la suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé

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La suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé. A me capita di soffermarmi ad ascoltare gli abitanti di queste aree decentrate quando si riversano, nel tempo libero, nei luoghi più frequentati, perché a volte parlano dialetti meridionali così chiusi che non è immediato capire se sono italiani o no. Non solo adulti e anziani, ma anche ragazzi, ventenni e trentenni. Provo a indovinare da quale paese del nordafrica o da quale ex repubblica sovietica provengano, fino a quando un ascolto più attento – ai limiti dello stalking – me ne rivela l’origine. Che poi per me è un generico sud, non sono così colto da distinguere Campania, Calabria, Puglia o Sicilia.

Ma la sorpresa è indifferente alla parlata, nel senso che mi meraviglio di questo culto del dialetto anche tra persone che magari hanno anche un’istruzione di base e che magari vivono nei pressi di Milano da qualche anno, dove frequenteranno scuole o lavoreranno con colleghi nati qui, e mi chiedo come faranno a capirsi. Quelli che mi hanno indotto a questa riflessione stanno sostando insieme a me di fronte a una vetrina di una bigiotteria di un centro commerciale. Ho appuntamento con mia moglie, così ho il tempo di decriptare la loro crittografia orale e venire a capo di quel codice linguistico apparentemente primitivo. Cerco quindi di seguire i loro commenti circa una serie di articoli in vendita proprio nel negozio di fronte al quale ci troviamo sui quali non avevo mai fatto caso prima, a prova del fatto che certe cose si notano solo il sabato pomeriggio.

A catturare il plauso di quella coppia di giovani dall’idioma incomprensibile, un uomo e una donna sui venticinque, è una specie di kit da tamarro dei nostri tempi. Un collier con la scritta love come ciondolo, una coppia di orecchini con un vistoso pitone dorato, anelli con l’effigie del dollaro che imbarazzerebbero persino uno come Flavor Flav. E in effetti sembrerebbero tutti monili da rapper old school di serie B se non fossimo in Italia. Ma poi osservando meglio il pattern grafico sui leggings di lei a forma di teschio capisco di trovarmi proprio qui, nella culla dell’orrore estetico.

Provo anche a paragonare tutto ciò con il senso dell’orrido che vigeva ai miei tempi. C’era un negozietto al mio paesello che si chiamava “La pulce nell’orecchio” e che era una sorta di “Inferno e suicidio” dei poveracci della provincia, ma che tutto sommato aveva una sua dignità e pur vendendo cose piuttosto kitsch non raggiungeva lontanamente le vette agghiaccianti di ora. Ma il peggio deve ancora venire. Dentro vedo un ragazzone supermuscoloso con una canottiera di una squadra di boxe – non so se reale o immaginaria – insieme a una bellezza da Maria De Filippi con pantaloni così aderenti che spiegano la presenza di quell’energumeno a suo fianco. Più ostentano l’inclinazione all’accoppiamento e più necessitano di qualcuno sufficientemente prestante da allontanare gli attacchi degli esemplari in calore. In natura funziona così. In cambio della protezione c’è più possibilità di usufruire dell’esclusiva dell’offrirsi.

Per fortuna la coppia che è lì fuori con me si ricongiunge finalmente con la famigliola di cui era in attesa, qualche parente immigrato con cui hanno pensato di stemperare il ricongiungimento in quel tempio della sintesi socio-culturale. Ma non posso non provare tenerezza per la figlia, già con evidenti problemi di alimentazione in eccesso così piccola, avrà dieci anni come la mia. Magari i genitori cercano di stare attenti ma, dovendo trascorrere tutto il giorno al lavoro e lontano da lei, non possono tenere sotto controllo i nonni che non si fanno tanti problemi nel chiudere un occhio su un boccone in più. Mi immagino il nonno che di nascosto divide il lardo in mezzo al panino con la nipotina, ma solo per una reminiscenza personale.

La suburbia milanese ha un altro primato: è l’unica zona in Italia con un microclima tale per cui a marzo gli adolescenti maschi indossano già le bermuda. Mi viene in mente l’episodio dello stolido che ha contestato il sindaco Pisapia qualche giorno fa che si è presentato in pantaloncini corti di fronte a un’autorità. Ma in quel caso, oltre al qualunquismo del suo intervento, era già abbastanza sconvolgente il rivolgersi a un adulto dandogli del tu. Mi sono immaginato così i genitori di quel Salvini o Di Battista in miniatura, quelli che quando il figlio va male a scuola se la prendono con gli insegnanti con il loro italiano stentato da visioni televisive di massa.

Finalmente arriva mia moglie e, prima di allontanarmi, vedo l’insegna di un protagonista dei non luoghi commerciali della periferia che è uno dei tanti franchising di “Piazza Italia”, più volte alla ribalta per campagne pubblicitarie basate su alcuni aspetti dello squallore della nostra miseria culturale. Mi chiedo, e lo chiedo a voi, se non avrebbe avuto più successo chiamandosi direttamente “Pazza Italia”, quasi quasi provo a proporglielo.

che cosa c’è ancora dietro via olgettina?

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Il modo più immediato e veritiero per vedere sotto una diversa ottica il paese dell’hinterland milanese in cui vivete è recarvi con una qualsiasi scusa in un altro paese dell’hinterland milanese che non è il vostro, di domenica o in un qualsiasi giorno da santificare – come l’Epifania – e giungerete alla conclusione che il paese dell’hinterland milanese in cui vivete tutto sommato non è meno peggio di molti altri. Chi vive nella periferia nord-ovest industrializzata troverà invivibile il mix tra ruralità agricola e quartiere dormitorio in molti casi a cura di qualche controllata Fininvest del sud-est, chi vive nel nord-est pre-Brianza dai sobborghi popolari della prima ora troverà i sobborghi della seconda ora post-Giambellino a sud-ovest altrettanto modesti e così via.

Io che vivo in una comunità che a meno di un chilometro da Milano fa di tutto per ritagliarsi una sua indipendenza sociale e culturale dalla metropoli pur beneficiando della forza centrifuga della stessa, uno di quei posti dove il dì di festa mantiene inalterata la sua dimensione di ricongiungimenti familiari con tanto di bignè, ne rivaluto prontamente la morfologia urbanistica, i piani di gestione territoriali dell’ultimo mezzo secolo, la stessa geografia umana e persino il bar tabacchi con i videopoker quando capito in un posto come Segrate quando è festa. Se siete residenti a Segrate non me ne vogliate, non è una questione personale, come dicevo su se venite dalle mie parti probabilmente provereste le stesse emozioni, è solo una questione di identificazione con la periferia di appartenenza.

Il motivo è che in un qualsiasi non-giorno come il sei di gennaio Segrate – ma ripeto è uno come tanti di quegli altri paesi che sembrano imperativi lombardi, il mio per esempio può essere inteso come un invito a innovare – magari con la complicità di una spolverata di nebbia, vi farà venire in mente quanto siete fortunati quando scendete a grattare via il ghiaccio dal parabrezza nel paese dell’hinterland milanese in cui vivete e qualche straccio di marito depresso in tuta con sigaretta e cane di grossa taglia al seguito o qualche podista single vestito di tutto punto con abbigliamento tecnico entry-level del Decathlon e app per il computo della velocità media attiva su smartphone di accompagnamento vi danno la certezza che il mondo non è affatto finito, ma si sta consumando l’ennesima sbiadita parentesi tra un giorno produttivo e quello dopo.

Vi viene invece da pensare a chi abita a Segrate in un qualsiasi non-giorno come il sei di gennaio, passando di lì in uno scenario fatto di condomini e insediamenti residenziali in serie, e poi magari il giorno dopo è costretto a recarsi al lavoro in un ufficio di quelli dove c’è competizione alle stelle ed è un attimo a perdere il posto e a trovarsi solo con un curriculum davanti e un accesso Linkedin di dietro. Immaginate una tragedia del terziario avanzato di un manager di qualcosa che è stato messo fuori in quattro e quattr’otto tra il sollievo dei colleghi che vedono così ampliarsi il proprio portafoglio clienti dopo aver cannibalizzato quello del tutt’altro che compianto ex manager che si consuma nella solitudine di un bi-locale arredato Ikea in uno di quei palazzi lì, in un qualsiasi non-giorno come il sei di gennaio a Segrate. Proprio mentre nella via sotto sto passando io, rimbalzando tra una cassanese e una rivoltana, mentre mi ricordo che lì vicino c’è uno dei miei, di clienti, che tutte le volte che ci devo andare mi sale l’ansia dal giorno prima e arriva al top già quando esco dalla tangenziale che è ancora buio e leggo i nomi dei bar e delle tavole calde a gestione cinese lungo i controviali che chissà come si imboccano.

Ecco, poi vengo via da Segrate che per fortuna è ancora l’Epifania e mi pregusto il ritorno nel mio paese dell’hinterland milanese che davvero in confronto, pur nella sua insulsaggine, è Colle Val d’Elsa. Il mio appartamento con le inferriate a prova di intrusione rumena con vista su distributore Total, il mio quartiere color mattone esselunga, le diffuse architetture neo-liberty-eclettico dovute al monopolio edile di un’impresa di costruzioni a completa gestione albanese, il vicino di sopra che ha messo luci colorate in salotto che in confronto una palla da discoteca è un tubo al neon di un ufficio postale anni 70.  Come dice il poeta Lorenzo Jovanotti, parole che uno come Renzi potrebbe twittarmi in un giorno come questo per farmi coraggio con qualche emoticon di consolazione, casa è dove posso stare in pace. Ah, e dietro via Olgettina, che è Milano Due, c’è proprio Segrate.

gli anelli più piccoli delle catene

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Il cratere artificiale scavato all’imbocco del paese ha svelato la sua natura. Nessun meteorite: si tratta di buco propedeutico alle fondamenta di un colossale piano terra posto sotto a un primo piano sormontato da un secondo, un’anima di cemento armato a cui è stato dato un corpo, un corpo che è stato vestito fino ad assumere le sembianze di un megamulticentro sportivo della catena Virgin. Millemila metri quadrati di fitness, palestre, piscine, spogliatoi, spazi comuni stanno per essere inaugurati a fianco di uno dei tanti non-luoghi dell’hinterland, un’area che già ospita l’immancabile Esselunga, il Decathlon, un Leroy-Merlin, con il contorno di concessionarie di automobili varie, tutti insieme appassionatamente lungo il perimetro di una rotonda ubicata in un incrocio strategico, a meno di un chilometro dal centro del paese.

Il megamulticentro sportivo Virgin sancirà probabilmente la fine della piscina con palestra nuova fiammante ubicata a cinque minuti a piedi da casa mia, nel parco, un complesso modernissimo costruito pochi anni fa e di proprietà, per il 51%, del comune, quindi anche mio. Un progetto nato tra mille polemiche e che è stato anche causa del fallimento dell’amministrazione di centrodestra precedente all’attuale, di centrosinistra, che ha dovuto risanare a fatica un buco economico non indifferente. Ma verrà colpita anche una seconda palestra privata, piuttosto frequentata, che difficilmente farà fronte al vantaggio competitivo della multinazionale del sudore benefico. E sono pronto a scommettere che anche molte società sportive amatoriali della zona vedranno diminuire i loro iscritti, magari quelli più allocchi attirati dalle insegne luminose di un paese dei bengodi dove, oltre ad allenarsi, potranno avere maggiori opportunità di vita sociale grazie a una formula che unisce sport a divertimento, l’ennesimo all inclusive in cui manca solo che ti lavino la maglietta e calzini sudati per farteli trovare pronti al successivo ingresso (cosa che peraltro succede altrove). In più, determinerà l’ennesimo cambiamento delle abitudini di vita dei miei concittadini, perché per recarsi al megamulticentro sportivo Virgin dovranno comunque utilizzare l’automobile, l’ubicazione seppur limitrofa è comunque raggiungibile quasi esclusivamente con una superstrada. Il percorso pedonale e ciclabile attraversa una strada provinciale molto trafficata. E poi, non dimentichiamo che non ci sarà certo problema di parcheggio.

Resta da chiedersi quale altra componente della nostra esistenza rimane disponibile per essere target di questa speculazione all’ingrosso. Dopo supermercati e centri commerciali che hanno cancellato, oltre al commercio al dettaglio, anche il piacere della spesa quotidiana, prassi soppiantata dai mega-acquisti settimanali nei ritagli di tempo del nostro orario di lavoro o, meglio, nel finesettimana. Dopo i megastore culturali, in cui trovi ovunque gli stessi libri e gli stessi cd e dei quali vuoi mettere la comodità di entrare con il carrello della spesa? Poi il bricolage e l’abbigliamento, insomma, cosa resta ancora da vendere? La scuola? Sorgeranno catene di mega-complessi privati dove iscrivere i nostri figli dagli otto mesi dell’asilo nido alla quinta superiore, spazi in cui c’è tutto, li accompagni la mattina e li ritiri prima di tornare a casa ma non hai remore perché sono seguiti da personal trainer e assistenti e comunque possono chiedere aiuto alla receptionist messa lì da qualche agenzia interinale? O il tempo libero: immagino spazi multipiano in erba sintetica dedicati ai finesettimana delle famigliole, ogni livello una fascia di età con giochi e passatempo adatti, un abbonamento mensile adulti a prezzo pieno e under dodici a prezzo ridotto, le famiglie si organizzano e un genitore accompagna anche i figli degli altri e sta lì, sulla panchina sotto il sole artificiale a curare gruppi di scalmanati che sfogano le smanie di caciara mentre dai finti lampioni si diffondono canzoni adatte al target? Oppure bocciofile e circoli per la terza età, qui gli sponsor non mancano, magari con la navetta che fa la raccolta di chi non può più utilizzare un mezzo proprio. Un posto sicuro in cui investire la pensione, e poi via in questi multiplex tra balere e giochi di carte, spazi per la socializzazione, gadget e promozioni ad hoc per uno dei gruppi di acquisto che, ad oggi, se la passa comunque ancora discretamente.

Ed è facile immaginare come sarà questo paesino tra dieci o venti anni, l’ennesimo quartiere dormitorio con tanti satelliti commerciali tematici intorno, dove le uniche infrastrutture attive presenti saranno sempre più solo i distributori di benzina.