mani in alto

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Una delle foto più conosciute dell’esperienza dell’olocausto e della Seconda Guerra Mondiale in genere ritrae un bambino con la stella cucita sul cappotto, un cappello e le mani in alto nel ghetto di Varsavia. Intorno a lui altri ebrei dal destino segnato e soldati nazisti con il mitra spianato. Si tratta di un’immagine che, come credo a molti di voi, mi ha impressionato sin dalla prima volta che l’ho vista, stampata in bianco e nero nel sussidiario delle elementari, in una pagina del capitolo dedicato alle tragedie del novecento.

Ci ho ripensato qualche sera fa, mentre ero in fila con le persone che fanno ginnastica insieme a me. Avevo avanti Luigi, che non so se avete letto il post dedicato ma è un vecchietto che poi ho scoperto essere Dio quel giorno in cui mi ha mostrato il suo tesserino, e facevamo proprio un esercizio spingendo le braccia in alto e camminando per stirare bene la schiena. Ho visto la nuca di Luigi in quella postura e per un istante ho avuto la sensazione di trovarmi tra i prigionieri di un rastrellamento e non credo che ci sia un collegamento con il fatto che Luigi sia Dio e che, per qualche motivo, Luigi/Dio abbia voluto farmi sapere qualcosa. Provo sensazioni di questo tipo da sempre ma non voglio ammettere di essere soggetto a percezioni soprannaturali perché sono un integralista della scienza, soprattutto della chimica.

Di certo il bombardamento di informazioni a cui la mia generazione è stata oggetto da bambini, erano passati a malapena trent’anni dalla cacciata degli invasori dalla nostra patria e dall’ostensione dall’infame traditore appeso a testa in giù a Piazzale Loreto, ha segnato profondamente il nostro immaginario emotivo e non sto qui a raccontarvi quante volte ho sognato di essere passato per le armi dai nazifascisti, esperienze che collego alle abbondanti porzioni di pizza con i friarielli o le acciughe mangiate a cena più che a cose legate alla metempsicosi. Ma devo ammettere che questo ricordo di camminare con le mani in alto e la canna fredda di un fucile puntato sulla nuca me lo porto dietro da sempre.

Poi mi basta zoomare usando la memoria come se fosse un obiettivo di una telecamera allargando il campo per vedere più dettagli e sconfinare in un altro ricordo vivissimo: un film sempre sullo stesso tema, in cui alcuni partigiani vengono stanati in un cascinale, percossi duramente dalle brigate nere e fatti incamminare, intruppati con le mani in alto, con destinazione verso una giustizia sommaria, e mia mamma, insieme a me al di qua della tele, al sicuro tra le mura domestiche in un periodo storico sicuramente non felice – gli anni di piombo – ma almeno in un contesto democratico e di pace, che mi dice di andare a letto, dire le preghiere e di dirle anche per loro, come se gli attori del film avessero avuto bisogno della mia intercessione per salvare la loro anima in una pellicola di chissà quale film, e chissà se davvero le anime poi si sono salvate prima dei titoli di coda o forse addirittura i corpi, magari poi quel film finiva bene ma, se mi chiedete quale fosse il titolo, mi spiace ma pretendete davvero troppo.

il primo giorno dopo il giorno della liberazione

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Il 25 è una data presa a simbolo, ai tempi non c’erano certo mezzi per accordarsi sulle tempistiche da spaccare il secondo e non è che da un giorno all’altro è finita la guerra. Non è stata certo una gara con tempi regolamentari e supplementari e il golden goal o i rigori. Il 25 aprile non è quindi uno spartiacque tra la guerra e la pace, tra la belligeranza e la riconciliazione, anche senza tener conto che ancora oggi siamo qui a rivendicare e disquisire e il sangue dei vinti e che, se fosse per me, altro che amnistia di Togliatti. Comunque sul fatto che la liberazione dal nazifascismo uno se la immagina come l’arrivo del deus ex machina e la tragedia si conclude e applausi, occorre fare chiarezza. Dobbiamo immaginare un territorio vasto e articolato come l’Italia settentrionale, un esercito che si stava ritirando da sconfitto in Germania, un altro che si doveva nascondere per sottrarsi alle sacrosante ritorsioni dei propri connazionali, gli alleati, la popolazione civile, gli sfollati. Il tutto in un contesto italiano. La zona grigia tra guerra e pace, la non-guerra o la quasi-pace dev’essere stata un momento particolarmente teso e complesso. Ci penso sempre quando passo di fronte alla lapide di un patriota partigiano posta sul ponte della ferrovia, poco lontano da casa mia. Un ragazzo di diciott’anni ucciso dai nazifascisti il 26 aprile del 45. Sono all’oscuro dei fatti, come sia stato braccato o inseguito o tratto in inganno dagli ultimi rigurgiti del conflitto civile.

Mi ha sorpreso però il destino nefasto di essere una delle prime vittime dopo la data scelta per l’anniversario della liberazione. Nel senso che se invece davvero la sera del 25 tutti erano rientrati nelle loro case con la consapevolezza che la guerra fosse terminata, come quando oggi si torna alla sera dal cinema e ci si accinge a coricarsi con le preoccupazioni per il giorno dopo, sapete com’è. Il lavoro, la palestra, i compiti dei figli, che cosa mi metto se piove. Se è così, quel ragazzo è uscito la mattina del 26 aprile con la tranquillità della pace ristabilita e invece un colpo di coda del secondo conflitto mondiale, che uno se lo immagina come un animale feroce di dimensioni incommensurabili a spasso per il mondo a devastare popoli e territori come un gigante grossolano con tutta la sua cucciolata di piccole guerre civili locali che sono come quei felini che imparano a cacciare giocando con le prede. Ecco, uno di questi forse ha notato una faccia conosciuta, quella di un partigiano sorridente tutto fiero di avere vinto la guerra, e per guastargli la festa l’ha schiacciato, ferendolo a morte. La mia dedica per questo anniversario della liberazione appena trascorso va a lui ma nel giorno successivo, che è quello che per lui è stato l’ultimo. Buon 26 aprile.

sei degli anni sessanta se ti lamenti che alle elementari sprecavi il tempo a imparare Bella Ciao

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Sei nato negli anni sessanta se ti lamenti che alle elementari sprecavi il tempo a imparare Bella Ciao e ad ascoltare racconti e agiografie sui partigiani anziché imparare l’informatica o a stare al mondo. Premesso che ho molti amici nati negli anni sessanta, se non altro perché si tratta di una generazione a cui appartengo anche io, non è la prima volta che sento persone lamentarsi su questa lunghezza d’onda come se nel 73 ci fossero già stati i personal computer o se far fronte alle complessità degli anni di piombo fosse di analogo impegno di far fronte agli anni di grillo. Roba che fa rabbrividire anche i più moderati come il sottoscritto.

Ma la sostanza non cambia. C’è chi vorrebbe aver avuto una migliore preparazione sulle lingue straniere, inglese in primis, roba che le maestre di un tempo non si filavano nemmeno di striscio, già era un successo quando non parlavano in dialetto. C’è chi anche avrebbe voluto meno Sumeri e più Educazione Civica, qualche ora in meno di storia antica e un po’ di spiegazioni in più su come ci si comporta con la cosa pubblica, come funziona una democrazia rappresentativa, perché è importante partecipare alla vita politica, un bagaglio nozionistico utile anche a casa per rieducare genitori e nonni che ai tempi del maestro unico erano dei bei zucconi ma mai come adesso. Comunque non siamo in pochi noi che portiamo vivido il ricordo dei canti della Resistenza forse – e giustamente, lasciatemelo dire – più presenti nell’orario dell’insegnamento della religione stessa.

Non so, ma per me è stata una bellissima esperienza che a quarant’anni di distanza rimpiango più di altre. Così, quando sento lamentarsi qualcuno, come mi è successo qualche giorno fa, proprio dell’eccessiva attenzione che ai tempi si dava alla nostra storia recente rimango basito da cotanta trivialità. Che è chiaro che sotto sotto poi sono gli stessi che se gli chiedi spiegazioni attaccano con la solfa del sessantotto, dell’egemonia culturale della sinistra, delle maestre comuniste nella sperimentazione didattica, dei libri di storia e che due coglioni. Primo: se a destra non avete studiato per diventare insegnanti sono fatti vostri. Secondo: cosa avrebbe dovuto fare, la scuola italiana? Insegnare anche i canti fascisti da intonare a testa all’ingiù a Piazzale Loreto? Ma fatemi il piacere.

C’era un altro tizio, infine, un collega di tanti anni or sono che aveva addirittura avuto un rigurgito da troppa ingerenza come accade a quelli che studiano troppo dalle suore. Avete presente, vero? Era uno che era stato talmente indottrinato sui partigiani che alla fine aveva sbroccato, ai tempi non votava nemmeno e chissà, oggi anche lui è un fan dell’antipolitica. So che per voi che siete cresciuti quando Berlusconi era già uno statista è difficile da immaginare, ma quando gli anni della guerra ancora si percepivano sulla pelle della gente era tutto diverso. Non so dire se meglio o peggio, o meglio, so che è meglio ma è meglio che non lo dica.

aldo direbbe 26 per 1 ma anche noi, insomma, diamoci una mossa

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Io il 25 aprile del 2013 me lo immaginavo diverso. Speravo potessimo festeggiarlo liberi da un certo modo di fare politica, anzi di non farla. Liberi dagli umori della gente in piazza e di quella dei social network che cercano di ovviare la democrazia parlamentare amplificati dai media che confondono mode con maggioranze. Libera dai grillismi di ogni colore e da quelli che sembrano trasparenti. Liberi dai renzismi che vivono nei discorsi dove senti categorie allacciarsi l’una all’altra sull’onda di una boria priva di consonanti ancorché priva di logica. Che è la versione due punto zero della grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa passando per Malcom X e così via. E tutti sotto a ballare il grande sogno dove tutto è sintetizzabile in una sorta di QR code globale, utile per ogni occasione. Per la sburocratizzazione come per le blogger iraniane. Insomma, mai avremmo pensato di trascorrerlo nell’ansia di un governo Letta, sotto scacco del PDL che alza la posta tanto non ha nulla da perdere. Perché di quello di cui è vent’anni che ci dovremmo liberare non siamo ancora liberi e tutto per colpa nostra. Lasciamo allora la festa in sé libera da tutto, e che per una volta sia solo il compleanno della libertà, la madre di tutto il resto.

pesce

un club esclusivo

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La religione è un’esperienza personale, questa è una affermazione che manda in bestia gli integralisti e gli ortodossi perché la fede è quella, il rito è ben definito, prendere o lasciare. Ma se avete frequentato persone religiose, saprete come me che basta essere in quattro per scoprire quattro idee differenti del credo comune. Un mio amico credente e praticante un giorno mi disse che ognuno ha il suo posto nella chiesa ed è una vision che se fossi credente e praticante farei mia in modo molto opportunistico, ma qui si va fuori tema, perché volevo semplicemente dire che se la religione è un’esperienza personale anche le feste religiose forse sono tali. Cioè uno vive il Natale come vuole e lo fa suo, perché è il compleanno di Gesù ed è il momento in cui ci si impegna a essere buoni e ad amare il prossimo e così via, oppure è solo un’opportunità per manifestare i nostri sentimenti alle persone a cui vogliamo bene spendendo la tredicesima. La Pasqua pure, e via così.

Ma non credo sia mai successo nella storia dell’umanità che qualche organizzazione all’interno o meno della Chiesa o qualche singolo esagitato si sia arrogato lo status di figlio di Dio. Non si è mai visto, in processione o durante la via crucis con il Papa, qualcuno alzare uno striscione con su scritto cose tipo “Ieri Apostoli, oggi Comunione e Liberazione”, o piuttosto “Ieri Gesù, oggi tocca a me salvare il mondo”. E neppure mi risulta che qualche gruppo italiano abbia pubblicato una cover di “Tu scendi dalle stelle” che col tempo è stata eletta col tacito consenso dell’opinione pubblica a versione ufficiale, tanto che alla radio e in tv durante le feste si sente solo quella.

E niente. Io sono un integralista delle feste laiche. Per me c’è un solo 25 aprile che è l’anniversario della Liberazione, in cui si celebrano i Partigiani e l’associazione che tutt’ora li rappresenta, che è l’ANPI. Oggi c’è stata una bellissima manifestazione qui a Milano, c’è stato il primo discorso di Pisapia da Sindaco, mi è sembrato persino di vedere più partecipanti del solito. Poi ho letto uno striscione che mi ha fatto venire il mal di pancia e che diceva “Ieri Partigiani, oggi NoTav” che, oltre a essere ingiustificato, fuori luogo e fuori contesto, era pure falso perché non esiste proprio nessun nesso tra le due categorie. E, poco dopo, la versione demago-rock di Bella Ciao dei Modena City Ramblers, così popolare che le giovani generazioni pensano sia una loro composizione, che se gli chiedi anche solo un altro titolo della loro produzione non ti sanno rispondere. Sono contrario a fare propri simboli comuni, a reinterpretarli e a farne un cavallo di battaglia. E chissà, forse c’è qualcuno che dice che ognuno ha il suo posto nella sinistra. Ecco, io quelli lì, quelli che si sentono i nuovi Partigiani e quelli che ballano Bella Ciao perché è un pezzo dei Modena li accompagnerei gentilmente fuori. Mi spiace, oggi c’è il tutto esaurito.

senza tregua

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ancora una questione privata

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È una vita che voglio fare la tessera dell’ANPI. Uno di quei buoni propositi che mi pongo con l’approssimarsi del 25 aprile o addirittura, come è successo proprio lo scorso anno, a Natale, quando una mia cara amica ha regalato l’iscrizione a sé e alla sua compagna e mi è sembrato proprio un bel gesto e così mi dico con autorevolezza che devo assolutamente farlo anche io. L’ANPI è una di quelle organizzazioni di cui non si dovrebbe mai fare a meno e che spero siano sempre attive per permetterci di ricordare il sacrificio che si è consumato e il valore intrinseco dell’antifascismo che dovremmo avere tutti noi già dalla nascita, quando impariamo a camminare, nelle prime letture, diventando ragazzi e poi adulti e poi vecchi perché è con l’antifascismo che ci siamo ritagliati una prima parte di libertà e democrazia. Chiaro che c’è ancora da fare, ma senza quel primo passo, quel rendere chiaro quel primo basso livello di garanzia e di tutela dell’essere umano dall’odio primitivo e fine a se stesso, senza il quale non saremmo qui a discutere di banche e di spread.

È bello che ci sia un passaggio di testimone tra chi ha combattuto e ha fatto la Resistenza in prima persona e le successive generazioni, ed è giusto sostenerlo anche economicamente affinché ci siano sempre risorse sufficienti a tramandare memoria e fonti. Nel mio piccolo do il cinque per mille anche se è difficile ogni anno scegliere quale progetto sostenere, e anche in questa occasione mi dico che appena ci sarà la possibilità farò la tessera proprio per fare di più. Perché, a parte il valore in sé dell’ANPI, ci sono molti momenti della mia vita in cui quello che ho appreso dai racconti – nei libri e nelle testimonianze dirette – e dai film sui Partigiani ha svolto un ruolo importante nella formazione della mia coscienza civica, ancor più che politica. Per non parlare di quando, un ricordo più che vivido nella memoria, mi trovai faccia a faccia con Sandro Pertini Presidente della Repubblica e mi feci avanti stringendogli la mano, ero poco più che un bambino in prima fila con la sua classe a una commemorazione di un cippo dalle mie parti, a pochi chilometri da dove Sandro Pertini era nato.

Questo per dire che se a fatica oggi mi affilierei a una formazione politica, ritengo la tessera dell’ANPI un gesto significativo, un offrire se stessi a sostegno di un pezzo di passato che dev’essere sempre qualcosa di più di capitolo sul libro di storia da fare in fretta e in furia in quinta a poche settimane dalla maturità. E giusto ieri, in occasione di una manifestazione che si è tenuta al mio paese, mi si è presentata una opportunità concreta. Tra numerosi stand di associazioni presenti ho notato proprio quello dell’ANPI. C’erano totem con foto e articoli d’epoca, e c’era l’invito a iscriversi più o meno per tutti i motivi che vi ho elencato sopra. Così mi sono affrettato per confermare con i fatti la mia adesione ideologica al progetto, poi ho visto la persona che avrebbe ritirato la mia quota di offerta, e ho tirato dritto ripromettendo di iscrivermi non appena si ripresenterà l’occasione.

l’ora delle decisioni irrevocabili

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Non puoi pretendere da una folla esasperata di mantenere la calma. E guarda, non sto parlando di quanto successo prima della guerra, che già lì ci sarebbe materiale per mandare in bestia chiunque. Il punto è che tra il 43 e il 45 era tutto molto, ma molto più complicato. Chi stava di qui o di là rischiava la vita. Sempre. Poi c’erano tante, troppe persone che stavano in mezzo ad aspettare. Ma chi si sbilanciava, magari anche a fin di bene, per sopravvivere, perché minacciato, faceva rischiare la vita agli altri. E non c’era modo di perdonare. Così qualche giorno dopo il 25 aprile, lo hanno preso a casa sua. Era il barbiere del paese, andavo da lui quando il mio vicino, che me li tagliava gratis, non poteva. Sono andati in gruppo e armati. Il barbiere aveva fatto arrestare un po’ di gente, e a causa delle sue delazioni alcuni ci avevano rimesso la pelle. Subito o in Germania. Aveva potuto decidere di farlo, e l’aveva fatto. Lo hanno preso, e da casa sua, a calci nel sedere e schiaffi, in mezzo alla folla esasperata, tra chi aveva visto uccidere i propri cari dai fascisti e chi morbosamente era incuriosito dalla scena, lo hanno spinto verso il cimitero. Non ricordo se sia arrivato lì ancora vivo, o in che condizioni. Ma a quel punto la condanna è stata eseguita a mitragliate. Era la guerra, non era ancora finita, e ci sarebbe stato ancora qualche strascico, almeno per i successivi sessant’anni. Non puoi pretendere da una folla esasperata di mantenere la calma.

flash mob: quando il brand fa storia

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La nota marca di dispositivi di memoria collettiva ANPI® ha messo a segno ancora una volta il più imponente Flash Mob dell’anno. Milioni di persone di tutte le età, una massa eterogenea di donne, uomini e bambini si è data appuntamento in ogni città d’Italia e in ore diverse del giorno per cantare “Bella ciao”, da sempre il jingle di chi odia i simboli oppressivi e resiste contro la moda della dittatura del nero sulla libertà policromatica, come il tricolore, l’accostamento che mai come quest’anno ha fatto tendenza.

L’iniziativa si è contraddistinta anche dall’impiego di numerose bandiere arcobaleno e di tutte le nuance del rosso, suscitando una forte curiosità da parte degli spettatori, la maggior parte dei quali, ignari del motivo che ha riunito i mobbers, se già lamentavano le condizioni metereologiche poco adatte alla tradizionale gita fuori porta di pasquetta hanno così trovato una valida alternativa alla consueta visita al centro commerciale. Una vera e propria liberazione dalla comunicazione tradizionale e dai rigurgiti reazionari.

In un comunicato stampa, i più informati tra gli organizzatori hanno riferito che la prima mobilitazione di questo genere è avvenuta lo stesso giorno, il 25 aprile, di 66 anni fa, a dimostrazione che intervenire in massa porta sempre al successo. La parola d’ordine che fece partire quel primo esperimento di guerrilla marketing ante litteram fu un ermetico e virale messaggio alla radio: “Aldo dice ventisei per uno”. L’appuntamento è per l’anno prossimo ancora con il brand di chi resiste: ANPI®, dal 1945 la memoria che non si esaurisce mai.

vivere e morire a milano, nel 1944

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L’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mesi; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole. Il libraio ambulante di Porta Venezia diceva: «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo. È dal 1908 che non avevamo un inverno così mite.» «Dal 1908?» diceva l’uomo del posteggio biciclette. «Allora non è un quarto di secolo. Sono trentasei anni.» «Bene,» il libraio diceva. «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da trentasei anni. Dal 1908.» Egli aveva perduto il suo banco nei giorni della distruzione di agosto; aveva lasciato la città; e non è ritornato a Porta Venezia che al principio di dicembre per poter vedere questo che vedeva: il più mite inverno di Milano dopo il 1908. Splendeva il sole sulle macerie del ’43; splendeva, ai Giardini, sugli alberi ignudi e sulle cancellate; ed era una mattina nell’inverno, era gennaio. Un uomo si fermò davanti al banco dei libri; portava una bicicletta per mano.
«Buongiorno,» il libraio gli disse.
«Buongiorno.»
«Che inverno, eh!»
«Che inverno è?»
«È l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo.»
Si avvicinò l’uomo del posteggio.
«Da un quarto di secolo?» disse. «O dal 1908?»
«Dal 1908,» disse il libraio. «Dal 1908.»

Inizia così la letteratura sulla Resistenza. Ogni anno, verso l’anniversario della liberazione, se riesco (ma ci riesco quasi sempre) rileggo quella che è la migliore testimonianza, scritta praticamente in diretta da Vittorini, della Milano durante l’ultimo anno di guerra. I GAP, i morti passati per le armi che parlano ai passanti in piazza Cinque Giornate, i nomi in codice, la ferocia stipendiata dei tedeschi e quella gratuita degli italiani in nero. Che non dev’essere, e questo lo dico solo per me, una scusa per guardarsi indietro e contemplare il peggio. Ma cammino quasi ogni giorno nei luoghi descritti, come transito spesso da Piazzale Loreto, e mi viene un brivido perché mi sembrano cose accadute davvero troppo poco tempo fa.