dall'altra parte della manica

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Ogni giorno, nel mondo, almeno un critico musicale si sveglia e usa l’espressione “perfida albione” nella recensione di un disco di un gruppo britannico. Ci avete mai fatto caso? Ciascuno di noi quindi dovrebbe fare i conti con la propria esperienza con i cittadini inglesi prima di esprimere un giudizio così generalizzato. E se posso contribuire all’argomento, anche io nel mio piccolo ho avuto più volte a che fare con gli inglesi.

Credo che il primo che ho conosciuto sia stato l’amico dell’Ale che era il cugino di qualcuno ma non ricordo bene, e non è secondario aggiungere che l’Ale era la mia ragazza e l’inglese uno che voleva farsela. Avevo già qualche sospetto considerando tutte le attenzioni che le dedicava con la scusa di fare conversazione madrelingua fino a quando l’ha invitata a cena a casa sua, appuntamento però al quale si è presentata insieme a me che invece sfoggiavo una proficiency da seconda superiore. La serata mi è servita però per sciogliere alcuni dubbi su un paio di testi che non avevo mai capito, a partire da “The one I love” dei REM, anche se mentre conversavo su questi temi con l’ubriacone padrone di casa mi sentivo come quella volta che per rimorchiare una tedesca le avevo chiesto che cosa volesse dire Einstürzende Neubauten mentre i miei amici si vergognavano dell’approccio poco proficuo.

Sull’inglese successivo di questo excursus sulle rive del Tamigi c’è ben poco da dire. Ero seduto in un fish and chips di Londra al bancone che dava sulla vetrina quando una specie di hooligan aveva spiaccicato la sua faccia da pieno di birra dopo una corsa contro il vetro proprio davanti a me come quei piccioni che non vedono le finestre, solo che l’intenzione di questo giovinastro sembrava meno amichevole.

Come non ricordare anche Ian, il collega della multinazionale che dalla sede di Londra era stato mandato a Milano per farmi da trainer su un nuovo applicativo per l’analisi e l’estrazione dei contatti presenti nel database aziendale. Il progetto era frutto di una manager neozelandese (quindi non vale ai termini di questa statistica) che, quando l’avevo conosciuta, si era presentata con una scollatura vertiginosa e aveva passato il tempo a coprirsi quello che traboccava dal petto, ed era chiaro a tutti che il sistema sviluppato sarebbe stato superato di lì a breve dai big data. Ian mi spiegava il funzionamento e ogni volta che la query impostata nell’applicativo andava in porto a seguito di esempi elementari con parametri che nessuno avrebbe mai utilizzato in realtà gli vedevo nel volto la stessa espressione di chi ha scampato un pericolo. Se avete a che fare con l’informatica sapete a cosa mi riferisco. Ian ha trascorso tutte le pause pranzo di quei tre giorni di formazione da solo nella nostra sala riunioni, mangiando un sandwich con il sito dell’Arsenal aperto sul suo portatile.

Ci sarebbe infine Dylan, l’insegnante di inglese pagato dalla mia agenzia per migliorare la nostra conoscenza linguistica, ma fidatevi di me: ci sarebbe troppo da raccontare e, davvero, a certe cose non ci credereste neppure.

gli invasori parte seconda

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Comunque alzi la mano a chi di voi non sarebbe piaciuto nascere altrove, giusto per tornare velocemente su quanto si discuteva ieri. Per carità, non sputo nella provincia che mi ha partorito e mantenuto perché poteva andare peggio, tipo nascere nel Darfur o ad Haiti o, se aggiungiamo la variabile temporale, nascere ebreo a Berlino nel 1938 o giù di lì. Però quante volte leggiamo cose su gente come Briatore poi ci guardiamo intorno e scorgiamo il padre di famiglia francese che passa ore a costruire un vermone preistorico con la sabbia, una specie di drago che si inabissa nel bagnasciuga, mentre il figliolo a bocca aperta senza panfilo e, soprattutto, senza chiamarsi Nathan Falco ne ammira estasiato le gesta non vedendo l’ora di emularlo.

In quel caso a quale popolo vorreste appartenere, dite la verità? Lo sapete che io ho la fissa dei tedeschi, ma anche se l’Italia fosse una colonia francese non mi dispiacerebbe, anche lì non dimentichiamo che poteva anche andare che Napoleone facesse di San Pietro un granaio e oggi non saremmo qui a non dover ogni volta rimproverare il vicino perché sbaglia a differenziare i rifiuti, o al massimo potremmo farlo apostrofandolo ma con l’erre moscia. Di certo non dovremmo fare i conti ancora con l’immigrazione di prima generazione anzi nemmeno, di mezza generazione e a far di tutto per non riconoscere i problemi, figuriamoci per risolverli. Avremmo, chissà, afroitaliani presidenti del consiglio e non quelle mezze calzette di parlamentari con le loro battute che nemmeno ai tempi del nostro colonialismo da operetta.

Per esempio non mi dispiacerebbe essere inglese, con la mia bella lingua che mi capiscono tutti in tutto il mondo e non con questo idioma che con la scusa di Dante e Manzoni siamo qui tutti preoccupati di dimenticarcelo tra abbreviazioni, tecnicismi e tanto analfabetismo di ritorno. Mi piacerebbe pensare in inglese e poter sfoggiare tutte quelle parole che da sempre ascoltiamo alla radio anche se proprio quelle della radio, che oggi è diventata MTV, spesso non hanno un senso. Noi ci aspettiamo chissà che cosa e invece quelli hanno messo insieme due frasi a caso ma comunque a elevata musicalità e che stanno bene. Mi chiedevo per esempio se ho una strofa da musicare in inglese e devo troncarla per forza in due battute diverse, mi chiedevo se gli inglesi che conoscono ovviamente l’inglese troncano la frase in un determinato punto perché altrimenti non sarebbe più di senso compiuto, oppure se lo fanno apposta affinché a chi ascolta cresca la curiosità di sapere cosa dice dopo il testo perché fino a quel punto ha un significato oscuro o equivoco, o magari pensano che si voglia dire tutt’altro. Questo è pensare inglese, e per quanto un italiano lo studi non penso riuscirà a raggiungere simili livelli di immedesimazione.

Ma, speculazioni a parte, io ho questo pessimo difetto che quando vedo uno non italiano mi sento subito di dovergli chiedere scusa. Mi spiace che voi dobbiate preoccuparvi così tanto di noi, non so perché non veniamo mai a capo delle nostre enormi contraddizioni malgrado tutte lo occasioni che ci avete concesso. Vedo i figli dei turisti nordeuropei e non ce n’è uno non in forma, avete presente i ragazzini che incontrate ogni giorno con i rotoli di uanza che spuntano dai jeans sformati ma di marca o dagli elastici dei leggins. Son tutti sportivi e hanno la faccia serena come se non fossero alla perenne ricerca di un modello da imitare, un nuovo smartphone da farsi regalare o un nuovo reality da seguire. Si fanno bastare quello che hanno, e lo so che spesso hanno di più, di migliore qualità e meglio funzionante.

Stamattina ho cercato di configurare un tablet bellissimo a un signore tedesco che aveva appena acquistato un accesso al wireless ma non riusciva a connettersi a Internet. Mentre smanettavo sul suo Windows 8 già un po’ mi vergognavo per non conoscere la sua lingua e perché in Italia connettersi costa e anche salato. QUi c’è un hot spot che ha tariffe da rapina, sei euro al giorno e non vi dico il prezzo settimanale. Per farla breve, non c’è stato verso di far accedere alla rete il suo dispositivo e la vergogna è cresciuta ancora di più perché non sono riuscito a fornirgli aiuto. Gli ho suggerito di chiedere assistenza al gestore dell’hot spot. Alla fine il problema era che stamattina la rete non funzionava. It doesn’t work, mi ha detto rientrando, forse per consolarmi del fatto che il mio aiuto era stato vano ma non per colpa mia. E in realtà questo mi ha fatto vergognare ancora di un livello in più. Non mi sono sentito un bravo attendente come dovrei essere nei suoi confronti. Così ho provato con l’ironia, gli ho risposto “welcome in Italy”, lui ha capito che cosa intendevo e abbiamo riso insieme.