tira fuori la lingua

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Ieri l’altro ho usato “sed” anziché “but” mentre davo delle indicazioni stradali in inglese a un tedesco nel centro di Milano, ma probabilmente era un latinista perché ha sorriso e deve aver capito. Da un parte si è trattato di un piacevole diversivo, dall’altra ho immediatamente paventato la diffusione di una specie di meta-esperanto composto dall’unione di due lingue di ceppi diversi ma fondamentali per la civiltà occidentale come la conosciamo noi. Avrei potuto quindi aggiungere che era facile riconoscere “the circonvallazione because it’s omnis divisa in partes tres”. In realtà per chi non conosce le lingue il viaggio assume una dimensione spiacevole. La difficoltà di capire e di esprimersi va ad aumentare il peso di tutte le altre ansie che infieriscono sul nostro equilibrio quando ci chiudiamo la porta di casa alle spalle per allontanarci per più di una notte, come rimanere senza benzina in un punto distante dalla civiltà, forare in terza corsia, smarrire entrambe le copie della chiave della macchina. Per non parlare dei viaggi in aereo a partire dall’aereo, dall’altezza dell’aereo, dal fatto che l’aereo si muove sospeso in aria e così via.

Non so se esista un termine per definire la paura delle lingue straniere. Osservare persone che si esprimono e non le riesci a capire è un’esperienza riconducibile alla categoria dei casi di possessione diabolica. Hai davanti un indemoniato che ti lancia contro il peggio delle maledizioni e il fatto di non afferrarne il senso non ne allevia le conseguenze. A provare questa tesi posso ricordarvi un passaggio di “Se questo è un uomo” che non so citarvi a memoria ma in cui si prova che in un campo di sterminio in cui la vita vale meno di zero riuscire a comprendere gli ordini urlati in tedesco comunque consentiva qualche margine di sopravvivenza in più. Quindi immaginiamo l’arrivo dopo il calvario nei treni piombati e l’impatto con pazzi armati che ti sbraitano contro in una lingua dura e ostile che per di più non capisci.

Ecco perché dovremmo sempre portare con noi quel libro di Levi. Ogni momento difficile che ci troviamo ad affrontare dovremmo cercare nella sue pagine un’esperienza con la stessa matrice (lingue, lavoro, fatica, rapporti tesi con il prossimo, indigenza, noia) e verificare che in fondo non ce la passiamo così male. Per dire, quando ho un incontro di lavoro in cui devo parlare in inglese mi viene il mal di stomaco almeno a partire da sette giorni prima. Mentre mi parlano faccio finta di capire, se mi chiedono qualcosa rispondo qualunque cosa, tanto spesso sono americani e gli va bene tutto basta che ripeti lo stesso concetto per tre o quattro volte, qualunque esso sia. Certo, basterebbe fare un bel corso di inglese per migliorarsi e stare meglio, ma poi mi chiedo se sia così necessario. Vincere le proprie paure, ma perché?

fa novanta

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La prima volta è stato con un film comico in bianco e nero, quelli con Stanlio e Ollio, o Cric e Croc secondo il lessico famigliare. Uno dei due faceva il bagno nella vasca, l’altro ha tolto il tappo ed è stato inghiottito dal buco dello scarico, insieme all’acqua. Una specie di evoluzione del noto proverbio dei bambini e l’acqua sporca, ma qui c’è il paradosso delle dimensioni e guai a mostrare un paradosso a un bambino. Paure da grande e piccolo schermo, come quella nata a seguito della visione de Lo squalo. C’erano svariate possibilità che un esemplare gigantesco, catturato nel mediterraneo e trasportato tramite TIR per le strade della città, proprio sotto casa avesse uno scatto di sopravvivenza, gli stessi che hanno i pesci nei secchi senz’acqua, e saltasse fino al quinto piano sfondando le finestre e atterrando sul letto fino a mangiare il bambino che al buio non riusciva a chiudere occhio. O ancora il liquido nero con cui gli extraterrestri riempivano i caschi dei militari della Shado, un’agonia che poi è tornata in auge con il video di No surprises, per fortuna era almeno trasparente e non caffé e dava l’idea di essere più friendly. Mai mettere la testa in un casco. Ma la peggiore di tutte era l’annunciatrice RAI che ti si rivolgeva direttamente, roba degna di Cronenberg e del suo Videodrome, passando da un generico voi punto-multipunto a un diretto tu punto-punto. In confronto la foto di Mario Tuti al telegiornale era tutto relax. Già, anche le ansie generate dal momento storico politico. Per esempio la paura che qualcuno entrasse in casa e ti rapisse, o una bomba nel portone, o un semplice incendio dovuto a uno scontro tra manifestanti e polizia sotto casa.

Nel tempo le paure poi diventano più specifiche e contestualizzate all’individuo. La paura dello scontro fisico, quella del rifiuto dei pari e del non piacere a chi ti piace. Farsi del male. Ma gli strumenti a disposizione sono maggiori, l’equilibrio diventa più strutturato. Tanto da permetterti di attraversare la fase del senso di invincibilità fin troppo da spavaldo, e atterrare poi alla maturità e alla razionalità indenne e sufficientemente intelligente da tornare alle paure da irrazionale. Il terremoto, il viaggio in aereo, i luoghi alti e aperti e gli aerei che ti si vengono a schiantare contro, gli oggetti che cadono dalla nave in mare, o cose più serie come le malattie e la morte, propria e altrui. Per non parlare delle paure nate con la genitorialità, lì persiste un intero campionario destinato purtroppo ad aumentare con la crescita dei figli. Inutile ricordare come si definisce il rapporto tra i problemi e la loro età. Oppure la paura di parlare delle proprie paure in prima persona in un post. Ma, tra tutte, la paura più grande è ancora una. Dire di no, vedere lo sgomento altrui di fronte al rifiuto di qualcosa, soffocare l’entusiasmo di una proposta, non accontentare un desiderio, usando se stessi come transfert della delusione altrui. No. Due fucking lettere appaiate, spesso accompagnate a un movimento oscillatorio del capo che, malgrado i progressi della tecnologia, risultano essere ancora una delle armi anti-uomo più comuni. No. E non esistono poligoni di pratica della negazione per esercitarsi, affinare la mira, colpire, ferire. L’esperienza si fa solo sul campo.