al via, su Facebook, il musica di merda challenge

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In nessun altro settore come nella musica, il supporto attraverso il quale il prodotto viene commercializzato da sempre influisce sulla sua creazione. Artisti e gruppi si impegnano per aver materiale a sufficienza da riempire un cd, come un tempo avveniva per un 33 giri o una musicassetta, e venderlo il più possibile. Il supporto costituisce quindi un prodotto in sé, un punto di arrivo che giustifica il lavoro preparatorio svolto, e se ci pensate bene è così radicato nella nostra cultura da rendere meno autorevole tutto il resto. Magari un giorno il singolo brano acquistato su iTunes a 0,99 avrà la stessa dignità di un blocco da una dozzina di canzoni pensate per essere commercializzate in blocco sotto un titolo, una copertina e un recipiente virtuale o fisico che le raccolga, anzi forse è già così ma dovete dirmelo voi nativi digitali, ammesso che acquistiate musica e che il cosiddetto album per voi abbia ancora un senso. La randomizzazione dell’ascolto digitale e la casualità dell’approccio alla musica fa un parte di quel famoso discorso sulla svalutazione della stessa in generale, che prima o poi dovremmo deciderci a fare, almeno tra di noi.

Tutta questa premessa per proporvi qualcosa di più di una riflessione invece sul valore in particolare dell’album in sé, oggi che noi ancora lo leghiamo a recipiente in cui un artista o un gruppo confeziona un insieme di brani uniti da un’identità comune: un concept album, canzoni composte in un certo periodo della propria vita, al limite anche una raccolta del meglio del proprio meglio. Questo presuppone che, al di là dei generi e quindi dei gusti personali dell’ascoltatore e della macro-catalogazione che ciascuno di noi fa tra musica che ci piace e musica di merda, alla base della commercializzazione di un album ci sia appunto un valore artistico inteso come somma delle parti espresse da ciascun brano che compone l’album, altrimenti quello che prima ho chiamato recipiente diventa veramente uno scatolone da chiudere solo quando è colmo di cose, indipendentemente da quello che gli buttiamo dentro. Non so se mi sono spiegato ma spero tanto di si: non è che uno debba per forza fare ogni volta “Burattino senza fili” di Bennato, per farmi capire, in cui ogni canzone del disco è un capitolo di un’unica storia, ma ci si aspetta – o almeno io mi aspetto – un minimo di coerenza che ci faccia comprendere il filo del discorso, un inizio e una fine.

La mia impressione è che certi interpreti ma anche autori della cosiddetta canzonetta italiana, quel pop di lega infima che spopola a Sanremo, per intenderci, abbiano poca dimestichezza con questo modo di fare le cose. Forse il pubblico da loro non chiede un certo livello di raffinatezza perché è il pubblico, in primis, a essere di merda, per dirla alla Freak Antoni. Quello quindi che dovremmo fare tutti è provare ad ascoltare da cima a fondo un intero album di canzonette pop italiane da Sanremo per farci un’idea di come, usciti dai recinti della musica rock o indie ma anche pop come la intendiamo noi, vanno le cose.

Ho intenzione così di dare il via a una specie di challenge di quelli che spopolano su Facebook. Una catena digitale di Sant’Antonio in cui uno ascolta per intero un cd di pop canzonettaro italiano, scrive quanto gli faccia schifo, e poi nomina tizio o caio invitandolo a fare lo stesso e a perpetuare la catena. E dal momento che tutto sommato mi voglio bene, mi sono riservato un disco di una cantante che probabilmente è anche la meno peggio di tutto questo sommerso di musica di merda, che è Francesca Michielin, perché tutto sommato è una ragazza che mi è anche simpatica e sono convinto che ascolti musica molto più bella di quella che è costretta a commercializzare dall’industria musicale. Il suo nuovo album “di20are” è stato persino recensito su Ondarock, per dire. Cosa si può dire, di questo disco? Contiene un paio di canzoni di quelle che mentre sei all’Esselunga possono colpirti per certe soluzioni armoniche costruite a tavolino per distrarti qualche secondo dalla spesa, ma niente di più. Attraverso il “musica di merda challenge” possiamo davvero renderci conto di quanto la materializzazione della musica, il supporto per intenderci, sia davvero superfluo, che il concetto di “recipiente” sia superato, che sia molto meglio stemperare l’inutilità di certo pop come questo lungo singoli acquisti a 0,99 su iTunes, e che davvero c’è tanta tanta musica di merda in giro.

fate in modo che sui vostri figli non ricadano le conseguenze dei vostri errori

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Qualche sera fa mi si rincorrevano nella mente certi versi in quel modo in cui capita che sovvengano i passaggi di cose imparate agli albori della giovinezza. Vi ricordate? Ei fu siccome immobile, sempre caro mi fu quest’ermo colle, vides ut alta stet nive candidus, dammi il tuo vino leggero che hai fatto quando non c’ero e qui immaginate uno di quegli effetti sonori tipo paperissima di freni e poi un fragoroso impatto di vetri e altre cose rumorose che si schiantano per terra. “Dammi il tuo vino leggero che hai fatto quando non c’ero” che lirica è?

Qui non c’entra nessun poeta italiano perché, lo avrete riconosciuto, è un passaggio tratto da “Ti amo” di Umberto Tozzi e a onor del merito, messo così tra un Saba e un Ungaretti non stona nemmeno tanto. Il problema è il contesto. “Fammi abbracciare una donna che stira cantando”, passaggio con cui fa il paio, è un’altra frase che non si può leggere e che ci fa vergognare per l’autore. Abbiamo scritto più volte come è difficile scrivere testi convincenti in italiano. Un esempio?

La descrizione di un attimo (mi piace)
le convinzioni che cambiano (ok dimmi di più)
e crolla la fortezza del mio debole per te (imbarazzante)

e qui è ancora peggio perché era il già il duemila e di acqua sotto i ponti di certe porcherie della più becera canzone italiana ne era già a passata a ettolitri. Posso capire un Umberto Balsamo che scioglieva le trecce ai cavalli nel 79, ma i Tiromancino, con quella smanceria lì, hanno dimostrato la veridicità del modo dire nomen omen giocandoci davvero un tiro mancino.

Quindi qual è il problema? Semplice: fino a un certo punto della canzone italiana gli autori avevano campo libero perché il nostro immaginario pop era tabula rasa e quindi potevano permettersi di scrivere e cantare quello che gli pareva e piaceva. Di esempi del genere, su youtube, ne trovate a milioni. Il nostro impegno potrebbe essere quello di fare di tutto affinché i nostri figli non entrino in contatto con certa merda che a noi non è mai stata risparmiata, a partire dall’Umberto Tozzi di Ti amo e tu dabadan dabadan.

Ma l’impresa è oltremodo impossibile. Abbiamo visto in famiglia Stella, il gradevolissimo film di Sylvie Verheyde del 2008 centrato su certe tematiche dell’adolescenza, e se volete ripetere l’esperienza anche voi – e qui faccio uno spoilerone – fate attenzione perché c’è una scena di una festa di ragazzini in cui il momento dei lenti è proprio girato sulle note terzinate di “Ti amo”. Pensavo di averla scampata e invece, poco tempo dopo, mia figlia mi ha chiesto informazioni su quella canzone. Da allora sono riemerse tutte le parole che come le preghiere a catechismo sono rimaste qui dentro latenti come una malattia esantematica. Io ce l’ho ancora davanti agli occhi Umberto Tozzi che la canta all’Arena di Verona fresco del titolo di vincitore del Festivalbar. Comunque siete ancora in tempo per proteggere i vostri, di figli. Anzi, correte a dare un’occhiata agli altri pezzi che hanno partecipato a quell’edizione in modo da mettervi al riparo da pericoli forse ancora più gravi.

nessuno dovrebbe mai scegliere per voi la colonna sonora della vostra vita

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La percentuale bulgara con cui il Partito dei Tastieristi ha staccato gli avversari alle recenti amministrative fa presagire un nuovo corso per la politica italiana. Come per l’ascesa al potere di Forza Italia nel 94 e il recente consenso allargato raggiunto dal M5S si sono sprecate analisi dei media e dibattiti nei talk show per questo nuovo fenomeno che non ha eguali al mondo. Per una volta la forza persuasiva non dev’essere individuata né nella volontà di premiare l’anti-politica tanto meno nel desiderio di dare fiducia una proposta elettorale diversa. Dietro al centro di comando e di controllo del PDT siede un team ben determinato che profonde musica con tappeti elettronici e vari messaggi subliminali di synth con cui – non dimentichiamo il filosofo/intellettuale di riferimento, Alessio Bertallot – è stata pervasivamente messa in modalità snooze l’intera nazione. Per manifestare la loro ferma opposizione, i centinaia di migliaia di dissidenti (un manipolo rispetto ai milioni che si sono lasciati travolgere dalla più melliflua delle correnti di pensiero) continuano a coricarsi e a dormire in boxer e maglietta e si rifiutano di stirare i numerosi cambi di pigiama – diversi per ciascuna stagione – dei componenti dei loro stessi nuclei famigliari. Tra gli attivisti più radicali, sul fronte opposto, si sta diffondendo persino la pratica di fare le fusa come i felini domestici che, ricordiamolo, sono considerati tra i principali influencer di questo nuovo corso. Un mondo governato da persone che hanno abbandonato la stanza dei bottoni per una postazione di home theater in cui basta un gatto che, camminando su una tastiera di un pc, schiaccia il tasto sbagliato che potrebbe davvero combinarqwoeifslfhiroiuncsdaawihiowsdomèar9888888865te

generatore random di coppie di cantanti anziani italiani abbinati per puro scopo commerciale

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Vi giuro che del concerto di Baglioni e Morandi trasmesso alla tele qualche sera fa non ho visto nemmeno una canzone, tanto mi schifava l’idea. Claudio Baglioni è il mio incubo, me lo porto appresso da quando ho avuto un sistema uditivo sufficientemente sviluppato da percepire suoni perché negli anni 70 ha fatto piazza pulita della concorrenza sulle ragazzine. Il mondo era pieno di preadolescenti con il poster che qualcuno ha già scarabocchiato e dice vieni in Tunisia appeso sul letto, compresa mia sorella con cui condividevo la cameretta. Per non parlare di anni di pianobar in cui includere qualcuna delle sue hit era inevitabile se volevi lavorare e compiacere il pubblico. E che cosa dire di Gianni Morandi, sempre sulla cresta dell’onda prima come cantante, poi pure come attore, quindi come presentatore televisivo e oggi come asso pigliatutto dei Social Network? Quel gufo con gli occhiali che sguardo che ha, me lo prendi papà? Sì. E non ci sarebbe niente di male a mettere insieme, anche per puro scopo commerciale, questi due talenti se, appunto, non avessero 134 (centotrentaquattro) anni in due. Non ho niente contro i vecchietti, essendo da poco parte della categoria, ma che ci siano cantanti pop forzati a monopolizzare l’offerta culturale per cinquant’anni lo trovo eticamente aberrante. E ribadisco forzati, perché sono certe istituzioni – e non prendetemi per un complottaro grillista qualunque – che brandiscono queste armi di ammorbamento di massa proprio contro il progresso delle idee e le novità, per il terrore di andare a scardinare certi meccanismi consolidati che garantiscono poteri economici e controllo sociale. Sto esagerando? Chiaro che Gianni e Claudio non ne hanno colpa, probabilmente, perché con la recente operazioni che li ha riportati per l’ennesima volta alla ribalta chissà quanto grano – giustamente perché è il loro lavoro e lo fanno pure bene, ci mancherebbe – si sono fatti. Così ieri ho lanciato su alcuni socialcosi di cui sono un assiduo frequentatore proprio questa specie di contest: indicare le più improbabili coppie di cantanti anziani italiani abbinati per puro scopo commerciale. Seguono i risultati più esilaranti, ovviamente sentitevi liberi di ingrossare le fila degli spunti a favore dell’estremismo reazionario dell’imprenditoria culturale italiana (ringrazio a pioggia tutti gli autori delle proposte qui sotto).

Antonello Venditti e Renato Zero
Giovanna e Rita Forte
Giovanni Lindo Ferretti e Antonio e Marcello (anche se è un trio)
Marina Occhiena e Donatella Milani
Wilma Goich e Mara Redeghieri
Edoardo Vianello e Garbo
Tiziana Rivale e Francesco Guccini
De Gregori e Cocciante
Adamo e Gino Paoli
Giovanna Marini e Marcella Bella
Michele Zarrillo e Vinicio Capossela
Mal e Gianna Nannini
Biagio Antonacci e Paolo Conte
Dario Baldan Bembo e Marco Ferradini
Edoardo Bennato e Toto Cutugno
Alberto Camerini e Alan Sorrenti
Gianni Nazzaro e Christina Moser