fateli stare alla larga

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Nei numerosi open day a cui ho partecipato lungo i mesi che hanno preceduto la scelta della scuola superiore di mia figlia, uno degli argomenti su cui il consesso dei genitori ha chiesto meno approfondimenti è stato quello dei progetti di alternanza scuola-lavoro previsti. Il motivo secondo me va individuato nel fatto che per un papà o una mamma che accompagna un ragazzino di tredici anni nel sopralluogo di una struttura che lo fagociterà poco più che bambino per poi spararlo fuori dopo cinque anni quasi uomo, un’attività programmata al terzo o al quarto anno sembra remota tanto quanto la possibilità di diventare nonni. In più, lo sapete, le questioni sulla scuola cambiano ogni due per tre, se non a ogni legislatura: voti, esami, proposte, riforme, e chissà da qui ai sedici anni dei nostri figli quanta acqua passerà sotto i ponti. Ma ci sono anche le persone che sanno sovrapporre correttamente il presente sul futuro e, in non più di due casi, qualcuno ha alzato la mano e rivolto la domanda al preside o a chi conduceva la presentazione della scuola per chiedere dettagli. Anche in agenzia da me capitano spesso studenti che scelgono il settore della comunicazione tra i possibili sbocchi del loro corso di studi. Non so poi cosa portino a casa dell’esperienza: non è semplice coinvolgerli in progetti a meno che non ci sia del personale dedicato a questo tipo di attività, e qui da me dipende molto da quanto abbiamo da fare. Probabilmente nelle grandi aziende è diverso e gli studenti impegnati nelle ore di alternanza sono seguiti sul serio da dipendenti che non fanno altro. Quando capita di trovarmi a spiegare ciò di cui mi occupo ai ragazzi, penso alla percezione che si ha da giovanissimi del mondo del lavoro e a come sono cambiate le cose. Noi avevamo più contatti con il mondo del lavoro intanto perché non erano pochi quelli che smettevano di studiare dopo la terza media. Il mio amico e coetaneo Marco a quattordici anni è entrato come apprendista in una carrozzeria e oggi si trova già quasi quarant’anni di contributi sul groppone. Poi era frequente trovare lavoretti, spesso poco regolari, per tirare su i soldi delle vacanze che sicuramente è un altro paio di maniche ma la cosa si prendeva seriamente. Nelle scuole superiori di taglio più tecnico e pratico venivano addirittura a selezionare ancora prima della maturità per assicurarsi i migliori talenti.

Oggi, l’abbiamo ripetuto in lungo e in largo, purtroppo la situazione è completamente diversa, e siamo noi adulti in primis a vivere così male il mondo del lavoro da peggiorare l’opinione già pessima che ne hanno i ragazzi. Il lavoro è quella cosa che ci tiene separati da loro, dalle cose che ci piace fare, dalle persone che ci piace frequentare, è quell’attività che detestiamo svolgere perché la situazione economica non ci dà possibilità di fare altro, è quell’ambiente che ci sottovaluta e per il quale siamo sprecati, è quel sistema così provvisorio per cui per un nonnulla lo perdiamo e che ci paga una miseria o comunque sempre troppo poco per il regime di consumi imposti dal nostro status sociale, che ci sposta quotidianamente di tot km da casa o definitivamente in una città lontana se non in un paese in cui si parla una lingua che abbiamo dovuto imparare, è quel posto dove ci sono cattivi che mobbizzano, dinamiche contrarie ai principi a cui siamo stati educati, giochi di potere e di raccomandazioni o anche solo di simpatie inspiegabili che sbarrano strade a chi merita e spalancano porte ai più scaltri.

Così mi chiedo cosa vedono nelle aziende che visitano le nuove generazioni che, come gruppi sociali di riferimento, hanno a malapena la famiglia, la classe scolastica, una squadra sportiva, un crocchio di amici. Ci sono aziende poi – ma questa è un’altra cosa – che organizzano iniziative che trovo aberranti. Ci sono aziende che organizzano nei fine settimana giornate in cui spingono i propri dipendenti a portare i loro figli in visita alla sede. L’obiettivo è mostrare e far conoscere alle famiglie i luoghi, le persone, i processi che tengono papà e mamma così impegnati durante la settimana, che a volte dalla preoccupazione non li fanno dormire di notte, che li vogliono sempre pronti a scattare in caso di imprevisti, di urgenze, di necessità, che li valutano sulla base di quanto servono, di quanto producono, di quanto ci sanno fare, di quanto riescono a sopportare. Non so voi ma io mia figlia in ufficio non la porterei mai. Mi darebbe l’impressione di metterla a rischio a non saprei dire quale contaminazione. Forse la contaminazione della vita stessa, della società che è diversa da quella che avevo pensato per lei, che tutti avevamo immaginato di be altro tipo seguendo quanto, a loro volta, ci avevano insegnato i nostri genitori. Mia mamma, per dire, lavorava nella segreteria di una scuola, e per me era un onore quando mi portava con sé in ufficio da bambino, se non aveva alternative. Ora, non so voi, ma tutta quella purezza non c’è più, o magari è solo un problema mio.

chi viene dopo Grazia e Graziella? Per saperlo leggi qui.

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Sul lavoro ci si ringrazia per qualunque cosa con il risultato che quella che potrebbe sembrare una civilissima pratica di buona educazione si è trasformata in una risposta convenzionale da non negare a nessuno e, come tutte le cose soggette a sovraesposizione o rilasciate in quantità industriale, ne esce svilita, svuotata, svalutata e snaturata. L’esempio più eclatante di questo fenomeno è il fatto che ogni e-mail si deve chiudere con un bel grazie ma, considerando che ce ne scambiamo a dozzine quotidianamente con lo stesso destinatario, al grazie finale diamo l’importanza di poco superiore a un qualsiasi segno di interpunzione sul cui uso in contesti di comunicazione elettronica, peraltro, ci sarebbero interi manuali da scrivere ma chi sono io per insegnare a voi l’utilizzo delle virgole, tanto per fare un esempio?

Comunque la cosa ha preso piede e mandi un file e ti ritorna un grazie, fornisci un aggiornamento e ti ritorna un grazie, condividi qualcosa e ti ritorna un grazie ma il problema è che quello è il tuo lavoro e allora, se devo essere ringraziato per ogni aspetto in cui si declina la mia professionalità, tanto vale mettermi un’insegna al neon rossa con su scritto a caratteri cubitali THANK YOU sempre accesa qui davanti e a posto così. Anzi no, datemi un bell’aumento di stipendio e vi abbuono dal ringraziarmi per i prossimi due o tre anni. Il lato oscuro di questa vicenda è che siamo talmente assuefatti dal ringraziare cani e porci per qualunque nonnulla che abbiamo preso anche a ringraziare anche quando non dovremmo, anche quando magari anziché dire grazie dovremmo mandare a quel paese e persino in casi in cui proprio non c’entra nulla e il ringraziamento suona come un “grazie solo per il fatto di considerarmi un referente di qualcosa, un’entità dotata di casella di posta elettronica che ha conquistato un livello evolutivo superiore alla risposta automatica”.

Così, come una qualunque sostanza che, lasciata con la sua confezione aperta, ha perso il suo principio attivo o la sua fragranza, quando ci capita di essere a contatto con qualcosa di veramente speciale, altruista o degno della considerazione altrui, da un po’ abbiamo preso l’abitudine di dire o ricevere il “grazie di cuore” perché non si sa bene in che modo ma la nostra scorta di riconoscenza genuina la conserviamo lì, in uno scomparto speciale come quelli dei frigoriferi moderni, isolato dagli altri, in cui è possibile impostare una temperatura diversa. Infine, per chiudere, dei vari grazie mille o l’improbabile grazissime che spopola sui social network potete tranquillamente farne carta straccia o tenerli in un cassetto insieme alle altre banconote fuori corso, chissà che un giorno guarderemo anche questi buffi modi di dire come un cimelio vintage di cui vantarsi con i propri nipoti ma, a dirla tutta, spero di no.

un esempio di semplificazione delle regole esistenti

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Il vero punto di svolta della nuova legge sul lavoro è, in parole povere, che ciascuno di noi può essere remunerato in base a quanto fa e non a cosa fa. L’apporto della ministra allo sviluppo economico, e spero di non essere il solo a ravvisare in lei una forte somiglianza con Charlotte Gainsbourg che peraltro, tra parentesi, trovo molto sexy, sotto questo punto di vista è stato determinante e ora vi sfido a dire che i politici sono tutti uguali. Se leggete attentamente tutto il testo, risulta chiaro che le uniche attività non redditizie alla fine sono quelle riconducibili all’ozio universalmente riconosciuto, come lo zapping sul divano in cui la tv è il passatempo e non il programma televisivo da seguire, anche se a dirla tutta io non pagherei un centesimo uno che si spara otto episodi di Stranger Things in un pomeriggio, anche se come tipo di impegno può essere paragonabile allo straordinario che si fa in ufficio per ottemperare a una scadenza. Il mio agente si è confrontato con il mio commercialista e, insieme, con la casa editrice che mi pubblica, e sembra che le migliaia di ore della vita che noi scrittori emergenti passiamo davanti al PC possono essere conteggiate secondo un tariffario universale con un minimo garantito per quelli come me che li leggono in quattro gatti e che prevede poi, giustamente, i miliardi per chi vende i best seller. Ma non sono il solo a trarne vantaggio. Le persone normali che non passano una giornata senza rischiare di bucare degli appuntamenti tanti impegni si hanno, anche cose come la spesa o i genitori ottuagenari da scarrozzare in macchina a fare le analisi del sangue o i figli da accompagnare all’allenamento e l’auto da portare al meccanico. Se non ho frainteso il testo, tutte le cose che uno non farebbe a meno di essere costretto da cause di forza maggiore o per spirito di responsabilità, da oggi possono essere remunerate con ampi sgravi fiscali anche se l’azienda o la struttura per cui operiamo non trae alcun profitto dal nostro sbatterci. Vi chiederete, a questo punto, in che stato vivo, ma so che sapete che io ho la cittadinanza in un posto fantastico dove tutto fila liscio come i periodi che scrivo, ma ho deciso di trasferirmi qui quella volta in cui ho aperto un blog per vedere cosa c’era dentro.

non c'è nient'altro al mondo che odora così

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Capisco subito dal profumo eccessivo di deodorante per ambiente di primo mattino, uno di quelli in grado di trasformare un qualsiasi ufficio di poche pretese in una foresta tropicale, che è bastato assentarmi un pomeriggio per perdermi il colpo di stato, la rivoluzione epocale, l’instaurazione del regime e che, approfittando dell’assenza, il sistema ha fatto piazza pulita di metodi antichi e improduttivi, orpelli di storia individuale come il cagnolino da cruscotto che muove la testa quando la macchina sobbalza e che ora giace rotto e privo dell’occhio destro sulla mia scrivania e quattordici anni di biglietti da visita ammassati in un portapenne. Gente che sicuramente non lavora più nei posti indicati in calce al nome e cognome e chissà dove vive ora, magari su una spiaggia dei Caraibi a gestire un chiosco di shottini, uno dei neologismi per i quali l’umanità dovrebbe estinguersi entro fine 2016 (tanto alcuni dei suoi più rappresentativi esponenti ha già provveduto). C’è un ristorante dalle parti della sede Microsoft che ha le pareti decorate proprio da quei rettangolini di carta illustrati – che il popolo sfrutta più che altro come filtrini per spinelli – messi al riparo dagli schizzi di ragù dietro pannelli in plexiglass, frutto di centinaia di migliaia di pranzi di lavoro. A Milano non ci facciamo mancare proprio niente. Ma potete stare tranquilli perché in realtà non è successo nulla di tutto questo, sono solo gli effetti allucinogeni della dose da elefante di spray esotico che è stata immessa in anticipo sull’inizio delle attività lavorative a causa di una porzione di broccoli abbandonati da un anonimo collega il giorno prima, i quali (i broccoli) lasciati a sé non hanno perso tempo a manifestare il loro disappunto come solo loro (i broccoli) sanno fare. L’impatto su di me è stato così forte che mi ha disintegrato l’entusiasmo con cui stavo gongolando su un’idea per una pubblicità di auto. Gli spot te le fanno vedere lanciate su strade deserte, ma la vera sfida sarebbe costruire modelli che ti rendono piacevoli le code al semaforo quando ti perdi il verde per la terza o quarta volta, o un classico rientro pomeridiano lungo la tangenziale. Avevo pensato anche alla musica e mi sembrava che davvero potesse spaccare, d’altronde io non ascolto questo o quel genere ma solo bella musica e non ho problemi a passare da David Bowie a Fela Kuti con la massima disinvoltura. La creatività prevedeva invece una conversazione tra mia moglie e me dopo una cena a casa di una coppia di medici, lui che fa il chirurgo e assaggia la pasta dopo chissà quale parte del corpo ha ricucito, lei manager per una multinazionale del farmaco, e noi due che ci chiediamo se siamo così poco interessanti se nessuno, a tavola, ci chiede mai nulla di noi.

comunque è bene prepararsi, scegliete voi in cosa

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Io lo so perché in giro c’è tutta questa confusione. Il mondo è pieno di gente che fa cose che dovrebbero fare altri mentre gli altri fanno le cose che la gente che fa cose che dovrebbero fare altri dovrebbe fare. Solo a scriverlo mi sono confuso, pensate un po’ a leggerlo o a cercare di capirlo. Allora facciamo così: alzino la mano quelli che hanno studiato per intraprendere la carriera x e sono giunti a x a tutti gli effetti. No, per voi ingegneri non vale. Sentivo ieri alla radio di quanto fosse eterogeneo il mondo degli educatori – per esempio – prima che venisse regolamentato da un sistema con tanto di titolo di studio. Certo, sosteneva l’intervistato, un conto è la patente e un altro è poi essere abili a guidare, quindi portati, bravi e capaci nel proprio lavoro. Ma ci sono dei musicisti che fanno i grafici perché l’estro poi è lo stesso indipendentemente da come lo rendi percettibile al prossimo e questo solo perché con la musica non si sbarca il lunario e dicono – ma io non ci credo – che basti smanettare un po’ con i software della Adobe per fare poi quel mestiere lì. Chi sa scrivere magari non riesce a fare proprio i milioni con i best seller però si mette a controllare il traffico del centro perché ha vinto un concorso e si è detto perché no, poi posso scrivere nel tempo libero ma finisce che tempo libero non ne hai più, disimpari a scrivere e da vecchio ti viene il mal di stomaco per il rimorso. Ci sono invece competenze che si acquisiscono per uno scopo e poi si mettono in pratica per tutt’altro, e il senso è che non si può mai sapere dove vanno a parare le cose. Un mago del software che non trova spazio alla corte di Zuckerberg perché trova tutto pieno e così si trova a divertirsi nelle scuole più povere re-inventandosi animatore digitale. Le cose che ho studiato io, giusto per arrivare al dunque con il solito pensierino sull’esperienza in prima persona, mi sono tornate utili prima o poi e nei settori più disparati. Ho risolto problemi nella vita pur essendo una capra in matematica e grazie alla grammatica latina e ho fatto il beat box impressionando una commissione a un concorso. Utile anche il calcolo dei battiti al secondo senza orologio e riuscire a riprodurre il La a 440 Hz (quello del diapason, per intenderci) grazie a un pezzo che ho composto con un folle mio concittadino e la cui nota di inizio è imbullonata nella mia memoria, o l’if-then-else della programmazione applicato al mestiere di padre. In generale sembra che un’infarinatura di una disciplina ti consenta un futuro radioso da tutt’altra parte e agli antipodi del contesto di partenza e tutto questo è molto bello, almeno secondo me, insomma c’è da divertirsi e il mio consiglio è di chiedere sempre alle persone che si conoscono (sempre che abbiate una vita sociale) come sono arrivate lì. Avrete delle sorprese.

la parabola delle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia

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La grande novità qui in ufficio per la stagione professionale appena iniziata sono le fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia che raccolgono i fili penzolanti dalle scrivanie e li contengono onde evitare piccoli incidenti, per non parlare del senso di ordine che trasmettono e, perché no, del salto di qualità da un punto di vista estetico. Le fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia ci sono state imposte all’ultimo controllo dell’ispettore della sicurezza sul lavoro, poco prima delle vacanze. Si è affacciato nella stanza che ospita me e altri cinque colleghi – per un totale di sei computer e dieci monitor – e la sorpresa della densità abitativa e delle relative conseguenze (in primis l’atmosfera tutt’altro che rarefatta) è passata subito in secondo piano rispetto alla sensazione di pericolosità maggiore trasmessa dalla vista di tutti i cavi di collegamento tra i dispositivi, verso la rete aziendale e verso l’impianto elettrico, lasciati liberi di attorcigliarsi a proprio piacimento. Così, al rientro dalle ferie, la prima cosa che mi ha detto il collega che si occupa di questioni inerenti l’hardware – siamo in una scala di priorità di ben altro livello rispetto a cose come “dove sei stato di bello” o “diamine come se abbronzato” – è stata un commento alla grande novità che ci accompagnerà d’ora in poi in agenzia. Sono trascorse appena un paio di settimane ma già i benefici delle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia sono più che evidenti. Lavoro con maggiore disinvoltura, ho picchi di creatività e produttività mai visti prima e, soprattutto, ho qui nel portafoglio un bel bonus di ottimismo che mi consente di tornare a casa la sera pieno di speranze per la mia carriera.

Poi, però, arrivano notizie drammatiche come quella di ieri. Avete sentito, vero? Il nuovo telefono Apple, l’iPhone 7, è stato pensato privo dell’ingresso jack per le cuffie. Gli utenti dello smartphone al sapore di mela morsicata avranno un cavo in meno da sbrogliare e, di certo, qualcosa nella loro vita cambierà, considerando il tempo risparmiato. Il punto è che oggi si inizia con gli auricolari, già la presenza della connessione wireless negli uffici ha reso superflui i cablaggi per l’accesso alla rete, e insomma nel giro di qualche anno magari dei cavi non ci sarà più bisogno. Vivremo immersi in un qualcosa che non si vede ma che convoglia informazioni, energia elettrica, input, feedback e chissà cos’altro e che, purtroppo, decreterà l’obsolescenza delle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia perché, appunto, non ci sarà più niente da incanalare e da convogliare da qualche parte. Che ne sarà di questa novità, tra dieci, venti, cinquant’anni? A me un po’ mi spiace, alle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia qui in agenzia mi ero già affezionato e non vi nascondo che un mondo senza cavi e fili mi mette in agitazione.

giro di boa

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Nei programmi tv in cui si prepara da mangiare al cospetto di esperti, la media è di uno all’ora e ho approssimato per difetto, ci si imbatte spesso in gente che fa tutt’altro e che a un certo punto decide di esporsi tramite una passione più o meno sopita ma che è comunque esterna al perimetro della confort zone di riferimento, che è in questo caso stare dietro ai fornelli. Nei sottopancia che compaiono a video si legge Nome Cognome e poi sotto architetto, o impiegata, o imprenditrice, ma lì in prossimità della enogastro-star è qualcuno che veste i panni di aspirante chef.

Così ho pensato che, in senso lato, questo potrebbe essere un format televisivo di successo: persone che si rimettono in gioco in una fase magari critica del loro vissuto e grazie ai soldi della pubblicità televisiva – o del canone o del cannavacciuolo di turno – hanno l’opportunità di voltare pagina. Vi sfido a trovare qualcuno che non riporterebbe indietro il suo lavoro per ri-avere in cambio la sua passione, o anche solo lo permuterebbe per un impiego diverso purché più edificante o anche solo più remunerativo e davvero, già mi vedo la marea umana di candidature come ai provini indiscriminati di X-Factor, in cui ogni funambolo del cambiamento, uno ad uno di fronte a questo o quel selezionatore di successo, racconta la sua storia e spera di essere condotto alla fase finale perché faceva il direttore di filiale ma vorrebbe ricollocarsi come fabbro, oppure il copywriter che aspira a una cattedra di insegnante della scuola primaria o il contabile che vuole avviare una panetteria.

Io lo sostengo da tempi non sospetti: saremmo tutti più felici se ci scambiassimo i mestieri con una certa frequenza, e non solo come semplice riposizionamento in un altro reparto sempre all’interno della stessa società. Il mondo girerebbe alla grande e il ceppo più debilitante dello stress verrebbe finalmente sconfitto. Se poi parliamo di passione che subentra al ruolo che ci portiamo appresso da una vita, probabilmente questo pianeta esploderebbe ma di entusiasmo. Pensate a quante energie mettiamo in quello che ci piace fare e al senso che ha tirare i remi in barca quando si ha ancora molto da dare alla società ma in altre vesti. Quindi non venite a dirmi che il lavoro è la vostra vita perché, come sostiene un mio amico, questo significa che vivete male.

l'obiettivo non è aumentarne la risoluzione

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Qualche giorno fa ho sostenuto il primo colloquio in videoconferenza della mia vita, combinazione vuole che si trattasse anche del colloquio della vita e, come tale, è facile immaginare come sia andato a finire. Ma, esito a parte, ero da solo in casa, indossavo sopra una camicia blu scuro a maniche corte che ho appena acquistato con i saldi, ma sotto sono stato tentato di rimanere in bermuda. Poi ho pensato a una qualsiasi emergenza tipo uno dei gatti che salta sullo stereo alle spalle della postazione PC e alla pessima impressione che avrei potuto dare di me precipitandomi a farlo sloggiare (quella zona deve rimanere cat-free), quindi ho messo i pantaloni lunghi da ufficio. Alla fine non mi sono nemmeno alzato, non c’è stata nessuna delle calamità naturali che avevo figurato come possibili lanciate da qualche emissario occulto interessato a interrompere sul nascere il mio futuro radioso. Fastweb che stacca i bocchettoni della banda larga per manutenzione senza avvisarmi. Un virus che distrugge il pc pochi minuti prima dell’appuntamento per un clic di troppo causato dal nervosismo. Il vicino di fronte con il flessibile o il tagliaerbe a manetta. I ladri che entrano in casa dal balcone e che imploro circa l’importanza di svaligiare l’appartamento in tempo utile per il colloquio. Da quel punto di vista tutto è filato liscio, nemmeno i cani delle villette lungo la mia via si sono messi ad abbaiarsi reciprocamente, come accade spesso mentre dormo dopo pranzo. Non è stato necessario niente di tutto questo perché è stato sufficiente essere me stesso per mandare tutto a monte. Ma, a parte questo, mi incuriosiscono molto gli sviluppi di queste modalità avveniristiche di recrutamento del personale. Sei a Milano e un inglese passa il tuo contatto a un indiano che ti organizza una chiacchierata tramite Internet con un manager in Israele. Poi spegni il pc e dietro di te c’è casa tua, il gatto che cerca di saltare sul piatto dello stereo, il vicino in pensione che cura il suo giardino e tutto il resto del mondo da questa parte, che non ci sta dentro l’obiettivo della webcam ed è davvero difficile da trasmettere anche se la banda larga funziona che è una meraviglia.

si è liberato un posto da assistente

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Qualche anno fa, quando ho visto per la prima volta il film “The Artist is Present” su e con Marina Abramovic, mi ha colpito il fatto che il suo assistente fosse (o sia tutt’ora, questo non lo so) un ragazzo italiano. Si tratta di un dettaglio che non dovrebbe stupirci: il mondo è pieno di cervelli del nostro paese in fuga o comunque di italiani che fanno i lavori più disparati (e disperati) all’estero, dall’assistente di Marina Abramovic all’addetto alla frittura di patatine al McDonald’s ed è facile leggere tra le righe quale sia in questo esempio il disparato e il disperato, premesso che ho molti amici addetti alla frittura di patatine al McDonald’s e nemmeno un assistente di Marina Abramovic. Tra parentesi, ogni tanto su Facebook ritorna a galla la scena dell’ex marito e compagno di arte che torna a farle visita durante la rappresentazione al MOMA come esempio di clickbaiting strappalacrime che, anche se riguarda robe da intellettuali come il MOMA e Marina Abramovic, resta comunque una bieca operazione di clickbaiting. Ma non è questo il punto, e a dir la verità anche i cervelli in fuga c’entrano relativamente.

La mia considerazione riguarda come si possa sentire l’assistente di Marina Abramovic. Voglio dire, ti presenti a uno, per giunta italiano, e chiacchierando del più e del meno gli chiedi che lavoro fa e lui ti risponde di essere l’assistente di Marina Abramovic. Pensavo a questo proprio ieri durante un incontro di lavoro con il responsabile dell’automazione industriale del principale gruppo siderurgico nazionale e, come al solito, non metto nomi o brand per evitare di essere rintracciato dai motori di ricerca. Sapete, mi piace mantenere l’anonimato.

Il punto è che quando lavori per un’azienda importante o fai un lavoro fighissimo (e lasciate perdere mestieri come lo scrittore, il tastierista dei Subsonica o il neurochirurgo) poi devi fare i conti con la responsabilità e l’orgoglio del marchio che rappresenti. Quando vado in visita nelle aziende per il lavoro che faccio, anche quando si tratta di realtà stra-conosciute come uno dei più importanti gruppi italiani nel settore alimentare, o il designer di una nota fabbrica di moto da corsa, o ancora i produttori di una crema spalmabile alla nocciola famosa in tutto il mondo, o anche un network televisivo multinazionale e come dimenticare lo studio di progettisti di grandi opere il cui valore è all’ordine del giorno, in tutti questi casi mi trovo di fronte a donne e uomini (a dire la verità, purtroppo, il settore tecnico e ingegneristico che frequento è prevalentemente maschile) in carne e ossa. Persone che a fine giornata vanno a controllare se in giardino l’impianto di irrigazione è partito regolarmente o si precipitano a prendere i figli al tempo pieno. Eppure, sul badge, il logo che vedo non lascia dubbi circa il loro status. Lo so, non significa nulla, se non che non sai mai chi ti trovi davanti quando vai a visitare le aziende più blasonate ma alla fine raramente si ha a che fare con extraterrestri. C’è orgoglio? C’è aziendalismo? C’è presunzione? Quanto guadagnano? Perché io no? Potete rispondere a tutte queste domande tranne l’ultima, grazie.

echi di un tempo indeterminato

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Un ex collega che è in ferie mi ha detto che appena rientrerà in ufficio la prima cosa che farà sarà far sapere al suo responsabile che vuole delle casse per non esser costretto ad ascoltare la musica in cuffia mentre lavora, io gli ho risposto che ne approfitterò per chiedere un poster di David Bowie da appendere alle mie spalle in modo da dare la possibilità a chi entra nella stanza senza conoscermi di avere almeno un argomento di conversazione. Questo sì che è un efficace biglietto da visita e, mi spiace dirlo, ma il mio ex collega si è confermato in tutta la sua prevedibilità. Ci conosciamo troppo, tutta colpa delle dimensioni dell’ambiente di lavoro minuscolo che ci accomunava. Ho partecipato invece a una riunione nella sede di un nostro cliente e la persona che ho incontrato – non l’avevo mai vista prima – oltre a stringere la mano a me si è presentata anche a un suo collega di un altro dipartimento della sua stessa azienda, che lavora nello stesso edificio. Possibile che non si fossero mai e dico mai incontrati prima? Sono lì da anni e non c’è mai stata un’occasione in cui i due non abbiano mai avuto modo di conoscersi? È una dimensione che ai sempliciotti come me manca completamente, quella delle grandi aziende popolate da centinaia di persone che occupano palazzi interi del centro o che hanno una sede tutta loro in uno di quei paesi dell’hinterland che non hanno una separazione geografica ben definita da Milano, viale Fulvio Testi in primis. Pensate anche a quanti amori sbocciano in quelle realtà, di gente che si accoppia nelle multinazionali e manda a ramengo il matrimonio precedente sono piene le pagine Facebook.

I nostri genitori che hanno lavorato sessant’anni nello stesso posto e a malapena hanno visto l’Office Automation sostituire le macchine da scrivere elettriche si portavano dietro gli stessi superiori e pari livello per tutta la vita. Mia mamma si sente tutt’ora con la sua dirimpettaia di scrivania, anche se è conciata piuttosto male per tutti i problemi di salute che ha avuto. In una delle primissime agenzie che si è avvalsa della mia capacità di creare problemi avevo addirittura trovato il mio ex allenatore di pallacanestro, quello che quando facevo le medie e già ero abbastanza frustrato dal bullismo anche se allora non si chiamava ancora così, poi per almeno due ore per tre pomeriggi la settimana mi trovavo lui davanti in palestra che mi tirava le palle da basket – seconde a peso solo alle palle mediche – addosso durante l’allenamento quando sbagliavo a muovere il polso nei tiri da distante. Oggi invece quando vado a trovare Fulvio che lavora in RCS o quello che ne rimane mi stupisco della moltitudine di persone che operano lì e che popolano la mensa, ne hanno addirittura due. Tutti colleghi che non conosce, alcuni anche volti noti che ogni tanto si vedono alla tele, alcuni li saluta altri no, e mi chiedo se sia questa la vera distanza tra il mio provincialismo professionale ed essere nei posti che contano. Secondo me lavorare in una grande azienda è meglio e trovi gente più elegante, nel mio ufficio siamo in quattro gatti, io li conosco tutti, sappiamo ogni cosa l’uno dell’altro anche se non ci parliamo granché, anzi con alcuni proprio per niente.