recensioni letterarie: Catalogo Ikea 2013-2014 [attenzione spoiler, questo post contiene anticipazioni sulla trama]

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Vivere la casa è creare spazio per la vita di tutti i giorni. La nuova edizione del catalogo Ikea inizia così, introducendo il tema che è un po’ la fatica che ci portiamo appresso e che non riusciamo mai a riporre in alcun luogo perché è la vita stessa di tutti giorni a non avere nemmeno uno spazio organizzato rispondente a un modello svedese. Le prime esperienze abitative, in questa nuova narrazione dell’impiallacciato, anticipano subito una trama che si sviluppa in un unico piano monodimensionale. Ambienti rappresentati solo per un lato che sembra infinito, popolato di bimbi che giocano o che guardano la tv mentre gli adulti riposano il sonno delle grandi responsabilità e delle scelte, certi che nessuno corre pericolo se lo show room della modernità è uno spettacolo a porte chiuse ma sempre ben allestito.

Dietro a fondali e paratie che dosano quell’ingrediente iper-reale che sapienti architetti stemperano lungo una visione platonica delle idee domestiche, da questa quinta volutamente minimale fanno capolino stampe con gatti giganteschi e bici posteggiate a cazzo perché quello che si ha per le mani è un catalogo, attenzione. Una sintesi delle possibilità di ravvisare il proprio sé e liberarlo dalla dipendenza del tasso di grancasa di cui siamo permeati, come metafora della resa e del compromesso. Ma dove si nascondono i protagonisti di questa nuova avventura, sfuggiti al mondo della convenienza? Essi sono solo comparse in stanze stipate di cose in istantanee fuori fuoco a ricordarci che una qualsiasi superficie sguarnita richiama una riflessione. Chi siamo? Saremo in grado di montarlo? Perché la birra Ikea costa quattro euro?

E ancora, cosa è un vuoto? Una porzione di essenza in meno, un oggetto in esposizione che qualcuno ha sottratto ignaro che lì non si deve toccare nulla e occorre invece attendere la discesa al piano inferiore, là sotto dove man mano che si avvicinano le casse ogni acquirente lascia dietro di sé sempre più copiose tracce della serenità, sogni di socialismo reale del benessere applicato all’individualità in quella allegoria della casa, che è la casa di tutti e che a tutti ha infuso una speranza di luci, colori, jingle, dispositivi elettronici non funzionanti ma a prova di italiano, libri in brossura di autori dai nomi impronunciabili.

E anche nella nuova edizione le novità sono sempre molteplici, in questo spaccato di società scandinava che trasuda da carte da parati, tendaggi mitteleuropei e stampe industriali a finto rischio di omologazione. Volti nuovi da idealizzare – prima che i nostri figli non ci facciano chiamare dalla zona giochi con il sangue dal naso – mescolati ai protagonisti ormai costanti della nostra vita, il Billy come il Besta o l’Expedit che un po’ come i nostri migliori amici o le persone che davvero ci stanno a cuore sembrano condurci anche questa volta verso l’epilogo. Che però non è un epilogo perché il catalogo non ha una fine ma un perpetuo ritorno alla partenza nel labirinto dei passaggi non segnalati tra i reparti, qui reso in forma di elenco di tutti i prodotti in ordine alfabetico. Una sorta di meta-titoli di coda preceduta da un tripudio tanto multietnico quanto utopico con colte citazioni nell’appendice gastronomica a tema.

Ma non c’è da sorprendersi, anzi sì. Sorprendiamoci. Un giudizio ampiamente positivo per questo nuovo capitolo di una saga che da anni porta un po’ di Stoccolma nel nostro sdraiarci nell’ozio, nel vivere sogni agitati della settimana lavorativa, mentre ci sforziamo per andare di corpo o come scenografia per una cena romantica. Il nuovo catalogo Ikea si conferma così un altro pezzo della storia delle nostre vite, quella pennellata di giallo e blu che ci fa sognare che anche se siamo in milioni, ogni domenica pomeriggio, a riempirci il borsone di plastica di cose e matite e fogli a righe e metri di carta che chissà se useremo mai. In fondo c’è qualcuno lassù che ci ama davvero e che è prima di tutto è un architetto d’interni. Precario, ma questa è solo una boutade.

in viaggio con papà e mamma

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Le grandi domande. Dopo Hereafter,  “c’è vita dopo la morte”, ecco un altro film a cinque stelle, Away we go di Sam Mendes, scritto da Dave Eggers. Qui la grande domanda è “c’è coppia dopo il concepimento”? Due over-30 vanno alla ricerca del posto ideale, tra alcune opzioni in USA e Canada, in cui metter le radici e far nascere la loro figlia. Un coppia “perfetta”: Verona e Bart sono soprendentemente normali ma intelligenti, giovani adulti all’americana (non adolescenti irrisolti all’italiana) e middle-class. I due, non sposati e che probabilmente mai lo saranno (Bart le fa almeno 4 proposte di matrimonio in 90′), una volta assodata la  gravidanza fanno convergere il loro baricentro, singolo e comune, verso quella vita che sta crescendo nella pancia di lei (anzi, di loro) e partono. Ogni tappa del loro viaggio coincide con un’occasione di incontro con una diversa coppia di amici, parenti o ex-colleghi. Incontri che mettono a nudo problemi tipici della coppia quando diventa famiglia: i genitori di lui, americani di mezza età che si danno alla fuga nel momento in cui, da nonni, potrebbero essere ancora utili. Quindi la coppia che non ha mai modificato il proprio stile di vita, lasciando allo sbando i due figli preadolescenti. La coppia new age e fricchettona che mette al bando la tecnologia e fa l’amore con i figli nel letto. La famiglia numerosa di soli figli adottivi e la incompletezza in cui si sono risolti i genitori che non sono riusciti ad averne uno proprio. La coppia che si separa e la consapevolezza del padre che, rimasto con la figlia piccola, si rammarica di dover far crescere una bambina che sarà sempre marchiata figlia di divorziati. Verona e Bart man mano capitalizzano ogni singola esperienza tra le cose da non fare e provano a dare risposte alle domande che ogni stereotipo, dipinto sempre con ironia e intelligenza, fa sorgere. Il viaggio si chiude così nella destinazione naturale, quando Verona e Burt hanno consolidato la consapevolezza di vivere una fase che  sarà la più densa della loro vita. Da sottolineare il cameo dell’aeroporto e quello dell’incontro con la iper-mamma con figlio saccente.

p.s. leggo che si tratta di un film low-budget
p.s. la colonna sonora comprende Golden Brown degli Stranglers, così sembra dai titoli di coda, ma non ricordo di averla senita. Mi date un aiutino?

aldiqua

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La vita, o l’esistenza di qualche cosa dopo la morte è un tema così banale che rende ogni tentativo di narrazione creativa superfluo. Non per Clint Eastwood. Hereafter, visto ieri, è un gioiello cinematografico, un film da 5 stelle che però, come scrive Curzio Maltese su Repubblica, non è solo un bel film. Il dubbio laico che si insinua dopo la visione non è tanto se esista o meno l’infinito spazio luminoso in cui si intravedono miliardi di persone quando i nostri sistemi vitali vanno in stand-by, per un istante, quindi riaccesi dopo l’esperienza del tunnel con luce bianca eccetera eccetera. La componente sovrannaturale passa in secondo piano, il vero miracolo è la nostra vita, già di per sé, ciò che si attraversa e in cui ci si cimenta. E raggiungere il traguardo non ha importanza. I tre protagonisti della storia convergono infatti in una esperienza umana, che è quella dello stabilire un contatto con una dimensione ancora fisica, la morte o la vita, si piò chiamare in entrambi i modi, che in sé comprende anche il dopo. Ma il contatto è tra corpi, anima inclusa. Collisioni che generano reazioni a catena, nella storia e nello spettatore. Aldilà siamo altrettanti che aldiqua. Che ci sia poi una cooperativa autogestita o una corporation con CEO e consiglio di amministrazione poco importa. Se il sistema si arresta del tutto, o, peggio, si tratta solo di una formattazione dell’hard disk, non ce ne accorgeremo.