ecco cosa vi consigliamo io e Barack

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Il mio scetticismo radicale per le recensioni sui dischi, buttate giù magari dopo un paio di ascolti superficiali solo con l’obiettivo di pubblicarle o mandarle in stampa in esclusiva o prima di testate o siti concorrenti, è compensato dalle recensioni che leggo in giro sui libri. Mediamente mi imbatto in interviste e scritti di alto livello e il motivo, anche se ovvio, è bene comunque tenerlo sempre a mente. Non mi riferisco ovviamente ai commenti di semplici lettori come me che lasciano il loro pensierino su Amazon, Ibs o sui social network di settore, benché talvolta siano in grado di riservare piacevoli sorprese.

Certi articoli a firma di personalità letterarie di rilievo spesso sono avvincenti tanto quanto il romanzo stesso, e la profondità con cui l’autore della recensione sviscera l’essenza del libro e l’intento dello scrittore, attraverso un’analisi psicologica del testo la prima e un dibattito condotto minuziosamente il secondo, è preziosissima per ribadire l’apprezzamento del libro appena terminato. Avrete capito che dedicarsi al parere altrui su una pubblicazione prima di essere giunti all’ultima pagina lascia il tempo che trova, ci si espone al rischio di spoiler, si capisce ben poco (ma se preferite parlo per me) e condiziona l’approccio al nuovo romanzo la cui lettura stiamo per iniziare. Una buona recensione dopo la lettura, e – ripeto – basta guardarsi un po’ in giro per trovarne di qualità, mi permette invece di spingermi oltre i limiti della comprensione entry-level, mi dà spunti che altrimenti si perderebbero via, mi accompagna lungo punti di vista differenti e impensabili per vie diverse, da cui osservare e valutare la storia con prospettive sorprendenti, in taluni casi persino ribaltate.

Ho appena terminato “Fato e furia” di Lauren Groff, che ho letto un po’ perché avevo già apprezzato “I mostri di Templeton”, un po’ perché ha avuto l’endorsement di eccezione di Barack Obama. Avevo messo da parte questo articolo con intervista all’autrice apparso su Mimina&Moralia, che mi sono precipitato a consultare una volta finito il libro, e quanto ho scritto sopra vale per questa combinazione come non mai. Se avete letto il romanzo vi invito a dare un’occhiata al pezzo, se vi mancano entrambi mi chiedo cosa stiate aspettando: spegnete subito l’Internet e correte in biblioteca.
(p.s. qui c’è il blog dell’autore dell’articolo, che si chiama Adriano Ercolani)

il guerrilla reading riflette esattamente l’idea che chi non legge ha di chi legge

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Ho esercitato il mio diritto a leggere a voce alta in pubblico solo una volta, durante un viaggio in traghetto verso la Sardegna. Bivaccavo su un materassino gonfiabile fiero del mio passaggio ponte, in compagnia di altre centinaia di viaggiatori senza cabina, e sapete come funziona quando si stanzia in tanti nello stesso posto. Se tutti parlano a voce alta, telefonano, non si premurano di imporre ai figli di fare meno baccano, quel posto diventa un inferno. Per farla breve, una piccola comitiva di gente di mezza età ma in piena adolescentizzazione e euforia da ferie da single discorreva con un tono inappropriato per l’ambiente, proprio mentre ero alle battute finali di non ricordo che libro (sicuramente un autore USA). Così, mi sono detto, perché non leggere ad alta voce? Forse i passaggi di quel libro hanno meno dignità delle loro chiacchiere?, mi sono chiesto. E il messaggio è passato. La comitiva di supergiovani, sbalordita e distratta riguardo all’argomento della loro conversazione dal mio comportamento, dopo qualche minuto ha desistito, preferendo quattro passi sul ponte scoperto a godersi le sigarette controvento e i battibecchi tra i cani costretti ad altrettanta socializzazione forzata.

Si tratta, ovviamente, di un caso limite, una rivalsa, il tentativo di riappropriarsi di un diritto non dico al silenzio ma al rispetto altrui. Ora, non so se avete letto questo articolo e, come vi è scritto, davvero provate a immaginare di “salire sul tram e che a un certo punto la vostra insospettabile vicina di posto inizi a leggere ad alta voce un brano del libro che ha in mano. E, finito lei, che inizi a leggere il tizio lì in piedi davanti a voi e poi una signora là in mezzo e così via”, con l’obbiettivo di farvi “alzare gli occhi dai telefoni cellulari e a catturare l’attenzione con delle pillole di letteratura scelta”.

Da lettore compulsivo e pendolare senior e certificato – uso mezzi pubblici per recarmi a destinazione quotidiana dal 1986 – vi dico che il guerrilla reading riflette esattamente l’idea che chi non legge ha di chi legge. Gente boriosa che si sente superiore solo perché tiene un libro, possibilmente tradizionale e cartaceo, in mano. Che poi è proprio così, ne sono fermamente convinto e guai a chi sostiene il contrario. Solo che credo non sia questo il modo per far pesare in modo appropriato, a chi non legge, il fatto di essere degli ignoranti, gretti e zoticoni affetti da pigrizia mentale e schiavitù digitale. Ci sono biblioteche pubbliche che attirano con varie iniziative l’ampia fetta di popolazione che non è loro utente, e che probabilmente coincide con chi non legge, per poi infondere in loro il germe della lettura passando da altre vie e prendendola alla larga rispetto a sbattergli in faccia quel che meritano.

Noi lettori siamo superiori a voi non-lettori, a meno che siate non-lettori ma lettori del mio blog e quindi, considerando che state dando credito a un aspirante scrittore americano, va bene lo stesso, ma ci vuole tatto nel mettere i non-lettori di fronte alla responsabilità del collasso della società come la conosciamo e della quale abbiamo appreso la conformazione proprio leggendo dei romanzi su cui c’era spiegato per filo e per segno, oppure raccontato tramite storie esemplificative, quello che siamo. E lo so che ai tempi dell’Internet ci sono diverse forme di lettura, ma – e ne abbiamo già parlato – quella di battute da due righe per volta postate dal vostro vicino di casa, a meno che il vostro vicino di casa non sia un autore affermato o Umberto Eco, non rientra in questa disciplina.

Ma c’è una seconda lettura, non necessariamente a voce alta, di questa iniziativa. Potremmo infatti tentare un diverso tipo di esperimento per esorcizzare la fobia di qualunque flash-mob o sentinellismo in piedi che sia che hanno certe persone, me in primis. Assistere a una qualunque performance fuori contesto, malgrado mi auto-annoveri tra le file dei situazionisti radicali, mi fa letteralmente sbarellare. Non vi nascondo che, se mi fossi trovato accerchiato da reading-guerriglieri, avrei afferrato armi e bagagli e sarei saltato giù dal tram. Così ho pensato che potremmo ingaggiare qualche lettore arabo e chiedergli di fare altrettanto mettendosi a leggere, nella sua lingua madre, qualcosa a voce alta, su un mezzo pubblico gremito di persone, e poi vedere che succede.

come fare i soldi scrivendo

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Qualche sera fa ero fuori a cena con il direttivo del Club degli Autori, i colleghi con i quali ci contendiamo le prime posizioni delle classifiche di vendita alternando sul mercato editoriale i nostri best seller in modo studiato ad hoc per non sottrarci il già ridotto pubblico degli appassionati. A turno ci siamo raccontati quando è stato il momento in cui abbiamo capito che stavamo dando alla luce un’opera “più duratura del bronzo”, per dirla alla latina. Un giochino delle verità che ho proposto io perché è una gag che ripetiamo spesso a casa, mia moglie ed io. Lei non si capacita del fatto che ci siano compositori musicali che mentre mettono insieme accordi e testo di una canzone non si rendono conto di stare lavorando a un pezzo epocale. Mi dice quindi “ma i Cure mentre registravano Seventeen Seconds sapevano di stare per pubblicare uno dei dischi più influenti per la musica che è venuta dopo?” oppure “ma David Bowie scrivendo il testo di Life on Mars non si rendeva conto di aver per le mani una delle canzoni più di successo della storia di tutti i tempi?”.

Allora per scherzare ogni volta che c’è qualcosa che vale la pena enfatizzare – in ogni disciplina artistica o sportiva o anche culturale in genere – tiriamo fuori il dialogo della conoscenza delle proprie capacità. Così con gli amici di penna (nel senso dei colleghi autori) ho voluto provare la consapevolezza reciproca dell’ammissione della responsabilità. D’altronde con i nostri libri generiamo esperienze di lettura, creiamo immaginarie vite parallele in cui perdere il filo di quelle vissute in prima persona, forgiamo opinioni, e di questi tempi di gif animate e democratizzazione della condivisione delle opinioni de “Il fatto quotidiano” non è poco.

Qualcuno ha ricordato di essere entrato in trance compositiva e, uscitone, di aver ammesso di non aver mai letto qualcosa di simile a quanto aveva appena terminato. Altri hanno visto salire come il contatore dei distributori di benzina quando fai il pieno la lista dei follower e degli amici e in quattro e quattr’otto si è trovato con decine di migliaia di visite, download, inviti a talk show. C’è persino quello che per dedicarsi alla narrativa si è licenziato e ha deciso di sfruttare l’istinto di sopravvivenza – che quando non hai un lavoro è assai complesso da gestire – per impegnarsi a fondo sul mestiere che voleva fare più di tutti gli altri e nel giro di qualche settimana era già uno scrittore di grido.

La mia storia, ve lo assicuro, ha però fatto sorridere più di tutte le altre. Era mezzanotte passata, dovevo ancora preparare un preventivo per lavoro e, sempre per lavoro anche se non sembrerebbe, pensare a un dialogo finto da inserire al posto di quello vero sulla scena di “Non ci resta che piangere” in cui Troisi e Benigni spiegano a Leonardo il termometro. La mia versione doveva avere come argomento la “trasformazione digitale” ma, come potete immaginare, non mi veniva in mente niente. Così mi sono inventato un post come questo in cui facevo finta di essere uno scrittore affermato che parlava di quella volta in cui, con altri autori amici, a turno ci siamo raccontati quando è stato il momento in cui abbiamo capito che stavamo per mettere in commercio un libro di successo. E niente, il giorno dopo è successo che il mio attuale agente l’ha letto, mi ha contattato per farmi una proposta e quanto accaduto dopo lo sapete già.

la letteratura non interessa quasi più a nessuno

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La letteratura non interessa quasi più a nessuno. Non so come fossimo messi prima ma se volete vi faccio una veloce statistica prendendo come campione la manciata di persone che incontro sui mezzi mentre vado al lavoro lungo una tratta che consente di mettersi comodi, inforcare gli occhiali chi ne ha bisogno e leggere qualcosa. E voi dieci (a essere ottimisti) che state leggendo qui non venite a dirmi che quel robo portatile che avete tra le mani non ha contribuito a diminuire il tempo che passate sui libri. Secondo me su cento siamo in quattro o cinque, e su quattro o cinque in tre scriviamo anche e quindi, anche se nessuno di noi tre fa Franzen di cognome, è facile dimostrare che una buona fetta della popolazione appassionata di libri è composta da addetti ai lavori o gente a cui gli piacerebbe esserlo. Qualche sera fa ho partecipato a un incontro con gli inventori di una piattaforma on line di crowfunding di letteratura, un’idea di per sé super-affascinante. Proponi il tuo manoscritto, viene valutato da una redazione, se passa la prima fase puoi pubblicare l’abstract con qualche pagina dello scritto sulla piattaforma. Trattandosi di una community che è in grado di attrarre sia autori che lettori non direttamente coinvolti, può anche avere il suo peso il passaparola che nel mercato massificato come lo vediamo noi potrebbe sembrare anacronistico, se non altro per il corto circuito di informazioni nelle nostre micro-società chiuse, ma invece pensate alla viralità di certe iniziative che ci passano sotto il naso centinaia di volte al giorno su Facebook. L’idea punta proprio sul marketing di sé volto a convincere amici, parenti e contatti vari sui social a contribuire al raggiungimento in un tempo circoscritto di una soglia minima di copertura di spese di partenza, oltre la quale il libro può essere stampato o distribuito a chi ha investito nella tua opera. A questo punto la start up dietro la piattaforma si fa promotrice della pubblicazione e distribuzione del libro su vari canali di vendita, on line e al dettaglio. Non so voi, ma il mio problema è duplice. Se avessi qualcosa da far leggere a qualcuno mi vergognerei troppo di mobilitare amici e parenti a contribuire all’obiettivo, e quando ho tempo per leggere qualcosa tra uno come me e Franzen non ho dubbi su chi andrebbe la mia scelta. Lo so, se tutti facessero come me la letteratura, che già non interessa quasi più a nessuno, sarebbe in via di estinzione, ma forse è proprio così.

e voi, quali preferite?

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Ci sono le storie che terminano almeno dieci pagine prima della fine del libro, a cui segue un capitolo conclusivo che fa un po’ il punto della situazione, qualche anticipazione su quello che potrà succedere, magari un co-protagonista descritto nella sua vita dieci anni dopo, cose così. Questo finale diluito serve ad attutire il trauma del silenzio che segue quando dai l’ultima occhiata alla quarta di copertina e trai le tue, di conclusioni, ti senti scendere la vicenda giù come una bevanda calda quando fa freddo o viceversa, insomma senti tutto quel bolo di sensazioni che attecchiscono al tuo corpo come le sostanze che ti fanno ingrassare di più, solo che qui questo processo di assimilazione è in generale più piacevole anche se gli stati d’animo sono contraddittori. Perché, per esempio, passare il tempo a sentire le voci di altri su tematiche che già ci capovolgono con la loro carica deflagrante. Un po’ masochistico, ma siamo fatti così, che ci vuoi fare. E non è molto diverso quando il romanzo si chiude proprio con l’ultima parola, quella semi-coperta dal timbro della biblioteca, ma è troppo destabilizzante per i soggetti che soffrono di vertigine. Perché è un po’ come accompagnare il lettore su per le scale di uno di quei grattacieli in costruzione che si vedevano nelle comiche e nei cartoni. L’autore ti fa salire su, più su, più su ancora fino quando resta solo l’anima in ferro dell’edificio, gli ultimi piani da terminare, e proprio sulla soglia del punto più alto e più sporgente ti fa ciao ciao con la manina e si butta giù perché tanto ha un paracadute e poi comunque si tratta di una metafora quella lì, quindi tutto il resto non esiste se non la tua stabilità su quel pennone sporgente sul vuoto ed è un’impresa tornare indietro e salvarsi. Mica siamo tutti come gli operai carpentieri acrobati di quella celebre foto che fanno colazione sul niente. Se ne deduce che le migliori sono le trame che non si concludono, quei segmenti di vita altrui tagliati da un momento A a un momento B ed estratti dal loro contesto per la gioia di chi legge alla stregua di aprire la finestra e vedere quel che accade in strada. Personaggi che non sai da dove vengono né dove finiranno i loro giorni, perché terminato il tuo contributo voyeuristico rimetti quel blocco di materia narrativa al suo posto, in modo che la pagina uno e l’ultima coincidano perfettamente con un qualcosa prima e un qualcosa dopo che noi non potremo mai sapere. Proprio come riporre il libro al suo posto in un cofanetto immaginario di cui è disponibile però solamente un volume, quello lì che hai appena letto, tutti gli altri appena li prendi e li apri si trasformano in una risma di pagine bianche.

si prega di fare silenzio

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La voce nella testa che legge i libri è l’unica in grado di sovrastare il coro greco che si muove lungo il proscenio interiore, chiamiamolo così, e che ci ricorda incombenze e dispiaceri, se non altro perché le storie della narrativa sono di gran lunga più interessanti delle proprie e non è difficile perdercisi dietro. Beh, a pensarci bene, non tutte. Nel senso che non tutti i libri riescono bene, ma malgrado ciò succede che a volte si prende il volo da una frase e mentre gli occhi scorrono le righe una dopo l’altra, la trama del romanzo confluisce nella maggiore preoccupazione che si sta vivendo e ci si ritrova alla pagina dopo senza ricordare nulla, confusi dell’improvviso colpo di scena o della comparsa di un personaggio nuovo. Quando si perde l’orientamento è perché qualcosa dentro di noi ci ha distratto, meglio seguire il percorso a ritroso e cercare l’ultimo punto che ci si ricorda di aver attraversato, prima del buio. Ma a parte questi incidenti di percorso, è facile che il libro e la testa funzionino un po’ come vasi comunicanti. Se la storia ha una sua gravità c’è un principio, che non ho scoperto io eh, secondo cui il contenuto più o meno fluido passa dall’altra parte che generalmente è molto più vuota e la riempie fino a far coincidere i due livelli, quello del libro e quello della testa. Se la storia poi ci prende, si adatta perfettamente alla forma del nuovo contenitore proprio come il liquido con cui si fa l’esperimento nei laboratori delle scuole medie. Non fidatevi di chi preferisce tenere il proprio cervello a secco, quindi. Lì dentro le voci interiori rimbombano, c’è un’acustica pessima come in una piscina vuota ed è facile spaccarsi i timpani con i larsen.

leggersi dentro

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E comunque ieri mattina sono uscito di casa per recarmi in ufficio e ho dimenticato di mettere in borsa il libro che sto leggendo. Era troppo tardi quando me ne sono accorto, avrei perso il treno se fossi tornato indietro dopo aver accompagnato a scuola mia figlia, quindi mi sono arreso all’ennesimo disagio da lunedì mattina. In stazione ho scelto di non comprare Repubblica, non avevo voglia di leggere le analisi sui fatti di sabato, e poi non compro mai il quotidiano al lunedì, una forma di protesta contro l’eccesso di pagine sui risultati delle partite di calcio e tutta la letteratura inutile che contengono. Insomma, ho deciso di affrontare i venticinque minuti di viaggio come fanno tanti, senza fare nulla. Mi sono seduto in treno e ho cominciato a passare in rassegna le cose che avrei dovuto approcciare di lì a poco, in ufficio. Qualche idea creativa sulla campagna a cui sto lavorando. Che peccato però sprecare il tempo libero pensando al lavoro, perché non riflettere sull’ennesimo disastro del finesettimana trascorso tra i drammi della mia famiglia d’origine? No grazie. Ho provato a ragionare su come avrei potuto scrivere un post a proposito, che poi non ho scritto. Mi sono guardato in giro, ma non c’era niente di particolare o di diverso dagli altri giorni. Pochissimi con libri o giornali, il resto dei viaggiatori come me, a guardarsi nel vuoto e a pensare. Pensa un po’. Poi il treno è entrato sottoterra, ne ho approfittato per guardarmi riflesso nel finestrino. Perbacco che sciatteria, mi sono detto, e sono certo che qualcuno mi ha pure sentito. Ho scrutato in giro in cerca di qualche viso interessante, qualche faccia intelligente. Ma se guardi troppo gli altri poi gli altri pensano che sei a caccia, o che sei un po’ suonato. A quel punto mi sono chiesto come fanno e cosa fanno quelli che non fanno nulla, guardano nel vuoto, ammiccano a se stessi nel vetro quando il treno è fermo in galleria. Ogni giorno, tutti i giorni, andata e ritorno. Ho acceso il lettore mp3, c’era “Real To Real Cacophony” già pronto da venerdì scorso, e per non lasciarmi vincere dall’imbarazzo ho chiuso gli occhi facendo finta di dormire fino a destinazione. Mai uscire dimenticandosi il libro, piuttosto le chiavi di casa.

che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.

gente di un certo libello

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S. abita a uno sputo dall’ufficio, un paio di isolati. Il che la dice lunga sulla sua estrazione sociale: un appartamento di proprietà in corso di Porta Vittoria non lascia dubbi. E infatti dubbi non ne abbiamo. S. potrebbe tranquillamente non lavorare, non occupare inutilmente un posto togliendo l’opportunità a un precario qualsiasi di emanciparsi, farsi una vita, recuperare una dignità. Se fossi il capo, qui, la voce “residenza” costituirebbe un elemento fondamentale di cui tenere conto. Mi direte: magari il candidato/a ha in subaffitto una cantina o un seminterrato in piazza del Duomo. Si, vabbè. Riconosci comunque il tipo di persona.

Comunque il problema non si pone, S. ha meritatamente superato un colloquio ed ora è qui nella mia stessa stanza. Una ragazza nata sciùra, portamento e look degni di Letizia Moratti, come lei simpatica come una verruca, cappellino compreso. E di Letizia Moratti è anche elettrice: disinformata come tutti quelli che votano di là, commenta a voce alta le news del palinsesto di portali trash come Libero (quello della posta), anche se non mi stupirei se la sua disinformazione attingesse anche all’omonimo pseudo-quotidiano. L’apoteosi dell’aberrazione antropologica cui appartiene si è consumata con l’organizzazione della sua cerimonia nuziale, non affidata a un wedding planner solo perché è pure convinta di avere buon gusto, mesi e mesi di telefonate (personali durante l’orario di lavoro) a questo e a quello e il vestito e il pranzo e la location, nozze alle quali non sono stato nemmeno invitato. Tsk.

Pochi isolati a piedi da casa all’ufficio, dicevo. Un tragitto che non può impiegare leggendo. Ma questo non le ha impedito, una mattina di poco più di un mese fa, un ingresso trionfale con un tomo, edizione di lusso, copertina rigida, una decina di centimetri di altezza, poggiato sull’avambraccio. Spesso si chiacchiera di libri, ci si consiglia, si danno pareri. Così S. ha deciso di fornire il suo contributo, mostrare la sua carta di identità culturale. Io sono così. E io sono Oriana Fallaci, ci ha detto. Un inutile blocco di cellulosa trattata con centinaia e centinaia di pagine contenenti parole disarticolate allineate in sequenza a giustificare il prezzo in quarta di copertina. Questo libro vale tanti caratteri spazi inclusi quanti l’editore le ha commissionato. E S. ha poggiato questa porzione di vuoto in meno al confine tra le nostre due scrivanie, in bellavista. Un colpo basso, un dispetto da scuola media, una linguaccia per vendicare mesi di snobismo culturale nei suoi confronti.

Ma l’ostensione è durata solo un giorno, lo spazio occupato inutilmente da quel libello è tornato ad essere vuoto la mattina successiva, non avendo suscitato dibattito alcuno. Dubito che S. l’abbia letto in 24 ore. Probabilmente era solo un simpatico gadget a forma di cattiveria, un inutile beauty-case-book, un pericoloso e intollerante fermacarte di carta, o l’ultimo ritrovato per l’autopotenziamento dei bicipiti.