internet, una rete o un acquedotto?

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Stamattina, acceso il mio minimac in ufficio, mi sono chiesto se il fatto che miliardi di impiegati e lavoratori di ogni tipo al mondo sono connessi a questo infinito videogame che è Internet durante il 100% delle loro ore lavorative sia in qualche modo collegato alla crisi economica. Non so, un calo generale della produttività, un po’ come l’avvelenamento da piombo presente nell’acqua tra le cause della caduta dell’Impero Romano. Il mercato globale finisce ko per i troppi like sui social network? Sarà un enigma per gli archeologi del futuro capire la fonte di questa intossicazione generale che ha indotto una intera civiltà all’autodistruzione da cazzeggio.

esternauta

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Ci sono giorni in cui Internet mi è fondamentale, per il lavoro, per la vita privata, per passare il tempo e per trovare informazioni. Altri in cui ne potrei fare a meno, quando non sono bravo a filtrare i risultati delle ricerche, quando mi è difficile capire l’autorevolezza di un’opinione perché sono ignorante e non conosco quel giovane esperto lì e così via. Ci sono stati e ci sono tuttora momenti epici della mia vita che si svolgono qui sopra, ma anche emicranie perforanti da caos totale, situazioni da cinque minuti prima della campanella in cui sembra che tutti si scavalchino anziché trovare il tempo giusto e il loro turno per intervenire, e la lettura è un susseguirsi di hei guarda come sono bravo, guarda come sono intelligente, guarda come sono creativo, guarda come la butto in caciara. Il problema, per chi ci lavora come me, è mantenere la calma, tenere comunque i piedi da questa parte, e affacciarsi alla finestra sul mercato, proprio nel senso del mercato rionale in cui articola il web, solo per scrutare ma senza buttarsi di sotto, sforzandosi di astenersi dallo sputare sui passanti come si faceva da piccoli. Se non altro guardare in giro ti aiuta a nutrire l’autostima, leggi e apri file e dentro c’è poco o nulla, o per lo meno niente che tu non sappia già, proprio come a pc spento. L’ennesima versione personalizzata con powerpoint in allegato di un chiedersi come, perché, dove, quando e chi senza dare una risposta.

scemo chi legge

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Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo che spopola sul web, un video che sfonda, una foto che fa il giro dei blog e dei siti di informazione, lo strafalcione più cliccato, la gag involontaria ripresa per caso, la rissa, il filmato che fa scompisciare grandi e piccini, travet e manager, intellettuali e non. E anche le testate che dovrebbero essere le più autorevoli, o almeno le più affidabili, le più serie, hanno il tormentone del momento in pole position nella colonnina infame delle stronzate, tra uno scorcio di tette, un bacio saffico e l’abnormità faunistica più in voga, il coccodrillo gigantesco, il ragno campione del mondo, il polpo veggente, il figlio di dj Francesco. Nulla ci è risparmiato in questa rubrica trasversale che è l’Internet delle facezie, che mescolata in prima pagina a scioperi generali, mercati che collassano e maggioranze che implodono fa sembrare tutto un grande Circo Orfei virtuale, tutto quanto fa spettacolo, il bello della diretta. E presto, al posto dell’ormai desueto “visto in TV”, a fianco dei prodotti sulle riviste e negli spot comparirà il bollino “visto su Internet”. Hai visto su Internet? Figata, eh?

concorso in omicidio

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Via.

loghi comuni sulla rete

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Se un’azienda si espone online deve essere in grado di presidiare questo ambiente come se fosse un punto vendita, aperto 24×7. Ecco le imprese e i social network, secondo Mantellini.

Utilizzare gli strumenti di rete sociale attualmente disponibili è discretamente semplice per le persone e invece assai complicato per le aziende. I cosiddetti social media – a differenza dei meccanismi di relazione aziendali usati in passato – riducono distanze, moltiplicano umanità, accelerano la comunicazione. Ma sono contemporaneamente bestioline da maneggiare con cura: richiedono sangue freddo, familiarità con una grammatica comunicativa che in genere le aziende non posseggono, sono da presidiare continuamente, inoltre sono spesso molto poco significativi in termini di impegno economico (un paio di stagisti di fronte ad un computer sono sufficiente anche nel caso di grandi compagnie) ed anche poco considerati in termini di peso aziendale.

Il resto qui.

direzione didattica

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Un pour parler sulla scuola, ispirato principalmente da 2 spunti. L’aver rintracciato con piacere su Facebook la figlia della mia maestra, una delle figure di riferimento più importanti della mia vita (e qui ahimé non possono mettere alcun link di approfondimento), e il post di Leonardo Tondelli presente qui, che ha come argomento Internet, cyborg e lavagne interattive. In più, una spruzzata di un articolo di Giuseppe Graneri su l’Espresso online, che ho già ripreso in un post precedente.

Noi, in classe, – sto parlando delle elementari – avevamo due cervelloni. Uno si chiamava Enciclopedia, che rispetto a Internet aveva il limite di diventare obsoleto rapidamente, anche se prima della scienza dell’informazione tutto era più lento. Ci si metteva più tempo a cercare le informazioni, a trovarle e a interpretarle per arrivare a identificare la vera risposta che si cercava. Si sapeva, o perlomeno si supponeva di sapere chi aveva scritto quella risposta: voglio dire, l’autorevolezza di una redazione preposta alla stesura di un’enciclopedia era fuori discussione. Questo non significa che l’intelligenza collettiva cui fa riferimento Leonardo sia meno autorevole. Diciamo che è meno controllabile, che se anche l’intelligenza collettiva di Internet è in grado di smentire se stessa, lo può fare smentendo la smentita all’infinito. La fonte Treccani, voglio dire, aveva in sé la purezza di essere una fonte vergine da commenti. Dice Graneri: “stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa sapere dove cercarla quando ci serve“. Internet è uno strumento che ci consente di accelerare questo processo di ricerca, e ha sostituito l’andare in biblioteca, sfruttarne il reference, definire il percorso per organizzare le informazioni. Ora basta una domanda, addirittura non esiste più nemmeno il linguaggio macchina per interloquire con il cervello artificiale. Non so quantificare la percentuale di intelligenza che Google sottrae all’essere umano, sostituendosi in questa fase, che nella scuola che ho frequentato io era comunque costitutiva dell’apprendimento e della valutazione cui eravamo sottoposti.

Il secondo cervellone che avevamo a disposizione era la maestra stessa. A volte sapeva rispondere subito alle nostre domande. A volte ci guidava nella risposta. Altre, in quanto essere umano, pur di intelligenza e cultura superiore, ci rispondeva il giorno successivo, dopo essersi documentata. Un processo più lento, certo, ma pensate a quanta umanità c’era in tutto questo. L’umanità di saper filtrare le informazioni e restituirle nel modo più adatto a bambini di meno di 10 anni. Di saperle raccontare. Perché la risposta al nozionismo è una funzione facilmente evasa da Google. Quanto è alto il Monte Bianco? Qual è la capitale dell’Islanda? La maestra, almeno la mia, era un mix tra una super-mamma e Google. Dove Google è lo strumento, l’Enciclopedia, e la super-mamma è quella che trova la sintesi più adatta a te. Scremare le risposte, ripulire la verità dalla pubblicità, smascherare il ranking a pagamento dall’algoritmo genuino che riporta l’informazione più utile. Oltre a dare i cioccolatini come premio per aver risolto il problema difficile.

Ora le complessità sono decuplicate. La scuola di 40 anni fa renderebbe inutile un qualsiasi quantum leap (nel senso del telefilm), il maestro unico di allora non sopravviverebbe alla babele psicopedagogica del presente. Quindi che questo post sia solo un piccolo romantico omaggio al mio motore di ricerca intelligente di allora, il cui nome è Iside (non sarebbe male però come nome di un motore di ricerca, vero? Chissà se è già occupato il dominio www.iside.it).

p.s. che differenza c’è tra una lavagna multimediale e un pc collegato ad uno schermo grande o a un proiettore?

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema è ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanità 2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. Così, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida è proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema è il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalità di performance, attività non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte già avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarà comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di là del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metà di prima. Ma questo è un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta già succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialità verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarà un perché.

Così come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attività del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso è dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturale  si avrà un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarà in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuià dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto è sempre disponibile per noi, perché risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, così come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricità, la viabilità, da un lato. La continuità della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra società contemporanea. È uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirà mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrà acquistarne i prodotti. Quale sarà quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual è il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farà sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarà di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. Perché un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, così diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.

non ricordo se una delle 3 i era informatica, internet o impunità

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Articolo di De Cataldo su l’Unità.

Come riportato da molti giornali, dal 2 gennaio è stata interrotta l’assistenza tecnica su un certo numero di software di vitale importanza per il funzionamento degli uffici giudiziari. Motivazione: la mancanza di soldi. Ancora risorse sottratte alla Giustizia, dunque, e in un settore cruciale per i rapporti fra il Palazzo e la gente. Intendiamoci: non è che di colpo i computer scompariranno dalla scrivania di cancellieri e magistrati. Ma le cose, almeno per un po’, procederanno a rilento.

Giudici e funzionari sono sul piede di guerra. E diffidano delle rassicurazioni. Hanno le loro ragioni. Se i problemi, quando ci sono, venissero presentati, diciamo, con le dovute maniere, avremmo tutti uno spirito più collaborativo: per intenderci, se mi dicono “scusa, c’è la crisi, facciamo del nostro meglio per rimediare, dacci una mano”, mi sento invogliato a rimboccarmi silenziosamente le maniche. Se mi coprono d’insulti ogni volta che una mia inchiesta sfiora un qualche mammasantissima e mi danno del fannullone a ogni piè sospinto, poi non è che possano invocare l’understatement.

Al Ministero contano di provvedere in tempi ragionevoli. Ne sono personalmente convinto: un deficit nell’informatica giudiziaria – sbandierata nei mesi scorsi come la Nuova Frontiera – fa troppo “brutta figura” per poter durare a lungo.

Piuttosto, a questo problema concreto non si possono che opporre contromisure concrete: vale a dire, trovare i soldi per ripristinare l’assistenza. Capisco che possa sembrare banale (come spesso appare il buon senso) ma provate a far funzionare un Pc parlandogli della commissione d’inchiesta sui Pm eversivi e della separazione delle carriere o minacciandolo di impiantare dei tornelli: quello, il Pc, non vorrà saperne. E continuerà a fissarvi. Muto, inerte, vagamente sfottente.