se la campagna elettorale è ancora in corso

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Ai tempi di uno degli ultimi gruppi musicali in cui ho militato, un bassista contattato durante una fase di scouting mi disse che, di passaggio a Milano dalla Puglia, sua terra d’origine, si era innamorato di questa città sbucando con la linea rossa della metro in Porta Venezia e guardando Corso Buenos Aires in prospettiva, da lì verso Piazzale Loreto. Quello fu un elemento decisivo nel processo di selezione. Scartato. Difficile essere compatibili, con un senso estetico così agli antipodi: è come innamorarsi di una persona per il modello di smartphone in suo possesso. Sapete a cosa mi riferisco: Corso Buenos Aires è un enorme centro commerciale outdoor che pullula di negozi, forse un tempo anche di qualità. Ora né più né meno che gli stessi brand che si trovano in qualsiasi altro megastore adibito allo shopping di massa.

Pur lavorando in zona, cerco sempre di evitare il transito in Corso Buenos Aires. Mi infastidisce la fauna in mostra davanti alle vetrine su entrambi i lati e dalle stesse vetrine riflessa, mi infastidisce il traffico particolarmente chiassoso che ha ore di punta random, indipendentemente dalle stagioni. Mi infastidisce in inverno, quando il buio che cala già a metà pomeriggio accentua il contrasto tra lo sfarzo di classe economica in bella mostra nei negozi e i loro addetti alla sicurezza africani in completo scuro. Loro possono stare solo alla porta, il terzo mondo non è degno del consumismo: questa sembra essere la didascalia, mentre frotte di consumatori credenti e praticanti spuntano l’elenco degli affetti da consolidare facendo un match improvvistato con i regali natalizi scelti a caso, tra quello che è disponibile sul mercato (quel mercato).

Mi infastidisce con la bella stagione, ragazzi e ragazze sudaticci in canotta e infradito seduti al sole nei dehor dei bar a ridosso delle macchine parcheggiate in prima e seconda fila, con le quattro frecce e il motore acceso, a sorseggiare bevande alcoliche in recipienti esotici con cannucce lunghe e colorate e fettine di frutta galleggianti. I turisti dello shopping, una specie antropologica migratoria venuta dall’est mossa dallo spirito di conservazione del guardaroba, per fare provviste con capi prodotti in paesi molto più vicini a loro acquistati nei negozi in franchising, gli stessi che esistono anche nelle loro città. E, ancora, i supermercati della cultura, che anche con marchi cari alla sinistra hanno fagocitato le piccole e operose librerie di una volta; c’è un caso eclatante proprio a fianco dell’ingresso di un noto magazzino a tre piani stipato di libri, cd e sconti, che dà l’impressione di un grattacielo costruito a ridosso di una cascina con l’orto, pronto a crollarle sopra.

E ad ogni angolo ecco lì aitanti giovanotti e giovanotte pronti a rifilarti in mano il depliant della promozione del giorno, per attirare un target indistinto e indistinguibile in una delle tante vetrine tentacolari. Ma che strano. Oggi questi giovanotti e giovanotte vestono una maglia uguale, sono davvero in tanti. Deve trattarsi di un marchio importante, questo Popolo delle Libertà.

Ed ecco il collegamento che mi mancava, ed è impossibile non fare un confronto. Come qualsiasi prodotto da pubblicizzare, di là i militanti li assoldano. Ieri ti offrivano un’ora di lettino solare, oggi ti invitano a votare per Letizia Moratti. Questi sono peggio persino dei sedicenti promotori culturali, che per strada ti chiedono quanti libri leggi (al chilo), che libro stai leggendo ora, e se per sbaglio firmi sei costretto a comprare “tomate” di Wilbur Smith per almeno 24 mesi. E se rispondi che tu i libri li prendi solo in biblioteca, cercano di spaventarti con le malattie che si possono contrarre sfogliando pagine già umettate dalla saliva di altri.

Sono un po’ di fretta, ma un promotore delle libertà mi si avvicina, con cappellino a visiera, jeans sotto i fianchi, maglietta da vero moderato e boxer in bellavista. Mi porge un volantino, ma mi scappa un gesto di rifiuto e un sonoro “per carità”. Che termine desueto, penso immediatamente. E anche lui sorride, ripete “per carità” a se stesso e poi si gira, ripete “per carità! Ha detto per carità!” ai suoi colleghi delle libertà. Ce ne sono altri tre più avanti, seduti sul gradino di un negozio di abbigliamento perfettamente in linea con il loro stile. Passano due ragazzine, palesemente under 18, uno di loro si alza e fa il figo porgendole la propaganda delle libertà, probabilmente ignorando l’età minima per il diritto di voto, ma procurandosi comunque un’opportunità personale in più appena finirà il turno.

personaggi pubblici e luoghi comuni

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Hanno il ritmo nel sangue:

Non hanno il ritmo nel sangue:

gente di un certo libello

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S. abita a uno sputo dall’ufficio, un paio di isolati. Il che la dice lunga sulla sua estrazione sociale: un appartamento di proprietà in corso di Porta Vittoria non lascia dubbi. E infatti dubbi non ne abbiamo. S. potrebbe tranquillamente non lavorare, non occupare inutilmente un posto togliendo l’opportunità a un precario qualsiasi di emanciparsi, farsi una vita, recuperare una dignità. Se fossi il capo, qui, la voce “residenza” costituirebbe un elemento fondamentale di cui tenere conto. Mi direte: magari il candidato/a ha in subaffitto una cantina o un seminterrato in piazza del Duomo. Si, vabbè. Riconosci comunque il tipo di persona.

Comunque il problema non si pone, S. ha meritatamente superato un colloquio ed ora è qui nella mia stessa stanza. Una ragazza nata sciùra, portamento e look degni di Letizia Moratti, come lei simpatica come una verruca, cappellino compreso. E di Letizia Moratti è anche elettrice: disinformata come tutti quelli che votano di là, commenta a voce alta le news del palinsesto di portali trash come Libero (quello della posta), anche se non mi stupirei se la sua disinformazione attingesse anche all’omonimo pseudo-quotidiano. L’apoteosi dell’aberrazione antropologica cui appartiene si è consumata con l’organizzazione della sua cerimonia nuziale, non affidata a un wedding planner solo perché è pure convinta di avere buon gusto, mesi e mesi di telefonate (personali durante l’orario di lavoro) a questo e a quello e il vestito e il pranzo e la location, nozze alle quali non sono stato nemmeno invitato. Tsk.

Pochi isolati a piedi da casa all’ufficio, dicevo. Un tragitto che non può impiegare leggendo. Ma questo non le ha impedito, una mattina di poco più di un mese fa, un ingresso trionfale con un tomo, edizione di lusso, copertina rigida, una decina di centimetri di altezza, poggiato sull’avambraccio. Spesso si chiacchiera di libri, ci si consiglia, si danno pareri. Così S. ha deciso di fornire il suo contributo, mostrare la sua carta di identità culturale. Io sono così. E io sono Oriana Fallaci, ci ha detto. Un inutile blocco di cellulosa trattata con centinaia e centinaia di pagine contenenti parole disarticolate allineate in sequenza a giustificare il prezzo in quarta di copertina. Questo libro vale tanti caratteri spazi inclusi quanti l’editore le ha commissionato. E S. ha poggiato questa porzione di vuoto in meno al confine tra le nostre due scrivanie, in bellavista. Un colpo basso, un dispetto da scuola media, una linguaccia per vendicare mesi di snobismo culturale nei suoi confronti.

Ma l’ostensione è durata solo un giorno, lo spazio occupato inutilmente da quel libello è tornato ad essere vuoto la mattina successiva, non avendo suscitato dibattito alcuno. Dubito che S. l’abbia letto in 24 ore. Probabilmente era solo un simpatico gadget a forma di cattiveria, un inutile beauty-case-book, un pericoloso e intollerante fermacarte di carta, o l’ultimo ritrovato per l’autopotenziamento dei bicipiti.

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un publiredazionale vi seppellirà

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Siamo orgogliosi di un biglietto da visita in più che ci viene riconosciuto anche dall’inserto del Financial Times che riconosce che Milano è diventata una capitale internazionale della cultura.

Certo: basta pagare e il Financial Times riconosce chiunque.