non te ne compro un altro

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Per la prima volta dal dopoguerra ecco una generazione che vive peggio delle precedenti. Dietro ci sono quelli che hanno occupato tutti posti creati dalla modernità, davanti quelli senza futuro ma che almeno hanno il tempo e la gioventù dalla loro parte, nuove tecnologie per vivere più facilmente, i soldi dei loro genitori (che sono quelli dietro) e benefit come viaggi in aereo costosi quanto una pizza e una birra di cui fare man bassa in tutto il tempo libero che gli rimane visto che di lavoro non ce n’è. E nel mezzo questa generazione di sfortunati, intenti a guardare il palloncino che gli era stato messo in mano come premio per abitare il presente sgombro da crucci e che al primo colpo di vento è volato via, nemmeno il tempo di riuscire ad assicurare il cordino al polso che già era perduto, e non so che senso abbia stare fermi qui a seguirlo mentre si fa sempre più piccolo e aspettare che sparisca nel grigio delle nuvole su.

un altro posto

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I colleghi che poi diventano ex, per loro o altrui volontà, quando li incontri sanno di fresco e non di stantio come quelli che ancora lavorano con te, che hanno il sedere e la schiena a forma degli arredi del tuo ufficio, i riflessi dei colori della intranet sulla faccia e sui capelli, persino il puzzo delle lavorazioni che seguite insieme sulle dita e sugli abiti invernali. I colleghi che sono diventati ex li baci sulla guancia che è bella fresca e non perché fuori fa freddo, ma perché nei mesi in cui non li hai più visti sono rinati in un’altra agenzia, si sono ricostruiti una vita. L’entusiasmo – che può essere di facciata, sia chiaro, ho preso una decisione importante e me la sto facendo piacere – sembra fatto di goccioline vaporizzate sulla pelle.

O meglio, i colleghi che poi diventano ex sembrano automobili appena uscite da una riverniciatura, fuori sono proprio belle e scintillanti, chissà se c’è stato bisogno anche di qualche intervento di manutenzione, una controllatina ai freni, o la cinghia addirittura per chi è oltre i centoventimila chilometri. Hanno a loro volta nuovi colleghi, si incazzano con nuovi responsabili, ma si sa che dall’altra parte, quella che oggi l’ex-collega rappresenta, è tutto diverso, è la novità, è lui/lei a stare sotto il riflettore. L’argomento di cui parlare. La vetrina.

Perché io cosa potrei dirti se non cose che sai già. C’è quella che ha preso il tuo posto, sì è simpatica ma devo dirti per forza mai come te, altrimenti che ex collega sarei. Se ci rivediamo a pranzo è perché sono stato tuo complice dei tuoi piani di fuga, l’evasione premeditata con la notizia di sottobanco sugli annunci visti in giro, qualcuno te l’ho anche inoltrato io quando ho saputo che eri stufa. Poi il segreto del colloquio, le ore di permesso e l’esito che hai condiviso prima con me e poi con tutti. E mentre mi racconti capisco perché i colleghi non sono amici, o meglio lo sono ma è un po’ diverso perché quello che ci accomuna è la busta paga o i suoi surrogati, non ci siamo scelti, non ci siamo conosciuti volontariamente. Ciò non significa che non fossimo legati, le pause pranzo e la macchinetta del caffè, le lacrime nei momenti difficili, sì ci sono state anche quelle.

Ma non parliamo più del passato dai. Sicuramente lì è tutto diverso, ci sono le scrivanie e il tavolo della sala riunioni in tinta con i colori dei muri che sono in tinta con il brand aziendale, tutto sa di anguria. Così quando entri la mattina è come tuffarsi in un frappè di lavoro, sputi qualche nocciolo e ti rimbocchi le maniche, e forse è questo il profumo nuovo che hai. Sai di quel brand lì, quello che ti ha fatto un bel contratto a progetto, spero per te sia un profumo di quelli che non vanno più via.

in bilico

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Sono usciti tutti insieme, in pausa pranzo. Una decina, a esagerare non più di ottomila euro al mese netti in tutto e nessun contratto più lungimirante dell’inverno prossimo, una buona metà con accenti del centro e del sud, tra i venticinque e i trent’anni, vestiti nel modo fintamente trasandato in cui ci vestiamo tutti noi. La busta di tabacco che spunta dai pantaloni, le tasche sotto il culo, all star colorate ed eccezionalmente un paio di birkenstock, t-shirt, tagli di capelli che usavano quando facevo il liceo io, ma ora mescolati a barbe di qualche giorno e innesti giustamente contemporanei, e che diamine, sono passati trent’anni e in trent’anni qualcosa sarà rimasto. La collega più intraprendente ha buttato lì l’idea di andare tutti insieme a mangiare in quel posto carino che ha visto l’altro giorno, ma non è ancora praticissima della zona e quindi ha paura di non trovarlo. Non vuole prendersi la responsabilità di far sprecare il tempo della pausa pranzo al resto della compagnia. Ride e scuote il ciuffo bicolore, non importa se non lo troviamo, al limite se si fa tardi va bene il primo bar che incontriamo e ci infiliamo dentro. Mi sembra che sia in questa direzione. Siamo usciti dal portone insieme, anche io mangio a quell’ora, fuori c’è un po’ d’aria, mi arriva in faccia il fumo delle loro sigarette. In questa estate che non sembra nemmeno quasi più estate e dovete ancora fare le ferie, penso chissà come sarà agosto, chissà se avete prenotato, se l’agenzia in cui lavorate chiude o fate i turni, tornate a casa o siete riusciti a organizzarvi un viaggio, che tempo troverete. O no, mi direte, i soldi sono pochi, chissà poi se ci prolungano il contratto a progetto, meglio stare schisci. E se avete trovato il bar tavola calda e fredda dove la vostra guida oggi ha insistito affinché andaste, a pranzo magari avrete parlato di questo, chiedo io. O forse no, mi direte, ormai la precarietà è un dato di fatto, ci siamo cresciuti, abbiamo imparato a convivere, non ci facciamo più caso, è una parte di noi, è la quotidianità, è la notte e il concerto e la colazione e il finesettimana. La precarietà è un’amica, anzi, è una collega, viene pure a pranzo con noi, siede a tavola e ordina la sua piadina e l’acqua a temperatura ambiente e il marocchino per chiudere. Poi torniamo tutti insieme in ufficio, che la pausa pranzo sta per finire, carino il posto in cui ci hai portato, sì si spende poco e non è male la qualità. Sì, risponde la precarietà, davvero, mi fai rollare una sigaretta con il tuo tabacco?