combattere i legami di sangue con l’anemia

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Le famiglie a volte sono delle specie di trappole che ti incastrano i sentimenti con qualche esca succulenta. Ti mettono in bella vista del formaggio metaforico come quelle pietanze tirate a lucido per le foto da mettere sulle confezioni dei prodotti e zac, ci rimani sotto doppiamente fottuto, nel corpo e nell’appetito sentimentale che poi ti fa più rabbia perché certe cose dentro proprio non le riesci a controllare. Ma le famiglie possono altresì essere considerate trappole anche a proprio vantaggio, per incastrare gli altri, dipende dagli interessi in gioco, se sei uno stakeholder o un dissidente pronto al tuo spin-off. Nel senso che puoi allestire la tua trappola con un bel pranzetto – che magari poi è un bel pranzetto davvero, con tanto di dolce e ammazzacaffè – e stringere chi ti occorre nel tuo abbraccio letale. Ma a noi che piace sentirci sempre come vittime e topolini, ci vediamo come il fratellino ingenuo di Tom e Jerry, che non ho mai capito chi dei due è il roditore, quello che con il ciripà chiuso da una spilla da balia esce dalla tana perché vede il frigo aperto con ogni ben di dio e dietro c’è il famelico felino pronto a divorarselo. Noi invece attirati dal groviera, sempre metaforico, che è lì sotto la tagliola pronta a ghigliottinarci e che, per essere certi, il mandante lo ha farcito di veleno che non si sa mai.

Ma nelle trappole delle famiglie non si muore mai, sono i sentimenti ad avere la peggio, a sopravvivere menomati con qualche protesi, un apparecchio fonatorio, un dispositivo elettronico che alterna regolarmente diastole a sistole, un manicotto intorno all’arteria che ne impedisce l’espansione o il restringimento. Quegli incidenti sentimentali che poi incontri volti a te noti come come la sicurezza di sé, il senso di adeguatezza o il rispetto del prossimo un po’ sciancati come quelle persone che sopravvivono a un ictus o all’ischemia, poverini, con una parte del proprio corpo che non somiglia più all’altra come se qualcuno di superiore avesse usato il loro fisico per comporre un ideogramma per rappresentare due percentuali pressoché identiche. Ma non conviene nemmeno, secondo me, adottare una strategia per sottrarre l’esca di soppiatto. Lasciamola lì a decomporsi al sole e salviamo le nostre anime, che di fame e di mancanza di affetto, di questi tempi, non muore nessuno. Che poi, tra un topo morto e topo vivo, preferisco trovarmene in casa comunque uno vivo.

tecniche di sopravvivenza ai drammi famigliari

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Ho capito che si inizia studiando il passato, un po’ come si faceva ai tempi della scuola pubblica con i libri di storia che, tomo su tomo, ti portavano dritti dritti tra le braccia dei resistenti all’invasore. Gli avi curvi sul girello che farneticano di cose accadute senza un quando ben definito, passando dal collegio in Val di Susa con Giulio Bolaffi partigiano nascosto travestito da prete, al libello dell’Arci sulle band locali, io sono e suono in almeno tre formazioni con tanto di foto che uno può pensare che, nel novanta e rotti, dalle mie parti le tastiere non le suonava più nessuno a parte il sottoscritto. E la metà invece ancora lucida della coppia genitoriale che perdura nell’amore sempre e comunque, senza se e senza ma, col pannolone o in autonomia fisiologica, quella cattiva sorte della vecchiaia che segue la buona dei fasti della giovinezza e dell’età adulta e a cui uno vorrebbe arrivare già anziano per sapere poi come si fa a contare il tempo nell’attesa del segnale che è l’ultimo per davvero. Quindi ci si sofferma brevemente sul presente che, in un caso di stretta vicinanza parentale, è un pantano di stasi che a dirla tutta è meglio così, anzi una piscina di fango su un baratro – come in quelle spa dove quando ti fai il bagno ti sembra di essere sospeso – che va tutto bene e andrà bene fino a quando la poltiglia sarà in eccesso e, tracimando, porterà via con sé i bagnanti e io – siete miei testimoni che lo dico qui e ora – non avrò proprio le risorse per agire in nessun modo. Non ci resta che piangere e contemplare infine il futuro che ora ha una decina di anni, mi somiglia solo un po’ ed è il prosieguo in parte della mia vita. Ci si moltiplica per questo apparente surrogato di immortalità che però funziona, è come aver mandato una pattuglia di sé a sondare il domani dopo averla approntata con sensori e terminali del proprio sistema percettivo – ma anche solo con quell’intruglio misterioso che contiene il DNA – e averla addestrata a muoversi in quella intricata selva oscura (ché la diritta via è ignota ancor prima di essere smarrita) che è la vita, ma in quel quadrante che, nel mio caso, non vedrò mai per motivi anagrafici e forse chissà, davvero riceverò segnali tipo mio dio è pieno di stelle, spero solo che nel posto in cui sarò ci sia abbastanza campo per captarli.