i migliori modi per scoprire se qualcuno vi fa una foto di nascosto con il suo smartcoso

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Chi non ha mai scattato una foto di nascosto con lo smartphone scagli lo smartphone stesso sul pavimento di marmo. Attenzione però a metterlo sul silenzioso e a disattivare il flash (prima di dilettarvi a fare le foto di nascosto e non prima di scagliare il vostro iPhone sul pavimento di marmo), il perché lo potete immaginare. Non è una perversione voyeuristica, o almeno non tutti i ladri di istanti altrui lo fanno per collezionare porzioni di nudo o dettagli hot. Ci sono i cacciatori di atteggiamenti imbarazzanti, di espressioni assorte, le dita nel naso che sono un classico o chi dorme in luoghi pubblici con la bocca aperta, sono convinto a questo proposito che prima o poi mi troverò ampiamente documentato su Instagram. Ci sono fior di blogger che fanno le foto di nascosto a quello che la gente legge o a chi indossa scarpe di merda. Insomma, ce n’è per tutti i gusti e bisogna stare sempre all’erta perché gli scoop capitano quando meno te lo aspetti e se ti metti di impegno a cercare il soggetto giusto puoi stare fresco. Ieri una ragazza che avevo seduta vicino sulla metro è passata da una partita a Candy Crush a una rivista dall’esplicito titolo “Buddismo”, una vera e propria dichiarazione d’intenti che mi ha immediatamente ricordato da una parte la trasmissione tv “Protestantesimo”, un titolo che mi immaginavo seguito da una sfilza di punti esclamativi e uno come usano esprimersi oggi i grillisti sui socialcosi, dall’altra un altro esperimento piuttosto riuscito di digital-qualcosa che è la pagina Facebook dedicata alla finta rivista “I nostri marò“. Non so quale sia stata l’associazione di idee e i miei numerosissimi lettori buddisti simpatizzanti e praticanti non me ne vogliano, lo sapete che per me non c’è nulla di sacro, nemmeno l’osso. Comunque questa ragazza mette via Candy Crush e prende dalla borsa una copia di “Buddismo”. Avevo il telefono pronto per la foto, malgrado questo lei è stata velocissima a portarsi al punto in cui doveva essere arrivata alla fine della sessione di lettura precedente, con tanto di matita per sottolineare e aggiungere chiose al testo, quindi addio copertina. Ho provato a stare all’erta nel caso una chiamata la inducesse a riporla chiusa, invece niente. La ragazza si è messa così a cerchiare frasi e parole di un articolo sulla reciprocità di non so che cosa, sembrava infatti quasi più una pagina del vangelo. Ma ciò è bastato a spingermi a pensare che magari anche lei stesse aspettando il momento migliore per una foto di nascosto alle cose più originali di me. Il libro che stavo leggendo, la borsa della dimensione di un trentatrè giri acquistata a Berlino, il fatto che scrivo su un blog che anche se non evidente può essere considerato un tratto eccentrico. C’è gente che fa le stesse cose per anni proprio perché spera che prima o poi qualcuno per strada gli dica quanto sono fighi a fare così o cosà. E se vi siete riconosciuti, vi dico che si tratta di un approccio che non paga. A me si legge in faccia che le cose filano per il verso giusto, almeno le piccole cose come salute lavoro e affetti, questo mi rende un soggetto poco fotogenico. Se volete, inizio a postare i miei primi piani qui così mi date il vostro parere.

tutto casa e ufficio, ma solo perché è a due passi

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Da sempre guardo con sospetto chi cambia casa in funzione dell’ufficio per essere il più vicino possibile al posto di lavoro, una scelta piuttosto in voga ai tempi dei nostri genitori quando entravi in un’azienda o in un ente a meno di vent’anni e ci rimanevi fino alla pensione. Oggi questo non è più possibile, lo sapete meglio di me. Chi scrive ha girato più agenzie in quindici anni che il resto della sua famiglia messo insieme, giusto per fare un esempio a caso. Eppure ogni tanto mi capita di conversare con questi eroi senza tempo, e non mi riferisco a chi si trasferisce dalla Liguria alla Lombardia, ci mancherebbe. Solo un folle farebbe a lungo il pendolare quotidiano tra i capoluoghi delle due regioni. Ehm. No, pensavo a chi passa da Milano Ovest a Est per avere meno di cinque minuti di auto da sopportare ogni mattina. Nemmeno si potesse ancora pranzare a casa, come nell’Italia in bianco e nero che si vede su Rai Storia. O farsi una pennica prima di riprendere l’attività nel pomeriggio.

Senza contare che le imprese, anche quelle grosse, cambiano sede che è un piacere e mandano nel panico i dipendenti. Iniziano l’attività in centro e nessuno si muove, sono ancora in pochi a lavorarci. Poi si ingrandiscono e vanno al Centro Direzionale di Agrate dove occupano quattro piani e tutti si trasferiscono in Brianza, ma nel frattempo arriva la crisi e i prezzi degli uffici in centro diminuiscono, quindi i superstiti ai tagli di personale sono costretti a tornare in città seguendo il nuovo assetto societario.

Solo una volta, nella mia vita, ho provato l’ebbrezza di recarmi al lavoro a piedi e di poter rientrare a casa per la pausa di metà giornata. Si è trattato di un periodo breve, un semestre a malapena, ma nella bella stagione tanto che ricordo insalate varie gustate su un meraviglioso terrazzino con vista sui tetti della città vecchia. Ma è chiaro che si tratta di un’eccezione. Mio suocero mi racconta spesso di quando faceva l’operaio all’Innocenti, oltre Lambrate, e si muoveva ogni giorno in bicicletta dalla periferia a Nord-Ovest di Milano. Un aneddoto che mi ripeto proprio in questi giorni come un mantra, mentre scorro gli orari del passante ferroviario delle Nord mandati in tilt da un misterioso software per la gestione dei turni del personale tanto che la circolazione è praticamente inesistente. Immaginatevi un intero sistema produttivo messo in ginocchio da un’infrastruttura di trasporti che all’improvviso non funziona più. La mancanza delle cosiddette commodity, i servizi che diamo per scontato. La luce, il gas. O la benzina, la cui disponibilità tra l’altro in questi giorni è messa in forse da una serie di scioperi che il Tg7, questa sera, ha ribattezzato “la serrata delle pompe”.

Non sono i tempi migliori per chi fa leva sulla propria flessibilità per ottenere il massimo dall’impiego a progetto. Ma anche chi fa la stessa cosa ogni santo giorno non se la passa meglio. Ogni mattina è tutto in ingegnarsi per trovare il modo per non tardare l’appuntamento con il jingle di start in ambiente Windows o l’accordo che sancisce l’avvio del sistema operativo che fu di Steve Jobs e, contestualmente, una nuova giornata di grane indipendentemente dalla piattaforma utilizzata. Stamattina ho approfittato di uno strappo fino alla metro più vicina da un vicino di casa perché, trascorsi i due giorni e non risolti ancora i bachi all’applicativo per la formazione dei turni, non mi fidavo più del treno. Che poi mi chiedo cosa ci voglia a fare un tot di telefonate e a convocare i macchinisti di urgenza. Succede ovunque, no? C’è un casino che rischia di esasperare gli utenti e muoverli verso una sommossa popolare, ci sarà il modo per arginare il danno. Così, tra un capitolo e l’altro del libro la cui lettura ormai sto portando a termine dovendo impiegare 80 minuti per percorrere dieci km, penso a chi lascia dietro di sé la porta e si appresta a camminare per quei pochi minuti che lo separano dalla scrivania. Ne conosco un paio, e ora capisco il perché di tanta serenità.

prestare attenzione ai monitor informativi

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Fatemi una cortesia, perché capisco e apprezzo il vostro impegno e gli investimenti che effettuate nel tentativo di intrattenermi, ma davvero, non è il caso e ne farei volentieri a meno. E non è difficile riconoscere chi stanzia in spazi pubblici infastidito dalle voci in scatoletta, dalle musiche hollywoodiane e dai colori sgargianti che fanno a cazzotti con il retrogusto dei cornetti ripieni di conservanti riscaldati a cazzo nei microonde dei bar dei cinesi. Perché tutti siamo lì a guardarci intorno e scovare tracce di piacere individuale pronti a tacciare di faciloneria questo o quella solo perché reagisce alla pioggia con gli stivali di gomma o contribuisce a spremere intere popolazioni nordiche con una compulsiva domanda di algide storie noir rischiando il tracollo da sovraproduzione o, peggio, l’esaurimento di ogni vena commerciale. Poi li vedi gli unici due sui quali la teoria delle affinità elettive potrebbe essere applicata con successo, un giovinastro vestito tutto di nero che segue incuriosito un suo idolo di serie B incontrato per caso, ugualmente monocromatico malgrado i segni dell’età sulla calotta cranica e sulle guance canute. E l’aspetto paradossale è che solo loro che potrebbero salvarsi vicendevolmente si guardano intimoriti, il giovane per lo sbigottimento e la sorpresa, il vecchio per il fastidio di essere riconosciuto e l’imbarazzo del dover spiegare al resto della gente la sua notorietà di nicchia, il suo essere stato una stella dell’underground di venticinque anni prima, la sua rabbia che non ha mai trovato bersagli se non dentro di sé. Non preoccupatevi per me, mi verrebbe da dire a quei bellimbusti inespressivi reclutati in un palinsesto pensato in economia per un target disattento, lasciatemi in pace, ché io non mi sono mai annoiato in vita mia, tantomeno da solo.

storie di ordinaria folla

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L’informazione è ormai considerata un diritto gratis dell’uomo metropolitano. Mi riferisco all’evoluzione del genere cui apparteniamo anche noi frequentatori dell’ambiente social e virtuale, ovvero l’insieme di bipedi che brulicano sottoterra nelle ore di punta per raggiungere il posto di lavoro. Non si spiegherebbe la profusione di pusher di attualità distorta che presidiano i numerosi varchi di passaggio all’inferno, voragini segnalate da una emme bianca in campo rosso che ogni elettore vorrebbe sempre più vicino al portone di residenza per diminuire il percorso outdoor e la conseguente esposizione alle polveri sottili, se non per veder aumentare il valore del proprio stabile. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 21/04/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

chef express

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Chiamo ancora una volta a raccolta tutti i/le bloggerz che trattano tematiche inerenti le angosce dei pendolari per condividere con loro l’idea di una start up, cavalcando l’onda dell’imprenditoria naif che tanto va di moda in questo periodo di flessione del mercato. In effetti non si tratta di un progetto originalissimo quello di fornire servizi a pagamento a individui o gruppi costretti a spostarsi per decine di chilometri ogni giorno all’andata e altrettanti al ritorno. In aggiunta a ciò potrebbe sorgere il senso di colpa dovuto al rischio di infierire ulteriormente su chi già si accolla di un costo aggiuntivo di cui farebbe magari anche a meno – quello del trasporto pubblico per raggiungere il posto di lavoro – oltre al tempo perso che i più trascorrono ammirando sé stessi nel vetro del finestrino.

Ecco, invece penso sia un bene superare questo senso di colpa. Se già si tratta di un peggioramento della qualità della vita quello di misurare la propria temperanza con ritardi e disservizi vari, perché non mettere a frutto quelle lunghe pause della nostra vita in cui sospendiamo ogni attività e decliniamo ogni nostra responsabilità a una commodity che è meglio non dare mai per scontato? Anni fa, almeno venti, per farvi un esempio, esisteva una scuola di inglese che organizzava lezioni sui vagoni ferroviari tenute da un distinto englishman con tanto di bombetta e ombrello (giuro), moduli tagliati su misura a seconda della lunghezza del viaggio, libri per impratichirsi e conversazioni. Mica male.

È facile prevedere i limiti e i contro di questo modello di business (tralascio i pro che sono invece piuttosto intuitivi). Intanto risulta costoso – ammesso che sia attuabile – farsi riservare carrozze solo per chi acquista questo tipo di training on the road, e immagino l’ira funesta dei pendolari nelle ore di punta contro chi impedisce l’accesso a posti liberi mentre il resto del treno è stracolmo di gente. Si verificherebbe cioè la compresenza nella stessa carrozza di chi paga e di chi segue a sbafo i corsi, e questo non è giusto. Meglio allora puntare su servizi one-to-one o a conversazioni con il vicino di sedile.

E ho pensato a tutto questo pochi giorni fa quando ho avuto la mia idea imprenditoriale. Sentite qui. Uno degli argomenti più dibattuti sui treni, non ho percentuali a supporto ma vi assicuro che mi capita di sovente, è “che cosa prepari stasera a tuo marito”. Un dato che ha differenti chiavi di lettura, a partire dal fatto che tra donne si passa il tempo chiacchierando, mentre i viaggiatori di sesso maschile utilizzano in silenzio tutti i gadget elettronici possibili e immaginabili per poi fare il solitario, ma di questo ne abbiamo già ampiamente dibattuto.

Quel giorno una signora, a proposito dei piani culinari per la cena, mostrava alle sue compagne di viaggio tutta una serie di foto sul suo smartphone di piatti preparati da lei, e per ognuno descriveva ingredienti e modalità di preparazione con dovizia di particolari. Prova a fare questo, diceva alle colleghe, ci metti 10 minuti ed è squisito. Poi una ditata sul touchscreen e via con il piatto successivo, il secondo e il dolce. Converrete con me che il pour parler sulle ricette è un classico del disimpegno mattutino, ma mi ha colpito la variante tecnologica, ovvero l’uso del telefono come supporto multimediale.

Così ho pensato a questa tipologia di live food blogging itinerante, un punto di informazione on demand basato sulla relazione interpersonale e dedicato alla gastronomia day by day. Dimmi cosa hai nel frigo, lasciami consultare il mio database e senti come stupire chi sarà con te a tavola, stasera. Il costo delle ricette può dipendere dalla complessità, o si può decidere una tariffa standard. Non c’è nulla di differente rispetto a una ricerca gratuita su Google, sia chiaro, se non che quel non-tempo trascorso in viaggio su vagoni privi di wifi a volte proprio non passa mai. E poi vuoi mettere la forza del contatto diretto. Non mi resta che augurarvi buon appetito, la prossima stazione è la vostra.

scusi, scendo?

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Se sei uno che in treno non legge la cosa più sciocca che puoi fare è accompagnarti a uno che in treno legge perché chi vuole proseguire con il suo libro può anche sentirsi in colpa per trascurare il compagno di viaggio, e chi vorrebbe fare conversazione invece dà per scontato che la sua compagnia sia più avvincente della trama di un romanzo e finisce per essere sopportato a malapena. D’altronde la superiore sensibilità di un lettore rispetto a uno che invece no è risaputa. Che poi il libro in questione sia di Kathy Reichs non è rilevante anche se so benissimo che se fossi nella collega trascurata della mia dirimpettaia di posto farei di tutto per interromperla nella lettura di un libro così inutile con i miei punti di vista intrisi di presunzione dicendo cose tipo perché perdi tempo con quel genere di letteratura lì, solo io ti posso salvare, chiedimi come.

Invece i tentativi di attirare l’attenzione da parte della collega altrettanto pendolare della lettrice vertono su argomentazioni ancora più trascurabili, la ricetta provata la sera prima o i programmi per il prossimo weekend fino a quando, registrando le risposte monosillabiche di una esplicita e crescente irritazione, l’uditorio circostante sembra dividersi tra il partito di quelli che lanciano sguardi di commiserazione alla non lettrice e quelli che si sorridono compiaciuti tra di loro, quella lì non conosce l’ABC del comportamento sui mezzi pubblici e delle relazioni superficiali tra individui che rientrano nella categoria della semplice conoscenza. La non lettrice infine comprende che l’unico terreno valido per non far pesare alla collega lettrice il fatto che fare quattro chiacchiere è una perdita di tempo più nobile rispetto alla lettura di un best seller di letteratura molto di moda è dirigere il dialogo su ciò dal quale vorrebbe distrarla, chiedendo dettagli proprio sul libro in questione. Ma la lettrice ha capito l’antifona e si limita a un laconico “sì mi piace, è sullo stile Patricia Cornwell”. Il mio sospiro di sdegno risuona più forte dello stridore dei freni, vorrei intervenire ma non ho un Power Point di supporto e rischierei di risultare non abbastanza convincente.

La bocca della scocciatrice si chiude in una “o” di stupore che mette in risalto il contrasto tra la sottile peluria sopra il labbro e il colore demodé del rossetto, nel frattempo il treno si inabissa nella parte sottoterra del percorso e si diffonde la consapevolezza che presto ognuno sarà al proprio pc. Un attimo di tregua tra le conversazioni in corso lascia emergere il resoconto tra due pensionati sulla riunione condominiale della sera prima, e tutti noi esseri umani pendolari che facciamo ancora muovere con la nostra operosità l’economia nazionale ogni giorno ci rendiamo conto che solo chi non ha altro a cui pensare, come due pensionati, può sprecare risorse e tempo libero come il trasferimento da casa all’ufficio parlando di una cosa così poco interessante come una riunione di condominio. Decido che noioso come una riunione condominiale sarà un modo di dire che finirò per usare, prima o poi. La non lettrice vorrebbe aggiungere qualcosa ma ormai non c’è più margine, scendono gli studenti universitari e la popolazione del vagone si avvia alla sua estinzione quotidiana.

#fft

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Ci sono i #ff che sono i follow friday e scusate se l’ho scritto per esteso, magari qualcuno di voi non sa che cosa vuol dire, non volevo mancarvi di rispetto. Ma a me interessano più i #fft, follow friday trolley che sono le migliaia di persone da seguire che si incontrano al venerdì mattina con il trolley a rimorchio, loro fanno strada e tu ti metti dietro perché è meglio averli davanti che scontrarsi con loro, veloci e pronte (soggetto: le persone) a lasciare il loro posto letto milanese o i coinquilini insieme ai quali si privano mensilmente di più di metà stipendio per l’affitto del domicilio infrasettimanale alla volta della famiglia di origine o di appartenenza, con cui ricongiungersi per il weekend.

Il trolley, che ti viene voglia di compatire perché fa tenerezza, trascinato come un fedele cagnolino di piccola o media taglia, condividerà con i loro padroncini l’ultima giornata lavorativa della settimana per poi essere schiacciato da altri contenitori di fatiche periodiche stipato in cappelliere e lanciato verso destinazioni più o meno remote per tornare sotto la scrivania il lunedì successivo, ancora impregnato della fragranza di casa e magari ricolmo di provviste cucinate da mammà.

I #fft fanno anche piuttosto rumore e hanno trasformato la città in una sconfinata sala d’attesa in cui i viaggiatori in partenza richiamano la curiosità di chi, con una semplice e old-fashioned borsa a tracolla con un libro e due mele per pranzo dentro, fa la misera figura dell’accompagnatore che sogna di volare oltreoceano e lasciare le rotture di maroni del giorno al collega più antipatico.

Ma qui non si va da nessuna parte, che vita è fare avanti e indietro e tenere due piedi in due città diverse dove da una parte non metti il naso fuori dalla stanza ammobiliata che occupi perché non hai una lira da spendere, dall’altra rivedi amici e affetti, magari la fidanzata o il marito per un giorno pieno in cui ti sforzi di concentrare carezze, cinema e ristorante cinese non necessariamente in questo ordine, e poi qualcuno che ti riaccompagna alla stazione e ti aiuta a sistemarti sull’ultimo treno per non dover poi rientrare con il buio in quella città tentacolare che ho letto ci sono le bande di latinos che si menano non si sa il perché nella metro e fanno a gara a chi è più tamarro. I #fft a quel punto sono però #ffm, follow fucking monday, che potrebbe anche significare, per assonanza, perché mi segui e fanculo a tutto il mondo stamattina, te e le tue rotelle che si incastrano nelle griglie e nei tombini.

leggersi dentro

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E comunque ieri mattina sono uscito di casa per recarmi in ufficio e ho dimenticato di mettere in borsa il libro che sto leggendo. Era troppo tardi quando me ne sono accorto, avrei perso il treno se fossi tornato indietro dopo aver accompagnato a scuola mia figlia, quindi mi sono arreso all’ennesimo disagio da lunedì mattina. In stazione ho scelto di non comprare Repubblica, non avevo voglia di leggere le analisi sui fatti di sabato, e poi non compro mai il quotidiano al lunedì, una forma di protesta contro l’eccesso di pagine sui risultati delle partite di calcio e tutta la letteratura inutile che contengono. Insomma, ho deciso di affrontare i venticinque minuti di viaggio come fanno tanti, senza fare nulla. Mi sono seduto in treno e ho cominciato a passare in rassegna le cose che avrei dovuto approcciare di lì a poco, in ufficio. Qualche idea creativa sulla campagna a cui sto lavorando. Che peccato però sprecare il tempo libero pensando al lavoro, perché non riflettere sull’ennesimo disastro del finesettimana trascorso tra i drammi della mia famiglia d’origine? No grazie. Ho provato a ragionare su come avrei potuto scrivere un post a proposito, che poi non ho scritto. Mi sono guardato in giro, ma non c’era niente di particolare o di diverso dagli altri giorni. Pochissimi con libri o giornali, il resto dei viaggiatori come me, a guardarsi nel vuoto e a pensare. Pensa un po’. Poi il treno è entrato sottoterra, ne ho approfittato per guardarmi riflesso nel finestrino. Perbacco che sciatteria, mi sono detto, e sono certo che qualcuno mi ha pure sentito. Ho scrutato in giro in cerca di qualche viso interessante, qualche faccia intelligente. Ma se guardi troppo gli altri poi gli altri pensano che sei a caccia, o che sei un po’ suonato. A quel punto mi sono chiesto come fanno e cosa fanno quelli che non fanno nulla, guardano nel vuoto, ammiccano a se stessi nel vetro quando il treno è fermo in galleria. Ogni giorno, tutti i giorni, andata e ritorno. Ho acceso il lettore mp3, c’era “Real To Real Cacophony” già pronto da venerdì scorso, e per non lasciarmi vincere dall’imbarazzo ho chiuso gli occhi facendo finta di dormire fino a destinazione. Mai uscire dimenticandosi il libro, piuttosto le chiavi di casa.

bisogna saper perdere

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Alla seconda volta in cui vediamo passare il capotreno attraverso i vagoni, osservare le cappelliere e, se è presente una borsa o zaino porta computer, chiedere ai passeggeri sottostanti se appartiene a qualcuno di loro, è facile capire il dramma che si sta consumando. Qualcuno è sceso a qualche fermata prima dimenticando sul locale, pardon, suburbano per Lodi il proprio PC. O, peggio, con quello che costa, il Mac portatile. Quindi, realizzata la sciagura, il malcapitato è corso in biglietteria esponendo l’accaduto e implorando una azione rapida ed efficace. Ma a giudicare dall’espressione del capotreno, l’oggetto smarrito ha già cambiato proprietario. Che poi non è detto, magari quel qualcuno si sta già organizzando per rintracciare il pendolare smemorato che, tra poco, si troverà vis a vis con il suo destino.

Il momento in cui ti accorgi di aver perso o dimenticato qualcosa è poco meno doloroso di quando prendi un pugno in faccia, di quelli che ti lasciano attonito qualche secondo prima che inizi il dolore fortissimo, il sangue che ti cola dal naso o dalla bocca e che ti fanno accasciare per terra, talvolta senza sensi. Ti accorgi che manca proprio quella cosa nella mano ancora indolenzita che fino a poco tempo prima la teneva, ora che al posto della borsa stringe solo un po’ d’aria con il formicolio sul palmo. E inizi a fare una lista di tutto quello a cui dovrai rinunciare. Oltre al costo dell’oggetto, il lavoro, magari la tesi di laurea di cui è mesi che non fai un backup, tutte le foto della tua vita che non stampi perché sei un nativo digitale, le mail del fidanzato o un po’ di materiale compromettente, chissà. Non si tratta solo di merce che si è spostata da un individuo a un altro, si tratta di una parte di te a cui non avevi mai pensato come necessaria di un sistema di Disaster Recovery permanente.

E non vi nascondo che trovare un MacBook Pro da 17 pollici sul treno è uno dei miei sogni erotici preferiti. Lo vedo sopra di me incustodito, in una costosa borsa gialla. Mi guardo intorno, non c’è nessuno che possa reclamarlo. Così lo prendo con nonchalance e mi avvio all’uscita cercando il più possibile di soffocare l’emozione. Anche se so già che farei di tutto per restituirlo, e non lo dico solo per farmi bello su un blog, credetemi. Come premio di cotanta onestà, sogno a occhi aperti di trovare una busta piena di banconote da 500 euro, almeno un centinaio, frutto di una transazione illegale, così da poter essere intascata senza sensi di colpa. Non so, il pagamento di una tangente, una partita di droga pagata così sottobanco, la mala che ha retribuito un killer che poi, all’ultimo momento, si è pentito è ha deciso di lasciare lì la sua ricompensa in balìa del caso.

Trovare soldi in un vagone ferroviario mi è capitato solo una volta, con un esito degno di essere raccontato. Una storia che ha protagonista un portafogli contenente poco più di centomila lire. Mi sono affrettato, una volta sceso dal treno, a restituirlo alla Polfer in stazione soldi compresi e, tornato a casa, c’era una multa per divieto di sosta da poco più di centomila lire ad aspettarmi. La redenzione si è manifestata qualche mese dopo, a Natale di quell’anno, quando ricevetti un biglietto di auguri da parte del proprietario del portafogli, in ringraziamento del beau geste. Ho dimenticato sui treni invece molti ombrelli, in tanti anni di distrazione. Anzi, numerosi ombrelli, oggetti di poco valore che miracolosamente diventano invisibili all’uscita della stazione di arrivo, fuori piove e provo ad aprirli ma al posto dell’ombrello c’è il nulla, che protegge decisamente di meno.

train man

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In agenzia qui da me è arrivata da poco una ragazza nuova, una grafica che ha preso il posto della precedente, dimissionaria. La nuova grafica viene da Bologna, nel senso che abita tutt’ora lì e, a parte qualche volta in cui approfitta di amici milanesi, ogni giorno copre la distanza tra casa sua, nel capoluogo emiliano-romagnolo, e l’ufficio, a Milano in zona Porta Venezia. Che non sono proprio due passi, come potete immaginare. Si tratta di una scelta che comporta alcuni sacrifici; intanto la spesa, un abbonamento ferroviario per quella tratta suppongo costi almeno un paio di centinaia di euro, alta velocità esclusa.

Ma è il proprio tempo la principale ricchezza a cui occorre essere pronti a rinunciare, in totale un minimo di quattro ore al giorno. E, aggiungo, desistere a ogni velleità di rivalsa nei confronti del trasporto pubblico di fronte a ritardi e disservizi derivanti, perché moltiplicano il disagio in modo esponenziale. Oltre ai soldi e al tempo perso, meglio mantenere il sangue freddo e non rovinarsi l’umore ogni giorno.

Io ne so qualcosa: per anni ho coperto la distanza tra Genova e il mio precedente posto di lavoro milanese ogni santo giorno in treno, quattro ore tonde tonde quotidiane regalate alla causa. A mio vantaggio c’era il tempo da dedicare alla lettura, così tanto non ne avevo mai avuto in vita mia. Ed è stata un’esperienza positiva anche dal punto di vista dei rapporti sociali. Su una carrozza frequentata da pendolari ho conosciuto uno dei miei migliori amici, e malgrado io abbia poi interrotto il pendolarismo trasferendomi qui, è ancora oggi un riferimento stabile della mia vita. Ma per il resto ho dovuto imparare a vincere ogni giorno una piccola battaglia contro l’inefficienza con una dose extra di pazienza, una bella scuola di sopravvivenza.

Ricordo però un mio compagno di viaggio, ingegnere, che nella sua metodicità annotava ogni mattina e ogni sera su un taccuino l’esatto numero di minuti di ritardo portati dal treno su cui si trovava. Aveva scelto di non trasferirsi mai a Milano e di continuare a viaggiare ogni giorno per il resto della sua vita professionale. Con un obiettivo: presentare il conto alle Ferrovie dello Stato, una volta in pensione, per riavere indietro tutta quella parte sostanziosa della sua esistenza gettata dal finestrino.