’umana natura, ho vissuto tutte le fasi della sua evoluzione e della cosiddetta democratizzazione dei computer, dispositivi ridimensionatisi da elementi di laboratorio per cervelloni a elettrodomestici da poche centinaia di euro alla portata di (quasi) tutti. E non c’è nulla che come un hard disk che mi consenta di raffigurare la memoria di un uomo che, per l’età, inizia a dare segni di cedimento. File che non si trovano, errori di ridondanza ciclica, difficoltà nell’ordinare nella giusta sequenza operazioni elementari. Accorgersi che una persona che conosci da una vita intera, perché è la seconda persona che ti ha visto appena nato, perde di lucidità è un’eventualità spiazzante, cancella punti di riferimento, suona come un’anticipazione di una storia che sta per iniziare, di cui si immagina il finale e si spera sia, comunque, decoroso. Non sono pronto, è la prima cosa a cui ho pensato. Ma chi lo è.

errata corrige

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Fate così: entrate in una libreria, una qualunque, e guardatevi intorno. Tutti quei libri più o meno ordinati e impilati su scaffali, anche il tavolo delle novità e i tavoli tematici, tutti quei volumi (o quasi) sono pieni di drammi familiari. In ognuna di quelle storie – mi riferisco alla narrativa, of course, ma non è detto – ci sono uno o più eventi tragici, o folli, o semplicemente significativi, che hanno come protagonisti una coppia di genitori e i loro figli, e questi ultimi ne pagheranno le conseguenze, belle o brutte e più o meno determinanti nell’economia della trama, per il resto della loro vita. Anche oltre l’ultima pagina e la quarta di copertina, genitori che a loro volta sono stati figli di genitori che a loro volta sono stati figli di genitori e così via, dalla notte dei tempi in sæcula sæculorum. Amen. Questo naturalmente perchè ciascuno di noi, nel suo quotidiano, è la somma del vissuto della sua famiglia. Che poi, la cosa paradossale, è che si tratta solo di poco tempo, diciamo un quinto della propria esistenza, se paragonato alla vita intera, quello trascorso con i genitori, dalla nascita all’emancipazione, un imprinting così caratterizzato dalla loro presenza, o al contrario dalla loro assenza, che ciascuno si porta dentro. Eppure così decisivo. E si pensa pure di essere in grado di riciclarlo quando, a nostra volta, vogliamo emulare mamma e papà come pedagogisti, anche quando ci impegniamo a comportarci all’opposto. Genitori che ci sono stati troppo, o che sono mancati creando voragini sotto. Ciascuno di noi, provate a guardarvi dentro, si porta appresso questa scatola nera con tutte le esperienze fatte nei primi venti o poco meno anni della sua vita, tutti i dialoghi registrati, tutti i gesti fatti o lo spazio vuoto per quelli mancanti, tutti i no che aiutano a crescere e tutti i si che danno un più uno in sicurezza. Se ti hanno voluto bene da piccolo avrai solo le cose principali, il superfluo resta un po’ nella memoria da rileggere prima di addormentarsi. Se non ti hanno voluto bene, anche inconsapevolmente, perché magari pensavano che è così che ci si ama, tra moglie e marito e verso i figli, la scatola ha qualche lacuna, e la vita è un continuo cercare di colmarla, ci sono i tuoi figli o i tuoi cani da portare al parco la mattina presto, fumando una sigaretta e controllando i messaggi sul cellulare, o le tue storie d’amore risolte o meno, quelle di cui i messaggi in arrivo ti fanno un resoconto. La scatola nera ce l’hanno tutti, il più pulito e il più fragile essere umano. Magari hai avuto genitori distratti, o troppo impegnati, o troppo semplici rispetto alle complessità, ogni vita ha le sue, è tutto un divenire, mancano i corsi di aggiornamento, nessuno è sufficientemente titolato. Poi, chiaro, ciascuno di noi ci ha messo del suo a rendere difficile il compito di quei due vecchietti, ma la famiglia di qualunque tipo e dimensione non è un’azienda, non è una squadra di calcio, non è un albergo e nemmeno una palestra o tantomeno un videogame. Ecco, forse è un laboratorio, dove un team dedicato alla ricerca e sviluppo si adopera per implementare uno o più sistemi di automazione non prima di aver completato tutta la fase di test e di debug. Senza progetto pilota, però.

it’s not time to make a change

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A scuola finita, la mattina inizia in modo meno concitato. C’è addirittura il tempo di sedersi sul letto, a fianco di mia figlia, e osservarla qualche minuto prima di svegliarla, ancora vulnerabile nei suoi sette anni, ancora bambina mentre il resto del mondo là fuori fa di tutto per farla crescere più fretta. Sporadicamente ancora con il dito in bocca, oggi poi con il pigiama del suo eroe, Charlie Brown, cerco di isolare quei pochi momenti prima che la sveglia faccia ripartire il tempo, il tempo la faccia crescere, la crescita la faccia diventare grande. E io e mia moglie, di conseguenza, più vecchi. Non c’è il manuale operatore per il programma “Cresci la tua prole”, ma posso confermare che, tra alti e bassi, finora ce la siamo cavata in modo dignitoso. Almeno, noi siamo soddisfatti.

Attenzione però a non utilizzare le competenze acquisite all’esterno, applicare cioè metri di giudizio ad altri contesti famigliari, perché fare il genitore è una qualifica professionale del tutto soggettiva. Se tentiamo di implementare le procedure che a casa propria funzionano alla grande altrove, sarà facile riempirsi di boria. Se poi le compariamo con chi ha compilato il codice della nostra vita, chi ha messo in produzione noi stessi nella release 1.0, la boria lascia il posto a un sentimento che la buona creanza ci impedirebbe di provare per i propri genitori. Soprattutto perché è difficile prevedere per quanti anni lo saranno ancora, e non ci va di sprecare il tempo con il risentimento. Ma, a volte, e parlo per me, vengo messo a dura, durissima prova.

Ieri sera mia mamma (74) al telefono mi racconta che lei e mio papà (82) sono in procinto di cambiare la cucina. E non essendo del tutto autosufficienti, hanno contattato il negozio presso cui avevano comprato 35 anni fa la cucina che hanno avuto finora e che, secondo lei, non è più in condizioni accettabili. Hai voglia a dirle che nel frattempo il mercato, la tecnologia e prezzi sono cambiati, che esiste l’Ikea, che posso occuparmi io della pre-selezione, farle avere un po’ di preventivi. Nella loro testardaggine di liguri (anomali, perché scialacquano senza ritegno) anziani mediamente poveri e molto semplici non se ne parla, si fidano del rivenditore (che nel frattempo è il figlio di quello a cui si erano rivolti) a cui probabilmente è comparso un bel simbolo del dollaro sopra le pupille appena compreso la portata dell’affare. Perché ci sono  rubinetti e Rubinetti, maniglie e Maniglie, marche e Marche. Insomma, e prometto che appena questo blog supererà una certa soglia di contatti non racconterò più urbi et orbi i cazzi miei, quello che potrebbe costituire una base economica di supporto per l’università di mia figlia, per esempio, finirà nelle tasche di un mobiliere del basso Piemonte, in cambio di una cucina da enne (a due cifre) mila euro. Ora, sappiate che l’obiettivo principale mio e di mia moglie è quello di fare di tutto per agevolare il futuro della nostra creatura, come secondo noi è giusto che sia, mettendo da parte quanto possibile. Questione di punti di vista?

Mentre penso a tutto questo, mia figlia apre gli occhi e si stiracchia nel suo pigiama di Charlie Brown. E con una punta di presunzione, ma solo una punta eh, penso che sia una bimba molto fortunata.