rock’n’roll suicide

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Il problema è che quando c’era il grunge io dal punto di vista delle passioni musicali avevo ampiamente già dato tutto. Nel 1991, anno di pubblicazione di Nevermind, avevo ventiquattro anni e quelli della mia generazione potevano vantare con i fratelli minori ascolti adolescenziali del calibro dei Clash, tutto il post-punk e la new wave e quella musica che tra il 79 e l’84 ci aveva accompagnato negli anni cruciali della nostra crescita. Con questo non voglio dire che abbiamo snobbato i Nirvana, i Pearl Jam e i Soundgarden, anzi. Solo che era giusto che a livello viscerale appartenessero a quelli nati dieci anni dopo noi e che noi, invece, osservassimo il tutto con occhi, anzi, orecchie più mature e valutassimo questo nuovo suono anarcoide un po’ anche con la testa. Se non siete ultimi nella catena anagrafica – e se lo siete il problema non si pone perché come minimo sarete seguaci del rap italiano e probabilmente di quello che scrivo capirete ben poco – sapete come funziona.

Ma a distanza di un paio di dozzine di mesi da quando pogavo con quella spensierata allegria di chi non tiene un cazzo da fare fuori corso “Smells like a teen spirit” anche lo slavato Kurt aveva avuto accesso alla hall of fame delle rockstar morte suicide al secondo tentativo e a ventisette anni, cosa che mi riesce difficile da pensare in questi giorni in cui siamo ancora colpiti dalla morte del tastierista degli Offlaga Disco Pax, fiaccato a trentasei da una leucemia fulminante. Che non occorra guardare sotto di sé, consolarsi con chi sta peggio o mettere in competizione chi lotta per la vita con chi fa di tutto per togliersela di dosso ce lo insegnano sin dalla scuola materna ed è un registro narrativo retorico quanto discutibile. Poi non era un giudizio su uno che si spara l’argomento di questo post. Solo che la notizia del compimento del suo progetto autodistruttivo mi aveva lasciato poco più che indifferente ma solo perché io e quelli come me eravamo oramai scafatissimi in quanto a maledettismi e autolesionisti cronici.

Malgrado ciò, e anche per non essere tagliati fuori da certi ambienti, molti di noi si sono impegnati con profitto in quella nuova avventura. Ho Nevermind, Bleach e Incesticide addirittura in vinile mentre In Utero già non si trovava più. Ho pure indossato una delle note camicie a scacchi e portato i capelli lunghi sin sulle spalle, quella del grunge era una moda piuttosto confortevole. Ma non ti puoi sforzare con certe cose quando non ti appartengono, prova ne è che quando la lancetta della musica alternativa è tornata a indicare settori più vicini al nostro vissuto, per esempio i Radiohead, un certo Brit-pop psichedelico o anche gruppi post-grunge un po’ meno metal e più sul versante elettronico e industrial, ci siamo dissociati in parte e siamo rientrati nei nostri binari. Qualche giorno fa ho intravisto infine alcune foto degli ambienti in cui il cantante dei Nirvana ha compiuto l’ultimo gesto per darsi la morte. Ne ho viste stanze di eroinomani, e molto più sconvolgenti di quella lì.

lowonomastica

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venti di cambiamento

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Le celebrazioni si fanno per decenni, ne avevo già scritto qui, ma si fa così indipendentemente dal fatto che io ne abbia scritto , sia chiaro. E in rete sono iniziate le celebrazioni dei vent’anni del grunge. Il 1991 infatti è stato, oggettivamente, l’anno della rottura, da allora in poi, mi riferisco alla musica, nulla sarebbe stato più come prima. Intanto per l’uscita di Nevermind, l’album che ha portato i Nirvana ad un successo senza precedenti. Ma ci sono altri tre dischi fondamentali per quel genere musicale che ha influenzato, in misura minore rispetto a quanto accadde per il punk alla fine dei 70, gli anni successivi. Naturalmente, come per tutti i fenomeni così esplosivi, il corso è stato standard: boom immediato, massima esposizione mediatica, tre o quattro anni di rendita, diciamo fino al 1995, poi giro di boa e riflusso, musica agli antipodi, quindi, a vent’anni di distanza, nascita degli emuli. Ne parlerò più avanti, anche se è un thread trito e ritrito, ma questo è stato il processo che hanno attraversato analogamente, per esempio, il punk, il post punk, la new wave, ma anche il beat e il rock psichedelico, persino il progressive. Materiale da tesi di laurea, chissà.

Ma torniamo ai tre album che dovrebbero, a mio parere, accompagnare Nervermind in una equa celebrazione di quel 1991. Anzi, a dirla tutta, Nevermind è stato si deflagrante, ma oggi è innegabile che le reminiscenze che abbiamo e l’approccio critico siano obnubilati dalle vicissitudini di Cobain, dal mito che la sua tragica fine ha prodotto. Senza nulla togliere ai meriti di quel disco, non dimentichiamo che “Smells like a teen spirit” è uno dei pezzi più belli di tutti i tempi. E, per rimanere nel mainstream degli interventi che spopolano in rete per l’anniversario, ecco un inciso sull’immancabile “dove ero io nel 1991”. Beh, grazie per la domanda. Nel 1991 ero già grandicello, avevo finito il servizio militare e stavo per laurearmi. E per seguire l’ennesima moda underground, con l’unico obiettivo di suscitare il maggior interesse possibile nel sesso femminile, mi ero fatto crescere i capelli lunghi lunghi e vestivo trasandato (ma guarda un po’) proprio come i grungi. Allo stesso modo in cui dieci anni prima vestivo di nero e avevo la cresta, cinque anni prima avevo la zazzera come Morrissey e così via. Ecco come disperdere la propria personalità. C’è un detto che sintetizza questo atteggiamento, ma è tropo volgare perché riguarda la capacità di traino di un particolare vello femminile. Per chiudere qui la parentesi personale scaccia-lettori, i due ricordi più vivi che ho di Smells like eccetera sono una bottiglia di Jack Daniels in due prima di un concerto dei Diaframma con Davide nella sua Opel Corsa con quel pezzo a palla, e un buttafuori di un club di Torino che mi ha, appunto, buttato fuori perché avevo iniziato a saltare pregno del pathos esaltante dal riff di chitarra di Cobain. Fine. Ah, di Nevermind avevo acquistato il vinile, in omaggio c’era una maglietta che ho regalato a una tipa, sempre per il detto di cui sopra.

Ma non dimentichiamo che nel 1991 ha visto la luce anche Ten dei Pearl Jam, innanzitutto. E, in quanto a spessore, i Pearl Jam sono ben altra cosa. La versione meno fashion del grunge. Leggo da Il Post che ci saranno celebrazioni ufficiali dell’iniziativa, comprendenti “un film documentario intitolato Twenty e diretto da Cameron Crowe, regista con assidue frequentazioni nel mondo del rock“. Bene. Eddie Vedder che suona l’ukulele ha comunque un suo perché, non trovate?

Terza pietra miliare dell’epoca è Badmotorfinger dei Soundgarden, la versione un po’ tamarra del grunge. Ma Jesus Christ pose è senza dubbio un capolavoro dalle venature dark, divertente da ascoltare, ballare e suonare. Per vedere i Soundgarden in quella tournée, pensate un po’, ho dovuto per contrappasso sorbirmi un concerto dei Guns’n’Roses, allo stadio Delle Alpi di Torino, gruppo di cui la band di Chris Cornell fece da supporto. Tsk. C’erano anche però i Faith No More. Ma questo accadeva l’anno successivo, sempre per il solito modo di dire scurrile di cui sopra.

Chiude la tetralogia (wow, mai avrei pensato di utilizzare questa parola in un post) la summa di tutto quanto, ovvero i Temple of the Dog. I Temple of the Dog, vi ricorderete, erano un supergruppo di Seattle, comprendente membri di proprio di Soundgarden e Pearl Jam, che si era formato come una sorta di tributo per la morte del cantante di un altro gruppo grunge, i Mother Love Bone, Andrew Wood. Il supergruppo durò giusto il tempo della pubblicazione di un album omonimo, uscito nel 1991, con alcuni pezzi davvero ben riusciti, come la struggente Hunger Strike.

Per chiudere, sono convinto che siamo arrivati al grunge passando anche per i Jane’s Addiction. Almeno per me il percorso è stato quello. Il grunge poi un bel giorno è finito, fagocitato da MTV e dai suoi programmi unplugged, dai filmetti come Singles, superato poi dal ritorno (per mia fortuna) dell’elettronica nel rock. Nel frattempo sono uscite altre band, gli Alice in Chains, gli Stone Temple Pilots e gli Screaming Trees, che avremo tutto il tempo per celebrare. Fino a questo anniversario, un po’ più dirompente.

la maledizione del 27

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Nella numerologia e nella cabalistica il numero 27 è chiamato a rappresentare l’età del decesso di alcune celebrità. Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, da sabato scorso Amy Winehouse. Non so, non riesco a farmi prendere dalla psicosi, per me resta ancora giorno di stipendio.