lapidario

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Giulia e Piccoli sono una coppia di prozii che sono mancati due anni fa a meno di un mese di distanza, quei casi in cui poi si dice che non potevano fare a meno l’uno dell’altro e il sopravvissuto non è riuscito a sopravvivere senza il coniuge. Entrambi ultra ottuagenari e in condizione di salute non gravissime ma piuttoso debilitanti, se ne sono andati lontano da tutti, senza figli perché non ne avevano mai avuti, un nipote – che è mio papà – che curava tutte le loro questioni pratiche e una nipote acquisita – mia mamma – che a un certo punto ha fatto anche l’infermiera per loro, in un momento in cui avere badanti esotiche non era ancora di moda. I funerali dei miei prozii si sono tenuti a dicembre, in quell’anno in cui è nevicato tantissimo e faceva freddissimo, entrambi sepolti nel cimitero del paese dell’appennino ligure da cui proviene la famiglia di mio padre. C’erano meno dodici gradi durante la cerimonia di mio zio, pochi di più il giorno del saluto estremo alla zia, venti giorni dopo. In entrambi i casi a partecipare solo io e mia mamma, qualche vicino di casa di lassù, i necrofori. Ma con un tempo surreale, cielo terso e sole e ghiaccio e neve e un freddo polare. Poi basta, in tutti i sensi. Nessuno può andare lassù a lasciare fiori, se non in qualche occasione speciale ma non più di una volta all’anno. Le città per i morti, a margine delle città dei vivi, sono altre città invisibili. Ci sono le metropoli, i cimiteri monumentali, e i piccoli borghi fitti di lapidi e sculture, dove nessuno va. In entrambi, il sole, la neve, il caldo poi in estate, i fiori della primavera, le foglie dell’autunno. Le stagioni sono le stesse. Un saluto, una prece.

i morti

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Stanno ognuno immobile nella sua foto, da soli o in coppia, in fila sul trumò che anno dopo anno è diventato l’altare, il monumento alla memoria, l’ara dedicata ai penati. Ci sono quelli un po’ ingialliti nella foto con il bordino bianco stampata ormai quarant’anni fa, quelli già invece immortalati dalla digitale in quel modo approssimativo, lo stesso con cui i pixel fanno l’approssimazione dei colori in situazioni di luminosità non riconosciute. Il nonno in giacca spigata, gilet, camicia e cravatta con la sigaretta in mano, seduto a fianco della nonna con la borsa in grembo sul muretto, quello vicino al santuario che sta di fronte al cimitero. Forse proprio a ridosso del giorno dei morti, dietro la campagna triste e gli alberi spogli. Guarda che combinazione: quasi mezzo secolo fa, un passato in cui c’ero già anche io e di cui ho persino qualche ricordo. Gli altri nonni, quelli del mare, solari e sorridenti sulla terrazza, dietro il litorale con le prime avvisaglie dello sviluppo industriale (oggi già dismesso) che lo travolgerà. Poi un paio di cugini scomparsi, giovanissimo uno e giovane l’altra, per motivi che oggi farei di tutto per evitare, magari impegnandomi in prima persona. I prozii paterni, che non hanno mai avuto figli e per i quali eravamo noi la loro discendenza. Il fratello di mio papà, fotografato insieme a lui con i guantoni da boxe, mancato a quindici anni non si sa di che. Due sorelle di mia mamma morte più recentemente e i loro mariti, una generazione – quella di primo grado – che annovera ancora sopravvissuti ormai abbondantemente intorno agli ottanta. Ma quelli che sono dall’altra parte, sul trumò, ora sono lì che mi guardano ognuno con qualcosa di familiare, dettagli che se mi osservo con cura allo specchio riesco a percepire anche in me. Il mento, il naso, l’attaccatura dei capelli, la statura, la postura, il sorriso. Tutti che mi guardano a due dimensioni dentro a cornici d’altri tempi, nei loro colori più o meno fedeli alla realtà, quella a cui un tempo appartenevano con entusiasmo. E passerà solo qualche decennio e ci sarà una parete, da qualche parte, una muraglia da record tutta tappezzata dalle foto che abbiamo fatto alle persone che non esistono più, ognuna in una posa che li ha resi famosi ed eterni almeno nel ricordo di chi in qualche modo ha voluto fermare l’attimo. Quell’unica posa che è rimasta viva e che sopravviverà fino a quando qualcun altro si metterà al loro posto.