che razza di gente

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Nel mio quartiere non si sente più una parola di italiano ed è un peccato, perché fino a qualche mese fa era l’ultimo baluardo contro l’assalto alla metropoli e si viveva bene. La nonna di Elena quando esce la domenica mattina presto per andare a messa si sente a disagio perché c’è ben poca gente in giro e ha l’impressione che gli stranieri che ciondolano davanti ai loro ritrovi non siano mattinieri ma debbano ancora coricarsi e lei, sola con la sua borsetta, un po’ di paura ce l’ha. Resta il fatto che nulla metta a disagio come sentirsi in minoranza tra gente di altri paesi e non capire una parola. Seguendo il trend delle aree periferiche, anche qui gli svedesi pian piano si sono comprati la maggior parte degli esercizi commerciali e ora vendono le loro cianfrusaglie probabilmente senza pagare nemmeno una lira di tasse allo stato. D’altronde siamo i primi, noi benpensanti, a ricorrere alle loro botteghe quando ci si rompe qualcosa e vogliamo spendere meno o anche solo per buttare via un paio di euro per una cover dell’iPhone. I finlandesi hanno il monopolio dei chioschi di carne di renna arrostita che poi chissà in quei pezzi che rotolano sullo spiedo cosa c’è dentro. Norvegesi e danesi invece continuano a sfidarsi con le loro gang di ragazzini che fanno paura pure a me. Con le loro facce slavate e i loro capelli così chiari che sembrano trasparenti incutono un certo terrore e di questi tempi, con tutti questi europei del nord in giro con i coltellini svizzeri, c’è poco da stare tranquilli e l’ultimo mestiere che ti viene in mente di fare è il controllore sui mezzi. A dimostrazione però che siamo noi italiani i primi ad avere grosse responsabilità su questa invasione, spiegatemi il senso della moda che hanno i negozi di abbigliamento da un po’ di tempo a questa parte di avere sulla porta il buttafuori vichingo vestito di tutto punto che poi, con la verve che hanno nel lavorare, li voglio vedere a cogliere un taccheggiatore in flagranza di reato. Che cosa gli fanno? Gli danno il cinque fratello e gli mettono in mano una delle loro riproduzioni del bue muschiato in legno o uno di quei libretti di poeti eschimesi che non li legge nessuno?

ogni tre passi facciamo sei metri

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Se mentre ballate “I Watussi” – e lo so che almeno una volta nella vita lo avete fatto – vi fermate per un istante a riflettere sul testo, potete rendervi conto che se anche la voce di Edoardo Vianello è simpatica, festaiola e vacanziera in realtà nasconde un retrogusto poco “politically correct” derivante non tanto dal modo in cui vengono trattati certi temi legati ai problemi del terzo mondo quanto a quel modo ormai obsoleto e considerato offensivo di riferirsi verbalmente ad alcuni dei loro abitanti. Sono certo che né da parte degli autori tantomeno della metà maschile di uno dei duetti più importanti della storia della musica italiana ci fosse l’intento di suscitare polemiche o di venire percepito dai posteri come un antesignano di certe problematiche riconducibili al razzismo più o meno latente della nostra cultura da visi pallidi. L’hully-gully più celebre della storia della canzone italiana (e non dimentichiamo, anche se non c’entra, che basta uno strumento in levare più marcato per trasformare un pezzo hully-gully in un brano rock-steady) è stato composto in un momento storico che sembra distare anni luce dal punto di vista della sensibilità verso certe tematiche. Ma fino a quando io ero bambino, nessuno – se non le parti interessate – sembrava risentirsi al cospetto degli appellativi con cui venivano identificate alcune categorie umane e sociali come le persone afflitte da sindrome di Down, quelle dalla pelle scura e gli omosessuali e non solo nei discorsi da bar ma anche in contesti pubblici e istituzionali. Pensate a quanti passi in avanti – e non al ritmo dei Watussi – ha fatto la nostra civiltà e come oggi, sentendo o vedendo certi prodotti culturali d’epoca, ci sentiamo in imbarazzo. Non è di molto tempo fa l’accusa mossa contro Tin Tin di essere razzista, ricordate? A me invece è venuto in mente un film dell’85 di Marco Risi dal titolo “Colpo di fulmine” e interpretato da Jerry Calà. La storia racconta di un trentenne che si prende una cotta platonica per la figlia undicenne di un suo amico. Il tema della pellicola oggi non sarebbe più ammissibile, considerando l’attenzione che – giustamente, e lo dico da padre – rivolgiamo ai rapporti tra adulti e bambini, almeno questa è l’idea che mi sono fatto io, considerando che di questo film non ne ho mai più sentito parlare e non c’è traccia nelle programmazioni televisive. Non so se questo tipo di oscurantismo sia fuori luogo oppure no, sta di fatto che certe pratiche comportamentali di confine tra eccentricità e deviazione meglio lasciarle nell’immaginario degli inventori di storie ed evitare di pubblicarle.

ma vi giuro che quando mi abbronzo divento olivastro

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Che ridere. Un amico è convinto di aver sofferto di mal d’Africa quando era a una festa un po’ particolare, il compleanno del moroso di una sua collega che viene dal Senegal e gli amici hanno cucinato per tutti un piatto tipico a base di pesce ma il pesce probabilmente non era di prima scelta e nemmeno di seconda. Si sentiva la puzza fin da fuori l’ingresso, su per le scale, nell’androne e a ritroso fino a un punto non definito in cui l’aria non aveva vinto la sua battaglia contro i rimasugli gassosi del cibo avariato. Ma no, non si tratta di quello e spiegateglielo voi perché io in Africa non ci sono mai stato. Poi per dimostrarmi che non ha mica tutti i torti mi fa vedere le foto di quel party con le ragazze coloratissime e gli uomini invece con completi dubbi e monocromatici che chissà dove li hanno presi, nel tentativo in buona fede di essere il più elegante possibile. Io gli ribadisco il mio punto di vista, che stanno molto meglio conciati da americani anziché da camorristi, non necessariamente americani. Almeno la musica era di qualità? chiedo. Capisco di no e nel mentre mi vengono in mente le festicciole a casa di uno dei miei dj preferiti, lui era sposato con una ragazza nigeriana e c’era una nutrita componente nera e un elevato tasso di reggae e old school, là dentro, oltre a un caldo boia e alla nebbia da tutto quello che c’era di acceso. Ma inutile che glielo racconti a voce, poi lo leggerà qui, insieme a un altro esempio di difficoltà di integrazione. L’unica volta in cui sono stato a New York volevo acquistare dei vestiti, per esempio le camicie di tela a quadrettoni o i pantaloni con le tasche sulla coscia, spero comprendiate che ero ampiamente più giovane di ora e potevo permettermelo. C’era un sacco di roba che mi piaceva ma non riuscivo a trovare la taglia. Un po’ perché quel tipo di vestiti li fanno già di misure abbondanti, un po’ perché sono tutti più muscolosi di me che ho lo stesso fisico da quando facevo la terza media, e non è un plus. Mi provavo le camicie e le mettevo giù perché le spalle mi arrivavano al gomito. I pantaloni larghi, a me che non è cresciuto in gonfiore il didietro, mi facevano quell’effetto appena uscito dall’ospedale dopo un mese di degenza. Ci ho rinunciato, almeno per il versante black music, e ho ripiegato sui classici europei come le giacche di pelle strette che non ho problemi visto il torace e le magliette a righe, che un tempo ne avevo così tante e di tutte le fogge che pareva una collezione, e forse lo era pure. Poi in metropolitana, tornando verso Brooklyn, due tizi afroamericani quando mi sono seduto hanno liberato i loro posti per spostarsi altrove, e io che tifavo per gli Arrested Development un po’ ci sono rimasto male.

indovina chi viene a pranzo

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Due signore sono impegnate in una discussione sul fatto che in Italia sia sin troppo semplice distinguere un afro-americano da un africano perché qui le persone “diversamente chiare”, come le definiscono loro per aggirare l’ostacolo della correttezza lessicale ai confini con l’ipocrisia perché il modo con cui lo chiamano dentro di loro stesse traducendo quella locuzione con uno sguardo ammiccante e perfido al contempo fa un rumore più fastidioso di tutto il resto, dicevo qui ingrossano le schiere della povera gente e si riconoscono dall’abbigliamento. Cioè, ed entrano nell’argomento, li vedi per strada e vedi come sono vestiti e capisci subito che non possono essere cittadini statunitensi, turisti, studenti o manager di multinazionali in trasferta o giocatori di basket perché possono essere solo giocatori di basket, o ballerini o rapper o al massimo esponenti di quell’altra categoria, l’unico luogo comune mancante a questa lista meno appariscente senza una osservazione più approfondita. Cioè se vedi un senegalese in tuta che corre non fa jogging, non può farlo con quelle scarpe tarocche, sta semplicemente rischiando di perdere l’autobus.

L’altra, che segue fintamente interessata la dimostrazione della discutibile teoria perché muore dalla voglia di intervenire e dire la sua, sta lì con la bocca semi-aperta per fornire il suo fondamentale contributo. Lo stesso criterio vale per le altre nazionalità, dice. Prendi cinesi e giapponesi. Le cinesi si vestono con le loro cose da cinesi. Le giapponesi sono qui per fare le loro vacanze shopping, possiedono tutte l’iphone e le vedi fare le turiste messe giù in modo provocante, così sostiene il mio ragazzo, aggiunge come inciso, con le mani piene di borse di marche di moda.

I sudamericani no, con quelli non si corre questo rischio, continua la prima. prendi per esempio quelli del San Isidro Volley Club. L’altra la interrompe con un fare interrogativo, evidentemente non capisce di cosa sta parlando l’amica. Il San Isidro Volley Club è un gruppo di famiglie di sudamericani, potrebbero essere del Perù o dell’Ecuador, non li distinguo, che si riunisce ogni domenica in cui c’è bel tempo in un parco vicino a casa mia. Pranzano lì tutti insieme, saranno almeno una cinquantina tra adulti e bambini che ogni domenica di sole fanno un picnic. Poi montano due reti da pallavolo e trascorrono la giornata a giocare, finché non fa buio. Tutto il tempo. E anche loro sono persone semplici, dice proprio così. Non hanno proprio l’indole, ci sono solo loro che vogliono trascorrere i giorni di festa così, come se fosse la cosa più divertente che possono fare.

L’altra vorrebbe giungere a una conclusione, il dehors è pieno e qualcuno potrebbe ascoltare inavvertitamente la conversazione. La tua tesi però non regge, anzi non è proprio una tesi, dice. Anche gli italiani, voglio dire anche gli italiani riconosci a che ceto appartengono dalla qualiltà degli abiti che portano e dalle cose che fanno. Lo sguardo di entrambe si posa sul tavolo da due posti di fronte al loro, dove un tizio tutto trasandato, almeno per i loro standard, riporta velocemente gli occhi giù sulla sua cotoletta, visibilmente in imbarazzo.

a casa loro

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Dunque, ricapitolando, i romeni sono specializzati nei furti nelle ville e non vanno nemmeno troppo per il sottile con le donne. I rom ti tirano sotto con i SUV rubati che è un piacere e facilmente te li trovi in casa che ti portano via oggetti facili da rivendere, oro, piccola tecnologia. Mentre gli zingari ne costituiscono una variante e prendono anche i capi firmati, ma oltre a lavare vetri e chiedere elemosina, quando possono al supermercato rapiscono i bambini. Poi ci sono i nord-africani che spacciano e rubano autoradio, quando non addestrano terroristi. Gli africani invece occupano tradizionalmente il mercato (nero) della merce contraffatta, le borse di marca provenienti fresche di fabbricazione da Gomorra. I cinesi ti mettono nel piatto involtini scaduti provenienti dai container che sostano sotto il sole dei centri intermodali occupati in parte anche dai loro concittadini che, quando sopravvivono, vanno a prendere il posto e l’anagrafica dei clandestini che nel frattempo sono morti, ma raggiungono il top con l’omonimo ciarpame stipato in magazzini ubicati nelle chinatown di ogni città e cucito a mano in stabilimenti da connazionali soprattutto in età scolare, che lavorano diciotto ore al dì sotto il ricatto di strutture criminali super organizzate. Lato sfruttamento della prostituzione, il primato è sempre degli albanesi (quando non riempiono le fila in nero dell’edilizia) mentre si ha l’impressione di un calo delle nigeriane e relativi protettori. Russe e slave invece vanno a soddisfare un diverso target, più da club privée e circuiti vip e sono di difficile catalogazione. Chiudono i sudamericani, quelli più giovani, che si uniscono in bande che si menano tra di loro e non sarebbe un problema, se non che ogni tanto organizzano spedizioni di raccolta smartphone e gadget hi-tech contro i giovanissimi che aspettano di entrare in discoteca. Ecco, mi pare che la mappa sia completa. A dire il vero ci sono pure gli italiani che sono corrotti e corruttori sin nel dna e che fanno da cornice ma qui il discorso si fa lungo e articolato. Vedete, poi uno dice delle complessità che sono sempre maggiori e sempre in aumento, di come sia cambiata la società e perché noi si andava a scuola da soli già in seconda elementare mentre al giorno d’oggi li si accompagna fino in terza media, i nostri ragazzi. Dove è finito quel piccolo mondo antico in cui c’erano solo i tossici che scippavano le vecchiette e rubavano le bici in stazione?

apologia di taxismo

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Avete presente una civiltà in cui la verginità di una ragazzina viene monitorata da controlli assidui da parte dei genitori, in uno scenario in cui un intero gruppo etnico può essere tacciato come capro espiatorio di default dall’opinione pubblica per qualunque cosa tanto da poter essere accusato liberamente e spingere la controparte del sottoproletariato (e nemmeno tanto sotto e nemmeno poi proletariato) a partire in quarta, organizzato e armato, e incendiare un campo in cui è stato consentito l’accorpamento di abitazioni abusive e fatiscenti in una città dell’occidente europeo contemporaneo. In questo brodo di coltura la ragazzina la perde, la verginità, e considera meno grave denunciare un finto stupro che confessare un rapporto sessuale consenziente. E poche ore dopo il sosia di Jimmy il fenomeno, su alcuni siti definito un intellettuale, imbraccia un’arma da fuoco da telefilm americano e spara nel mucchio di venditori non autorizzati di merce contraffatta i cui proventi molto probabilmente andranno ad arricchire la mala locale e organizzata, ne uccide due e poi però si suicida, peccato. E in entrambi i casi ci sono terzi che plaudono ai gesti di violenza gratuita perché commessi contro chi gli contende il lavoro, il territorio, l’ordine, e si continua a consentire libertà di espressione a chi con la propria espressione la libertà altrui vorrebbe soffocarla. Nella stessa società ci sono corporazioni che non ne vogliono sapere di perdere privilegi e costringono intere politiche economiche a venire a patti per mantenere un monopolio anacronistico e antisociale, il lato oscuro del capitalismo, quello che non ammette la liberalizzazione per non minare i propri modelli di consumo e stili di vita. Ecco, questo scempio di buon senso e di convivenza civile accade oggi, qui, in Italia, anno domini 2011. Benvenuti a ovest.