la sicurezza di rientrare a Milano

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Kamal ha bevuto abbastanza da vedere le scritte sul display degli orari tutte sfocate, ma quando mi si avvicina per chiedere informazioni sul suo treno non mi sento tranquillo. Poi però gli sorrido perché così sbronzo è buffo, più che pericoloso, e gli rispondo che il treno è lo stesso che aspetto io ma non è ancora indicato il binario di arrivo. Gli chiedo però che cosa ha bevuto e quando mi risponde di amare il chianti alla follia gli faccio notare che, considerata la temperatura e l’umidità dovuta all’ora tarda, non sia la bevanda più indicata.

Kamal vende frutta in negozio centralissimo in zona Cordusio ma vive a Quarto Oggiaro, la fermata prima della mia. Mi racconta anche dell’alterco con due suoi connazionali che gli ha procurato uno squarcio nell’avambraccio, saranno almeno sei punti, e uno più lungo sul fianco, entrambi inferti con la stessa bottiglia di birra spaccata che stava bevendo al momento del diverbio. Gli suggerisco di darci meno dentro con gli alcolici e si mette a sghignazzare, poi mi chiama fratello, mi stringe il pugno con una di quelle mosse che si fanno gli afroamericani per salutarsi nei film in tv, io rilancio con una universale pacca sulla spalla dicendogli di fare attenzione proprio mentre scende dal treno barcollando per tornare a casa, a Quarto Oggiaro.

Ora lo so che Quarto Oggiaro non è Colle di Val d’Elsa ma vivere a Milano a me dà una certa sicurezza che non saprei spiegare se non con la disinvoltura con cui Kamal mi ha chiesto il binario del treno, mi ha mostrato le cicatrici e poi si è dileguato verso la sua vita che non ho idea di come sia. Così ripenso a poche ore prima quando sono arrivato, sempre in treno, in un posto che si chiama Porcari, in provincia di Lucca, per un appuntamento di lavoro. Avevo una buona mezz’ora di margine prima che qualcuno mi venisse a recuperare in quel nulla così mi sono messo a cercare un bar per ripararmi dalla canicola, erano le due del pomeriggio e il sole cadeva picco. Non ho trovato niente di aperto e di utile, com’è facile intuire, ma l’esperienza negativa provata non ha avuto nessuna influenza su quello che mi sono portato a casa.

Porcari, in provincia di Lucca, o almeno la zona nei pressi della stazione, entra prepotentemente nella top ten dei posti più brutti in cui mi sono trovato mio malgrado per lavoro e se qualcuno di voi vive lì spero che non si offenda. Porcari, in provincia di Lucca, o almeno la zona nei pressi della stazione, è altrettanto brutta di Marina di Ravenna, Mestre, Gallarate, Pomezia, la parte industriale di Corridonia, il quartiere di Cinecittà a Roma, Val della Torre e Pescara. Ma chissà quanti altri posti brutti ci sono in Italia che non compaiono sulle guide turistiche perché nessun turista comprenderebbe come sia possibile che, in Italia, per un Colle Val d’Elsa c’è un Quarto Oggiaro, anzi forse più di uno. Kamal ed io, però, dalle nostre case di Milano vi mandiamo un saluto. Stare qui non ci fa temere niente per motivi diversi, e rientrare a Milano di venerdì dopo un viaggio di lavoro senza senso nel nulla della periferia del nulla di una zona industriale di un paese in Toscana che non avevo mai sentito prima, non so perché, mi fa stare tranquillo, mi fa sentire persino un po’ importante.

stramilano

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C’è una Smart di un operatore di car sharing parcheggiata sotto il mio ufficio con una vistosa scritta “bella lì mi sposo”, in blu sulle portiere bianche. È il momento dell’uscita dal lavoro che in generale riserva le sorprese più pittoresche, per non parlare dell’uscita dal lavoro del venerdì, in cui si notano di sovente cose che voi umani durante la settimana dei giorni feriali non potete nemmeno immaginare. Penso a come dev’essere bello guidare un corteo nuziale con la sposa a fianco, a bordo di una vettura ecologica e pensata per una città sostenibile dal punto di vista ambientale e, dietro, la colonna di amici e parenti che strombazzano gioiosi con il clacson per le vie del centro. Se c’è un auto con quel tipo di messaggio stampato è perché probabilmente qualcuno ci avrà già pur pensato a un matrimonio così eccentrico, ai tempi dell’Internet essere originali è impossibile. E scommetto che si usa anche sposarsi in bici, che è una scelta ancora più radicale dal punto di vista ecologico, chissà quante nozze cosi avrete già visto a Milano. Comunque le strade del quartiere dove è il mio ufficio – siamo in zona corso 22 marzo – sono quasi vuote e tutto intorno c’è quella luce che si vede solo a fine estate e che non ha eguali. È una zona di Milano piuttosto elegante e tenuta a regola d’arte, come quasi tutto il centro, del resto. Non faccio in tempo a fantasticare un po’ su questo genere di cose che una nutrita compagnia di danza popolare centroamericana attira la mia attenzione, e come non potrebbe. Li osservo provare un ballo di gruppo con tanto di musica e costumi originali sfruttando gli spazi sovradimensionati ubicati sopra ai binari della stazione di Dateo. Mi fermo a studiarne le movenze e sorrido sperando che qualcuno di loro noti il mio sorriso solidale, ma è chiaro che sono troppo impegnati a fare attenzione ai passi corretti.

Il punto è che io non posso certo dire “la mia Milano” come fate voi milanesi, quando questa città mi sorprende come oggi. Intanto non sono né nato né cresciuto qui e poi abito persino in un paese limitrofo e a una manciata di metri da Milano, che però non è Milano. Ma lavoro qui più o meno in centro e qui più o meno in centro trascorro la maggior parte del mio tempo. La mattina lascia un po’ a desiderare ma ci sono i papà e le mamme con i bimbi per mano che la nobilitano. Alle sei del pomeriggio invece Milano è bellissima, e se non ci credete vediamoci qui così ve lo dimostro. Quindi posso dirlo: non sono nato qui ma non credo che me ne andrò mai da Milano, con tutte le opportunità che mi ha regalato. Posso dire che è anche la mia città, perché da nessun’altra parte mi sono mai sentito così.

per chi non ha una camera tutta sua ma deve, ogni giorno, fare e disfare un divano letto

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Non è solo Gabriele a non avere a disposizione una vera camera tutta sua e a condividere un divano-letto in sala da pranzo con suo fratello che è più piccolo ma già ora ha tutte le carte in regola per diventare un fotomodello o un attore. Io sarei impazzito da ragazzo a non possedere uno spazio tutto mio dove mettere le mie cose. Per darmi una spiegazione penso che la famiglia di Gabriele non può permettersi una casa più grande con una stanza in più. Suo papà giocava a calcio di professione e poi non ho mai capito che lavoro avesse iniziato successivamente al ritiro. Sua mamma tutt’ora gira in reggiseno senza nessun problema nei confronti degli ospiti, che a loro volta si sentono a proprio agio e vorrei vedere chi no.

Oltre a Gabriele e suo fratello vanno annoverati in questa specie di categoria in cui ci si sente un po’ provvisori anche Veronica e il suo fratellino che ha un nome che inizia con la V. Addirittura loro, oltre a dover rifare il letto e mettere tutto a posto ogni santo giorno prima di andare a scuola, hanno anche la nonna che occupa uno stanzino ma che per lo meno non è di passaggio per nessuno e dispone, a differenza di loro, di un livello di privacy sproporzionato per le esigenze di una vecchina che sì, ha piacere a cambiarsi in santa pace senza mettere la sua biancheria in mostra, ma in confronto i bisogni degli adolescenti sembrerebbero quisquilie.

L’apoteosi è quando arriva qualche ospite. Capita spesso perché la famiglia di Veronica che viene dal sud svolge il ruolo di base d’appoggio a Milano per parenti e amici che hanno bisogno. Pensate al dibattito Roma vs Milano di questi giorni. Io ci ho pensato e credo che non stia né in cielo né in terra perché Roma è tutto quello che volete ed è anche molto più bella, ma a Milano ci vengono da ogni parte d’Italia per lavoro.

Gli ospiti della famiglia di Veronica si appuntano tutte le informazioni logistiche: a Milano Centrale – così gli dettano – prendi la verde fino a Loreto, poi prendi la rossa e scendi a Rovereto e segui le indicazioni per il Parco Trotter. L’ospite arriva e usufruisce di una branda supplementare montata in sala, all’altro capo del divano letto di Veronica e del suo fratellino che ha un nome che inizia con la V.

L’ultimo ospite è stato un cugino in seconda, a Milano per seguire un corso full immersion su un software specifico. Il cugino in seconda lavora per un comune dell’Italia centrale; il suo responsabile gli ha pagato questo corso di tre giorni in un ente di formazione in pieno centro a Milano per il quale è stato chiamato un professionista formatore da Genova. Mi sono chiesto quanti soldi ci fossero in ballo in quel frangente e se non fosse stato più economico mandare il docente da Genova a quel comune dell’Italia centrale, o mandare l’ospite della famiglia di Veronica direttamente a Genova, e perché Milano svolgesse questa funzione di mediazione logistica. Non ho una risposta, come non so perché la mamma di Veronica abbia dato un nome a entrambi i figli che inizia con la stessa consonante.

situazionismo padano

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Ci si mette il loden blu quando si è invitati a mangiare la cassoeula a pranzo nei giorni festivi con quel tempo che c’è solo qui, potrei aggiungere una foto a corredo – una foto del grigio uniforme, mica un selfie, per chi mi avete preso? – anche se certe mogli, meno avvezze di noi al situazionismo padano ma mi verrebbe da dire al situazionismo tout court, fanno di tutto per farci desistere sottolineando la linea obsoleta di un capo di abbigliamento ahimé ormai fuori moda che, in parole povere, ci fa sembrare vecchi. Molto più di quanto lo siamo a prescindere.

Si pedala con una bici nera con i freni a bacchetta e la mantella nella nebbia già alle quattro del pomeriggio sul pavé, anche se la nebbia a Milano non esiste più dall’89, la bici nera con i freni a bacchetta (attenzione, la “e” si pronuncia esageratamente aperta) è meglio non prenderla che alla prima sosta te la fregano. Anzi, è preferibile tenerla in garage come un pezzo da museo e cercare a qualche mercatino dei ricettatori una qualsiasi finta mtb di seconda mano da usare per andare in stazione ogni mattina. Qui da me ti rubano pure i catorci, ma c’è qualche ladro gentiluomo che in cambio ti lascia un rottame che con un po’ di olio di gomito di chi sa risistemarli, e altrettanto olio di gomito a trovarlo, uno che le risistema le biciclette, magari qualcosa ci tiri fuori ancora. Il pavé, poi, ti sfascia le natiche che ormai sono avvezze solo alle sospensioni ultra hi-tech di quei cassoni dei ricchi che ogni due per tre bloccano persino il passaggio del tram, che basterebbe anche solo non lasciarli sulle rotaie del tram ma sarei più contento se non ve li compraste neppure.

Si sfoggiano persino neonati all’Esselunga come se l’imprinting della grande distribuzione locale fosse più importante di qualunque altro tipo di battesimo, sacro o profano. L’ingresso in società qui è inteso come il tuffo nella calca alla ricerca dei prodotti al 40% minimo, per quello pure ci si veste bene e se ci sono germi poco raccomandabili per la nostra prole meglio così, è situazionismo anche quello, manifestato a vantaggio degli anticorpi.

Il sorriso con cui convincere i cingalesi che vendono fiori che in fondo siamo felici così, infine questo va nella categoria del un punto di situazionismo e mezzo punto di ripudio dell’economia sommersa, d’altronde qui c’è stato l’incubatore dell’Italia post-tangentopoli, mica puoi pensare che siamo rimasti gli stessi. Che poi parlo io che non sono nemmeno di Milano, ma mi piace applicarmi affinché lo scenario di volta in volta mi confonda al meglio con le persone, le cose, gli ambienti nel bene e nel male, nello splendore e nello squallore. Mi siedo a un tavolo di un bar con tavolini d’epoca oggi gestito dai soliti cinesi, una sambuca e il Corriere del giorno prima che quello di oggi qualcuno se l’è pure fregato, dice il barista cinese, sicuramente qualcuno dell’est.

l’antico derby tra le città più importanti

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Sostiene mia moglie che qui è tutto progettato per farci lavorare e basta, una tesi che condivido in pieno e non solo perché entrambi siamo reduci da qualche giorno di vacanza trascorso a Roma. Non siamo certo i primi a trovare nell’urbanistica di Milano e della sua area metropolitana i segni di quello che siamo o, meglio, di quello che ci hanno fatto diventare, se vogliamo abbandonarci a qualche impeto di sano complottismo da inizio settimana. L’opinione in auge mette il confronto tra le due città sui piani competitivi innescati dalle rispettive eccellenze, la regolarità del nord contro la grande bellezza della capitale. Ed è proprio insita in questo dualismo la chiave di lettura di uno sviluppo psicosociale degli abitanti di un territorio.

Il nostro immolarci al reddito non ammette evasioni se non quelle programmate dall’ordine economico di cui facciamo parte, vero? Pianifichiamo viaggi, weekend altrove, gitarelle a questa o quella cascina bio-vegan-dellanonna, alimentiamo il nostro fabbisogno salutista in circoli sportivi, campi sintetici a noleggio o palestre e piscine gioiosamente asettiche, circoscriviamo le attività necessarie al sostentamento fisico e intellettuale in complessi pensati ad hoc per concentrare al massimo in un unico luogo l’uso della carta di credito.

Immaginiamo così questi aspetti delle nostre vite come nodi di una rete di collegamenti mutui, naturalmente privi di marciapiedi o se presenti lasciati in abbandono e di piste ciclabili e unicamente carrabili, intasati nelle ore di punta benché a più corsie e con tutti i limiti di velocità e autovelox del caso. Ecco, negli interstizi di queste maglie abbiamo costruito ambienti volutamente lineari, sicuramente imposti dall’andamento pianeggiante del territorio, ma con l’obiettivo più o meno inconscio di generare il minor impatto possibile sulla nostra abnegazione al lavoro.

Voglio dire, il mio amico Giorgio che vive a Roma all’atto di muoversi da casa per lavoro o nel corso di qualsiasi spostamento urbano attraversa ponti con statue imperiali, passa di fronte a terme, anfiteatri, chiese romaniche, resti millenari di tutte le culture che si sono avvicendate nell’urbe, e poi il Foro Italico, il Palazzaccio, il Lungotevere, viale della Conciliazione con in fondo San Pietro. Si tratta di una complessità urbanistica portata all’eccesso, lo so, Roma è una città irripetibile, per nostra fortuna. Tutte cose a cui magari poi ci fai l’abitudine e che a chi è lì in vacanza sembrano straordinarie, dovrebbe essere così che ce la raccontiamo quando imbocchiamo l’uscita dell’autostrada a Cormano.

Ma anche spogliando la nostra vista dal valore aggiunto dell’arte e dell’architettura, è questa regolarità che ci condanna a non uscire mai da quel tracciato fatto di nodi e di percorsi obbligati che li interconnettono, perché gli spazi sono fatti apposta per passare inosservati con i condomini a basso impatto energetico, le strade curate e prive di contenitori della spazzatura, i cani al guinzaglio e i loro padroni al telefono, i bambini che pedalano in bici su percorsi testati per riportarli a casa senza un graffio. Un sistema che funziona a tal punto che visto da altri punti di vista potrebbe sembrare un plastico, una riproduzione in scala di qualcosa, un presepe vivente, persino un episodio di Ai confini della realtà.

Così sono giunto alla conclusione che dovrebbe essere istituito un listino, un prezzario, una tassa di soggiorno che aumenta con la bellezza del posto in cui vivi che non deve essere corrisposta in denaro, altrimenti sapete come va a finire, e nemmeno con il merito perché, diciamocelo, la meritocrazia ha già rotto il cazzo. I posti-vita dovrebbero essere assegnati secondo sensibilità, indole, animo, attitudine alla riflessione sulla bellezza, senso estetico, nozioni di storia, postumi da sindrome di Stendhal. Se poi a uno piace solo guadagnare e non gli interessa dove farlo, sono pronto a dargli il benvenuto qui, nell’hinterland milanese.

natura morta e nemmeno io mi sento troppo bene

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Il problema non è tanto non essere in grado di descrivere le stagioni e tutto ciò che comportano. Questo genere di osservazione della natura e di ciò che ci circonda porta dei frutti solo se ciò che si cerca di raccontare è sufficientemente romanzabile. Ma alla lunga vedere sempre gli stessi posti nei quali scavando a fondo si trovano sempre gli stessi particolari rompe i maroni. Se vivete come me nei dintorni di Milano troverete ben pochi dettagli da cogliere e utilizzare come scenario per il vostro storytelling. Il cielo per esempio ha due modalità, acceso e spento, ovvero il sereno che si alterna al classico controsoffitto grigio hinterland, quel lastrone che copre le nostre vite indipendentemente dal mese in corso, senza variare nemmeno la tonalità. In questo contesto binario la gamma e le sfumature si riducono già di un buon ottanta per cento – sto sparando a caso – e nulla del contesto vi verrà incontro. Poi se siete come me e non notate se i fiori dell’aiuola nel mezzo della rotatoria o quella all’incrocio con il semaforo dove sosta il profugo senza una gamba che chiede l’elemosina sono fioriti, le foglie sono ancora appese ai rami o giù insieme alle cartacce che nemmeno gli operatori ecologici hanno il coraggio di districare, farete fatica a collocare anche solo un vostro pensiero in una cornice temporale. La differenza e l’alternanza la scandiscono solo l’abbigliamento, forse, perché senza nebbia e senza mare basta distrarsi un po’ e ci si dimentica persino del nome del centro commerciale in cui si sta facendo passare un sabato pomeriggio. Quando si posano le cavallette sul balcone e i gatti me ne fanno uno sgradito omaggio è il segnale che l’autunno ha preso ritmo, e il ciclo riprende mentre tutto intorno le persone starnutiscono fiaccate dall’allergia all’ambrosia. C’è poi il tempo dei furti in casa, arrivano le giostre in paese e si sa che gli appartamenti iniziano a stiparsi di regali di Natale sempre più costosi per figli sempre più tecno-dipendenti, tutto ciò fa gola agli acrobati come allo stesso modo spariscono borse e borselli dalle auto nei parcheggi dell’Esselunga mentre i clienti lasciano per qualche istante la spesa incustodita per riporre il carrello e negare l’euro al questuante nomade in servizio. A quel punto si entra davvero nel tunnel del grande freddo fino a quando la stagione delle pioggie porta sollievo a chi latita dagli autolavaggi per poi sublimare nell’esplosione delle infiorescenze con quell’odore che i più associano allo sperma umano che si diffonde ovunque. Nelle case e negli uffici che aprono le prime finestre mentre nel resto dello stabile i più anziani lottano per mantenere ancora un po’ il riscaldamento acceso. Nei pressi dei vivai dove si fa la coda per portarsi a casa un po’ di natura finta e artificiale dal ciclo di vita breve quanto la passione che i vegetali possono suscitare. Nelle esposizioni dei megastore di articoli sportivi in cui attrezzature e abbigliamento per il tempo libero vanno a ruba fino a quando ci si rende conto che acquistare e possedere un qualcosa di tecnico per una disciplina non è sufficiente a farci appartenere all’insieme di chi la pratica. La stagione più calda che oramai non ha più un vero e proprio nome, tanto dura poco e si palesa in modo disordinato, è quella delle donne seminude, dei maschi in ciabatte e dell’aria condizionata sparata ovunque, nelle auto come nei negozi, per una trasformazione climatica che non so a che punto porterà il genere umano e la sua capacità adattiva. Per il resto, nei contesti urbani e urbanizzati non c’è altro da dire. L’osservazione del comportamento della flora o della fauna ha lasciato il posto ai programmi delle tv a pagamento e alle lampade che si accendono e si spengono nelle abitazioni limitrofe alla propria che già stanno sparendo, coperte dalle luci condominiali accese ventiquattro per sette che prima o poi, oltre alle stagioni, uccideranno persino il giorno e la notte.

ma dammi indietro la mia seicento a metano

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La domenica senz’auto, al di là dei risvolti ecologici – sui quali nutro i miei dubbi, ovvero forse ci vorrebbe una settimana senz’auto di fila per avere benefici tangibili – è comunque un ottimo spunto di riflessione. Consente di assaporare uno scenario surreale fatto di famiglie in bici, gente a piedi, arterie periferiche deserte, silenzio. Ci permette di misurare gli spazi che percorriamo velocemente con i mezzi motorizzati a piedi, e ci si guarda stupiti perché mentre fai due chiacchiere e muovi il naso un po’ in tutte le direzioni e sei già arrivato, camminando, a destinazione. E ti dici che le distanze non sono poi così distanti tra loro. Certo ci sono le mani fredde, l’aria pizzica le guance, ma è bello lo stesso. Non solo: ci offre uno spaccato di quello che poteva essere il posto in cui abitiamo un centinaio di anni fa, che con la nebbia fa quell’effetto “Albero degli zoccoli”, il film che ha costituito la principale fonte di ispirazione immaginifica della pianura per chi viene come me da posti senza nebbia e a due punti cardinali, ove il sud è sostituito dal mare e il nord dalle montagne a ridosso della costa. E per una di quelle combinazioni che ci piace cogliere (a noi proprietari di blog, intendevo dire), giusto ieri ho visto per caso in tv “Stramilano“, uno spettacolo teatrale con Adriana Asti, “un viaggio che va dalla “Maria Brasca” di Testori, ai Promessi Sposi, a L’è el dì di mort alegher, a Milanin Milanon passando per la filastrocca popolare De Tant piscinina che l’era, a La bella Gigogin, fino a Milano di Lucio Dalla e Come è bella la città di Giorgio Gaber, per citare solo alcuni tra i brani più conosciuti“. D’altronde, fuori faceva freddo per raggiungere a piedi il centro e tutte le iniziative organizzate per la giornata antismog, e c’era pure un po’ di foschia. Ma, tornando alla trasmissione, è stata un bel racconto di Milano, visto da un divano comodo e al caldo, chiaro. Lei bravissima, alcuni punti in dialetto un po’ oscuri per noi stranieri, fino a un’inaspettata “Luci a San Siro” suonata con un arrangiamento (non saprei come altro definirlo) da avanspettacolo, che rendeva ancora più stridente la mesta veridicità delle parole in un contesto così leggero. Un po’ come Azzurro di Paolo Conte, che ha quell’andamento da marcetta in minore che ti disorienta, non sai se battere le mani a tempo o preoccuparti per quello che stai per sentire. E a me quel pezzo di Vecchioni fa venire la pelle d’oca. Sapete, non amo ascoltare la musica italiana perché i testi o mi imbarazzano tanto sono retorici o mi dilaniano tanto sono ansiogeni. “Luci a San Siro”, chissà perché, anzi lo so bene il perché, fa parte del secondo insieme. Insomma c’erano tutti gli ingredienti: la domenica pomeriggio, l’emicrania da giorno festivo senza capo né coda, Milano e la nebbia, le canzoni tristi tristi tristi, e un posto in cui scrivere tutto questo dopo averne parlato con una persona complice che ha cucito insieme il tutto in un abbraccio per poi addormentarsi con te, cioè con me.

la città

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Posso immaginare, come si sta vantando un visitatore in coda alle mie spalle, che Roma, vista da quell’altezza, sia un’altra cosa. Credo che, in generale, vedere dal quarantesimo piano di un grattacielo qualunque città abbia un suo perché. Ricordo Parigi dalla Torre Eiffel, anche se dall’ultimo piano, quello in cima in cima, i metri sono così tanti da rendere superflue persino le vertigini. Sembra di osservare la terra da un volo aereo, non trovate? Per non parlare di New York vista dall’Empire State Building, ecco, già l’esperienza si avvicina di più, anche se New York non ha paragoni, su questo sono certo che nessuno può dimostrare il contrario. La vista dall’alto trasmette il controllo sul territorio, non a caso la storia delle fortezze e dei presidi di osservazione è vecchia quanto l’uomo. Anche il fascino della vetta per gli alpinisti è voltarsi, a fine impresa, e guardare sotto.

Certo, se questo palazzo fosse stato costruito a Roma, l’effetto sarebbe un altro. Beh, grazie, anziché il quartiere dell’Isola vedremmo i Fori Imperiali, al posto delle gru nel cantiere della nuova fiera ci sarebbe, non so, Piazza San Pietro. E sono certo che al posto di questo smog che facciamo finta di chiamare foschia di autunno, ci sarebbe un bel cielo terso e azzurro. Ma qui, al quarantesimo piano del nuovo palazzo della Regione Lombardia, che oggi era possibile visitare, si gode una vista mozzafiato di una città che comunque mi incanta per la sua estensione, per l’eterogeneità e l’irregolarità dei quartieri, a partire da quello qui sotto. Un città sicuramente piena di difetti, e chi non li ha, difficile, stramba e contraddittoria, che vista da giù malediresti, anzi, la maledici ad ogni automobilista che rallenta e ti fa perdere il giallo al semaforo. Ma a piedi già è diverso, camminando con il naso all’insù ad ammirare gli ultimi piani dei palazzi nei quartieri più carini, ricolmi di piante e alberelli, alcuni dalla strada sembrano vere e proprie foreste.

E da quassù è bello leggerla come su una pianta stradale, un googlemaps vivente, cercare casa tua anche se mancano i punti di riferimento. Poi i siti di interesse, quelli più celebri, i monumenti, il Castello, il (poco) verde, le vecchie case, alcune messe maluccio, che contrastano con le nuove linee pensate dall’archistar di turno, le curve che salgono verso il cielo. E sì, viene da pensare che probabilmente non era il caso di costruire un nuovo palazzo della Regione, tanto più che la precedente sede è quella delizia architettonica di Gio Ponti, e che chissà che movimenti sotterranei di appalti e subappalti, mazzette e gare truccate, magari qualche infiltrazione di quelle che certi campanilisti negano fino alla morte. Vabbè, non rovinatemi questo momento, ho un debole per Milano, e me la godo da qui.

apologia di ciclismo

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La prima cosa che ho fatto quando mi sono trasferito a Milano è stata acquistare una bellissima city-bike. Provenendo da una terra in cui le strade pianeggianti sono poche e prese d’assalto da numerosi automobilisti, il cui numero centuplica nel fine settimana aumentando esponenzialmente la pericolosità e il disgusto del ciclista, ho finalmente coronato uno dei miei sogni, quello di spostarmi il più possibile usando le due ruote a pedali, tanto da giustificare un investimento. Per inciso, si è trattato di una scelta sulla quale ho subito le pesanti critiche degli esperti del settore: non bisogna badare all’estetica del modello, mi sono sentito ammonire, bensì al peso del telaio e alla maneggevolezza. In effetti la mia bici, che tuttora possiedo, è, mi si passi il termine, fighissima, in quanto unisce il design delle bici da uomo di una volta, quelle con i freni a bacchetta, alla più recente tecnologia (almeno pare): un cambio con rapporti e velocità che ne aumenta la flessibilità e la rende adatta a qualsiasi terreno. Ma è tutt’altro che leggera: grigia in alluminio proprio non mi piaceva, e il modello nero che ho comprato pesa praticamente il doppio. Ma il mio senso estetico è appagato. L’ho presa da Rossignoli in Corso Garibaldi, il che rende me ancora più milanese e la mia bici ancora più figa.

E il problema della mia bici è proprio la sua, mi si passi ancora il termine, figosità. Nel senso che non posso utilizzarla come vorrei, lasciarla per esempio incustodita in stazione, perché i furti di bici sono all’ordine del giorno. In un paio di anni me ne sono già sparite due, tanto per dire, una delle quali a fatica la si poteva definire bicicletta. Addirittura la seconda, che avevo insanamente legato solo per la ruota, mi è stata sottratta per tre quarti, unitamente al cerchione della bici che era parcheggiata lì a fianco, cannibalizzata dal ladro per portare a casa un esemplare completo. Così la mia bici, mi si passi per l’ultima volta il termine, fighissima giace chiusa in garage per cinque giorni la settimana, mentre devo continuare ad adoperarmi per sistemare catorci arrugginiti muniti di catena, comprati appositamente per essere il meno appetibili per i ladri. Una strategia che comunque, come ho detto sopra, non sempre ripaga.

Nella mia società ideale, quindi, i ladri di biciclette non esistono. Ma una sagace via di mezzo tra il mondo delle idee e la realtà potrebbe essere sfruttare i mezzi su rotaia per caricare le proprie bici la mattina, per poi sbarcarle nel centro di Milano e raggiungere l’ufficio pedalando per gli ultimi cinquecento metri, questo almeno all’interno dell’area metropolitana di cui fa parte il mio paesello. Sta di fatto che invece ho provato, la scorsa estate, a coprire invece l’intero tragitto casa-ufficio in bicicletta, venti chilometri circa, impiegando poco più di quaranta minuti, che è meno di quanto impiego normalmente per il percorso da portone a portone completo di attese sui binari, per non parlare dei treni in ritardo e degli imprevisti vari. Certo, ci si tiene anche in forma, così. Ma farlo assiduamente comporterebbe alcuni risvolti spiacevoli: gli scarichi delle auto, la quantità di auto stesse nei mesi di maggior traffico, le condizioni in cui si arriva in ufficio e l’impossibilità di farsi una doccia al lavoro. Il sistema precluderebbe anche la mia finestra di lettura sul treno, le pennichelle al ritorno e gli ameni incontri di varia umanità che non mi si risparmiano mai.

Comunque l’aver scoperto e appurato che la bici è un mezzo realistico di trasporto anche per distanze medie mi ha aperto nuove possibilità. L’investimento previsto per potenziare la rete di piste ciclabili a Milano, quindi, non può che farmi piacere. E se da una parte il dibattito sull’uso dei soldi pubblici è acceso e l’opinione pubblica talvolta sfavorevole, dall’altra togliere porzioni di spazio alla carrabilità delle vie cittadine con corsie dedicate alle due ruote può essere anche interpretato come un deterrente per i mezzi a motore. Complicare la vita agli automobilisti, nei punti raggiungibili dai mezzi pubblici, può essere un modo per spingerli a lasciare l’auto altrove e muoversi diversamente. Aggiungerei “bestemmiando”, ma voglio essere ottimista, nella mia visione dell’ecologia degna della famiglia dei Barbapapà.

il senso dei milanesi per le distanze

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Io che non sono nato in una metropoli ma sono cresciuto in una cittadina in cui, se non hai pretese, e sono in tanti a non averne, puoi rimanere chiuso in un raggio di un centinaio di metri e avere tutto, cinema a luci rosse compreso, mi immaginavo da ragazzino questi enormi centri urbani che si stendono fino in periferia in cui non si può fare a meno di un mezzo di trasporto sotterraneo, che è un po’ come chiudere gli occhi e riaprirli e sei dall’altra parte della città. Non so se mi sono spiegato: la distanza tra una stazione e la successiva è un salto quantico, altrimenti non avrebbero costruito una rete di treni sottoterra, utile invece a non avere la sensazione dei chilometri percorsi e migliorare l’esperienza di viaggio.

Avevo visto anche un film in cui un bambino si addormentava su una metropolitana, e arrivava in una specie di non-capolinea, probabilmente era una cosa ai confini della realtà, ma dopo la quale mi sono detto che, se un giorno avessi abitato in una grande città, sarei stato ben attento a dove scendere. Sono quelle paure irrazionali da bambini su cui, quando sei grande, ci ridi su, ma che in fondo in fondo, in un angolino remoto della tua pancia, rimangono lì come una lucina di stand-by di un elettrodomestico. Da una parte succhiano risorse, dall’altra però ti mantengono vigile. Come la paura della gomma ingoiata. I genitori ti insegnano a non ingoiare le gomme da masticare avvisandoti che, se le mangi, causano il soffocamento immediato. E tu cresci con le big babol che quelle stai sicuro non ti andranno mai giù, tanto sono enormi. Ma quando passi alle gomme a confetto, minime ed efficaci per avere l’alito fresco, e sei grande e fingi di non pensare più al monito che mamma e papà ti hanno impresso nella memoria perché sei convinto sia impossibile immettere sul mercato un prodotto alimentare per ragazzi che causa facilmente soffocamento, e magari non solo sei grande, ma hai più di 20 anni e sei su un palco con un gruppo reggae e, mentre salti come è giusto saltare e ballare sui pezzi in levare, il confetto che stai masticando per la prima volta nella vita ti va giù per la gola, per i successivi 10 minuti un attacco di panico non te lo toglie nessuno. Sono gli incubi che si avverano ma che speravi non si avverassero mai. Tra i miei, oltre alla gomma ingoiata, c’è anche la gomma che esplode, quella dell’auto, e ho la ruota di scorta sgonfia e sono in autostrada. O perdere il traghetto. E addormentarmi in metropolitana e svegliarmi in un non-capolinea con il controllore mannaro che vuole mangiarsi l’abbonamento Atm e il suo proprietario. Ecco, stavo scrivendo di tutt’altro e mi sono perso, invece. Scusate, non sono pratico di questo post. Ah ah. Ehm. Dicevo. (E comunque la battuta era pertinente).

Dicevo. A un certo punto della mia vita ho ricevuto un’offerta di lavoro irrinunciabile. Anzi, prima dell’offerta c’è stato il colloquio. E la persona che mi aveva contattato, e con cui ero al telefono, mi stava spiegando come trovare la sede dell’azienda a Milano, in Piazza della Repubblica. Mi disse di prendere la linea gialla in Centrale. Ecco, io non sapevo molto di Milano, e gugol maps non era ancora stato inventato. Fatto sta che arrivo in Centrale e prendo la metro e, in meno di un minuto è già il momento di scendere. Ma pensavo comunque di aver fatto il salto quantico di cui sopra, ero teso e la metropolitana per me poteva anche avermi trasportato per qualche chilometro a una velocità inimmaginabile. Posso essere ovunque, sono su un mezzo di trasporto pensato per coprire grandi distanze urbane.

Insomma che mi inerpico sulle scale mobili, esco alla prima uscita che trovo che è quella che dà su Viale Tunisia. Salgo su e mi vedo la Stazione Centrale praticamente a un isolato di distanza. Da quel giorno, la paura del non-capolinea è svanita, si è infranto un tabù. Non solo: mi muovo spessissimo a piedi, il centro di Milano in fondo è piccolo e non ci si perde neanche un bambino, anche se i milanesi non lo ammetteranno mai.