i migliori 10 pezzi reggae della (mia) storia

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Non toccatemi il reggae, è il genere musicale che più si sentiva in giro quando ero ragazzino-ino-ino, ai tempi delle medie per dire, e posso dire che ci sono cresciuto dentro. Mi facevo le cassettine con il dorso colorato in verde, giallo e rosso e i titoli degli album registrati scritti con il pennarello nero. Ecco quindi i dieci pezzi in levare – Bob Marley a parte, che è fuori gara – che mi piacciono di più.

LKJFite dem back

Forces of victory credo sia il miglior album di reggae nero inglese, d’altronde Linton Kwesi Johnson, il poeta del reggae, ha pubblicato un serie di dischi che sarebbero da citare tutti, a partire dal successivo Bass Culture che, tra l’altro, ha una delle copertine più belle della storia della musica. Era il 1979 e c’era gente che si faceva di brutto, nelle Renault 4 i sedili si impregnavano di odore di erba senza possibilità di ritorno e insomma, ascoltare sta roba ti metteva in cattiva luce un po’ con tutti, grandi e piccini.


Toots and the Maytals54 46 Thats my number

Questo è invece un inno, lo suonano e lo cantano cani e porci, e anche la produzione di Toots Hibbert sarebbe da citare in toto. Mi limito a questo e a ricordare Pressure Drop, che chissà quante volte l’avete sentita prima, durante e dopo i concerti di gruppi punk.


Burning SpearSlavery Days

Anche con Burning Spear si va nel profondo delle radici giamaicane. Io gli sono affezionato perché in quegli anni venne in concerto nella mia piccola città di provincia ma, come dice Max Collini per un’altra storia, “noi al concerto non potremo mai andare. A 13 anni da queste parti ancora non si usa e poi costa molti più soldi di quanti potremmo mai averne”. Il riff di fiati è indimenticabile e ti resta appiccicato per tutto il giorno, o anche per tutta la vita.


Max RomeoChase the devil

Si, lo so che lo sapete che i Prodigy l’hanno campionata da qui, e chissà quante volte l’avete dovuto spiegare a chi invece era convinto del contrario. Si tratta di uno dei ritornelli più celebri del reggae, ne hanno fatto persino una cover i Subsonica e l’ho sentita suonare in concerto anche dagli Almamegretta. Di Romeo è molto bella anche One step forward, presente nello stesso album War ina Babylon pubblicato nel 76.


Eek-a-Mouse Wa-Do-Dem

Questa mi piace perché è un pezzo semplice, c’è quel temino con l’organetto e amo l’andamento cantilenante della voce, che poi è proprio uno stile a sé che si chiama singjay. Se mi sbaglio corigetemi.


Dr AlimantadoPoison Flour

Un altro classico del reggae che ha una storia di rifacimenti e di campionamenti a elevata complessità. All’origine c’era Man Next Door dei Paragons che poi è stata usata come base da Dr Alimantado per questa Poison Flour per poi essere campionata successivamente in quel capolavoro che è Man Next Door dei Massive Attack, i quali converrete con me che, scevri di tutte le mandate di elettronica che mettono sui pezzi, potrebbero essere tranquillamente un gruppo roots reggae. Nello stesso pezzo dei Massive Attack c’è pure il campionamento di 10.15 Saturday Night dei Cure, con quel drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip drip che mai avremmo pensato di sentire mixato a un brano in levare. Ho sudato per mettere insieme queste informazioni, spero che la ricostruzione vi sia utile. Magari qui è anche spiegato meglio.


Dawn PennNo, No, No

Immancabile in qualunque tracklist, vorrei che comunque prima di alzare la mano per precipitarvi a dire quale versione o cover avete a casa ascoltaste il super-blues da cui il successone di Dawn Penn deriva. Poi ne parliamo.


Junior MurvinPolice & Thieves

Troppi di voi sottovalutano i legami tra punk (ma anche post-punk) e reggae, come se in UK alla fine degli anni 70 non fosse successo niente. Le dicotomie tra musica bianca e musica nera sono state tutte inventate nel resto d’Europa e negli anni successivi, dimenticando che prima delle esibizioni dei gruppi punk il reggae era la migliore sostanza di riscaldamento. Dico questo perché Police & Thieves è diventata poi una traccia dell’album di esordio dei Clash.


The GladiatorsStick A Bush

Ho quasi finito, eh. Un gruppo che si ascoltava molto era anche questo, giamaicani fino all’osso e molto roots. Mi piaceva questo brano per l’originalità del ritmo e quel synth sotto piuttosto anomalo per un contesto reggae.


UB40Tyler

Se Forces of victory di LKJ è il miglior album di reggae nero inglese, Signing off è il miglior album di reggae bianco inglese. Prima di diventare un gruppo da Top of the pops, gli UB40 erano band molto sperimentale e originale nel saper interpretare le diverse anime dei giamaicani a Londra e quelle della musica inglese di fine decennio (i 70). Tutto quell’album uscito nel 1980 è spettacolare, come il successivo Present Arms e il disco In Dub che raccoglie le versioni strumentali dei loro primi brani. Ho scelto questo perché apre il lato A del disco d’esordio ed è da intendersi a puro scopo esemplificativo.

il turismo musicale, a partire dall’Isola di Wight

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L’unico vantaggio è che un viaggio a Seattle è impegnativo, soprattutto economicamente, e se consideri che ci vai per un avvenimento di cui si celebra il ventennale in questi giorni devi proprio avere dei soldi da buttare via. Voglio dire, una vacanza negli Stati Uniti resta comunque un’esperienza fuori dal comune, ma come fai ad andare da mamma e papà a chiedergli i soldi – e quanti soldi – per vedere l’urna cineraria di Kurt Cobain, ammesso che sia a Seattle, ammesso che sia visibile in qualche luogo pubblico, ammesso che sia stato cremato, ammesso che sia di culto come la tomba di Jim Morrison al Pére-Lachaise.

Vi chiederete perché consideri un vantaggio tutto ciò. Questo tipo di turismo che non saprei come altro definirlo se non rock o giovanilistico è una cosa un po’ così, un retaggio che ci portiamo dietro da decenni. A partire da Londra che è stata meta di diverse generazioni, ma lì il problema è Londra in sé che se non è il centro del mondo ci si avvicina abbastanza. Ci sono andati e ci si sono trasferiti beat, mod, hippy, capelloni, punk, new wave e gotici, neo-psichedelici e technofili fino all’arrivo dei russi che con la musica non hanno nulla da spartire ma hanno fatto piazza pulita con i loro milioni di miliardi.

Poi Amsterdam, città di cui la musica è appunto un di cui ma ditemi voi chi non c’è mai andato per divertirsi un po’, come quel mio amico che ha scelto proprio la città olandese come destinazione del suo primo volo in aereo e per affrontare al meglio il battesimo dell’aria si è calato non so quale acido prima dell’imbarco. In Svizzera ci andavano invece quelli che con le pasticche tiravano fino all’alba del giorno successivo al giorno dopo dell’inizio del rave party, chissà se è ancora così. Berlino aveva il fascino del sentirsi divisi da un muro, crollato il quale è subentrato il fascino del sentirsi divisi dal resto del mondo, tanto è avanti. E così via.

Ma in questo calderone delle peregrinazioni musicali tuttavia non mancavano i rischi, c’erano culture che comunque non amavano l’essere considerate fenomeni da baraccone, e come dargli torto. I meno fortunati da questo punto di vista erano i Rasta di casa nostra, che rispetto ai giamaicani avevano alcune caratteristiche ampiamente dicotomiche. Poi sapete com’è, in certi contesti di indigenza ci mancano solo quelli che spendono per sentirsi vicini alla miseria, che è un controsenso. Aggiungici poi il colore della pelle palesemente diverso, magari come sfondo di capigliature artificiosamente somiglianti a quelle originali, e l’equivoco tra blasfemia e partecipazione sentita ai valori comuni è facile da manifestarsi. Un gruppo di amici che conosco ha rischiato di brutto in qualche periferia di Kingston, è bastato un gesto poco consono a un rito locale compiuto in totale ingenuità a scatenare una sommossa popolare nei loro confronti, e se la sono cavata solo per le condizioni fisiche che gli hanno permesso di scappare più veloci degli inseguitori, che meno male che non erano della stessa tempra di Bolt.

Ma il culto dei disagi altrui che molti fraintendono per liberazione da qualcosa di occidentale che invece i non occidentali pagherebbero per avere, se avessero abbastanza soldi per farlo, non sempre è inteso come solidarietà. Questo anche nella civile Europa, e se volete le prove vi metto in contatto con uno che, nell’underground londinese, si è preso una testata e un fuck off fucking italian o qualcosa del genere da un tizio con la maglietta dei Crass perché all’anarchia, in fondo, noi di queste parti non siamo tanto avvezzi.

pezzi reggae a loro insaputa

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E se vi dicessi che uno dei miei gruppi reggae preferiti sono i Bauhaus? Mi prendereste per matto, vero? Sì, in effetti un’affermazione di questa portata suona più come una provocazione, considerando che la band di Peter Murphy e la musica giamaicana sono piuttosto agli antipodi, almeno per temperatura. Ma io sono uno uso a vedere cose dove non ci sono specialmente in due ambiti: le facce delle persone, trovo somiglianze molto spesso non riconosciute dai più, e colgo il reggae da tutte le parti.

Ma facciamo un passo indietro. Il vostro problema è che non dovreste classificare il reggae solo in presenza di uno strumento in levare. Pur essendo questo l’elemento che viene riconosciuto universalmente come distintivo per il genere, il fatto che per fare un pezzo reggae occorra mettere una ritmica in levare e, viceversa, il fatto che un pezzo che ha una ritmica in levare è un pezzo reggae, è un mito da sfatare. Per dire, la polka ha la chitarra in levare veloce, ma non è che si balla come lo ska. Magari sarebbe divertente da provare in una di quelle feste di paese estive in cui il liscio trionfa sul bene e sul male, ma questo è un altro discorso. E la letteratura pop e rock di casi analoghi è piena. Invece non è difficile considerare reggae canzoni che non hanno uno strumento smaccatamente in levare ma sono caratterizzate da linee di basso e pattern di batteria che, senza nemmeno un po’ di fantasia, potrebbero fungere da base per qualcosa di veramente reggae.

In UK, per esempio, il reggae alla fine degli anni 70 si era infiltrato un po’ ovunque nel rock, nel punk e in certa new wave. Quello dei Bauhaus, però, costituisce un paradosso. Voglio dire, provate a mettere un giamaicano sotto un palco dove c’è uno che sembra un pipistrello travestito da David Bowie che parla di cose deprimenti. Va bene che il reggae è parte della black music, ma dal black al dark il divario è sotto gli occhi di tutti, si tratta di materia scura ma per altri principi. Ma se così fosse, cosa ci facevano i Tv on the Radio sul palco proprio con Peter Murphy e addirittura quella sagoma solare di Trent Reznor a cantare un pezzo che è tutt’altro che un inno alla gioia di vivere, ovvero Bela Lugosi’s Dead?

Sì, ammetto che i Tv on the Radio sono dei musicisti black anomali, ma tant’è. Comunque questo mi consente di arrivare al punto. Il brano in questione, uno dei più noti dei Bauhaus, ha un incedere molto reggae. La batteria con la cassa dritta senza il colpo di rullante a raddoppiarne la portata, i colpi sul bordo molto utilizzati dai batteristi reggae, e il giro di basso, soprattutto. Il parallelo è facilitato anche dal fatto che ogni tanto a Daniel Ash una pennata in levare sulla chitarra gli scappa. Quindi qui, parlare di reggae, è fin troppo semplice.

Il pezzo invece a cui mi riferisco è la traccia uno di “Burning from the inside”, il quarto album in studio della band britannica pubblicato nel 1983. Il disco si apre con “She’s in parties”, la cui attitudine reggae è talmente eclatante che potete giudicarla da voi. Anzi, se andate a a 3:40 di questa versione extended play, c’è pure una parte dub che non stonerebbe come base per del sano toasting.

verde, giallo e rosso

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Questa delizia di merchandising fai da te che farei qualunque cosa per averla mi ha fatto venire in mente quella volta in cui a tredici anni e rotti, nel pieno della popolarità del reggae e della cultura rasta diffusa tra i giovani di allora – e quando parlo di cultura rasta mi riferisco anche a quella cosa lì che pensate tutti – soffrivo le pene dell’inferno perché alcuni dei miei amici avevano i fratelli grandi che già viaggiavano per concerti nelle grandi città e portavano come souvenir ai fratelli più piccoli il copricapo in lana a strisce verde, giallo e rossa, l’inconfondibile effigie dell’appartenenza al movimento di quelli con il ritmo in levare. Ed erano cappellini bellissimi fatti a cupola perfetta, che sulle teste ricce stavano da dio se poi i boccoli facevano capolino sulla fronte, sulle orecchie e sulla nuca. Ma nelle cittadine di provincia come la mia non c’era speranza di trovare quelle delizie di lana colorata, così, mosso dall’invidia e dalla disperazione, puntai tutto, pur di non sfigurare con gli amici, sulle abilità sartoriali di mia nonna che passava le serate in poltrona a sferruzzare triangoli di lana colorata da cucire poi tutti insieme in coperte patchwork che ne ha fatte talmente tante che avremmo potuto risparmiare il gelo a un’intera popolazione di terremotati, forse ai tempi c’era stato quello del Friuli. Mia nonna accolse di buon grado la richiesta del suo nipotino preferito, le mostrai il modello da copiare e andammo persino insieme a scegliere la giusta gradazione dei colori, che soprattutto sul verde e sul rosso era facile sbagliare. Dopo qualche giorno mi presentò l’opera fatta e finita, e lì capii il perché mia nonna si ostinasse a realizzare triangoli. Non era molto ferrata sulle linee curve, e il berrettino rasta sembrava più il copricapo di una ipotetica rappresentativa di sci alpino giamaicana, questo molto prima di Cool Runnings. Il cappello faceva un difetto in cima ergendosi con una punta sulla testa, una cosa tipo quei berretti che oggi sono in auge presso i fricchettoni ma ai tempi li avevano solo gli sfigati o i ricchi che si potevano permettere la settimana bianca. Non ebbi però il coraggio di affrontare il problema con mia nonna, che intanto aveva ripreso i suoi triangoli felice di aver interrotto la serie con il mio diversivo, che poi non lo è stato per nulla vista la forma del risultato. Chissà se le avessi chiesto un maglione che cosa sarebbe riuscita a produrre.

il levare è un valore aggiunto

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Voi che ascoltate LE rime sparse E il suono (prof perdonami l’uso improprio dei rerum vulgarium fragmenta) e non avete mai tenuto in mano uno strumento musicale in vita vostra se non per un’esecuzione corale per flauto dolce di “Fra’ Martino”, volta al conseguimento della sufficienza in musica in seconda media. A voi, pronti a sputare sentenze privi e privati dell’esperienza empirica dell’esercitare l’esecuzione in gruppo di canzoni popolari. Voi, vi diffido dal pronunziare qualsiasi giudizio sulla presunta pallosità di essere uno strumentista generico e militare in un gruppo dedito ai generi originari della Giamaica, reggae-rock steady-ska-dub. Perché non esiste luogo più comune da sfatare. Tutt’altro.

La premessa d’obbligo è che per suonare un genere qualunque devi esserne convinto, chiaro. E la musica in levare, dai più ritenuta monotona, necessita di motivazioni forti e di dedizione, questo sì, ma nè più nè meno di altri generi affini per essere costruiti su canoni specifici, per esempio il blues o la musica irlandese. Quindi, se vuoi suonare per soldi o per mostrare a te stesso e ad altri la tua raffinatezza o i tuoi virtuosismi, no way. Fai dell’altro, fatti crescere i capelli (se sei ancora in tempo) e metti su una tribute band di Yngwie Malmsteen. Il reggae e i suoi derivati sono finalizzati esclusivamente alla musica d’insieme e al suo ascolto anche dall’interno, l’abilità sta nell’inserirsi e nell’astenersi nell’esecuzione in modo da alternare i volumi di suono, è tutto un metti e leva, leva e metti. I tempi di batteria reggae sono tutt’altro che facili, non c’è metodo De Piscopo che tenga, suonare lento e con la cassa sul due e sul quattro non è nella nostra cultura. E sicuramente, per un profano, chitarristi e tastieristi devono farsi due balle così a ripetere in loop la stessa ritmica per tutta la durata del pezzo. Per non parlare del basso, la cui linea scorre immutata a bordone di  tutto. Bisogna essere amanti del genere, ripeto.

Ma questo metro di giudizio non spiega la qualità di alcuni brani storici, per non parlare dell’evoluzione del reggae, gli ibridi che con il levare sono nati e ciò che l’elettronica ha permesso, dando vita a un universo di sottogeneri. E poi, se siete musicisti, vi impongono un pezzo reggae e proprio non ce la fate, sono sicuro che qualcuno del gruppo ha con sé qualcosa che può aiutarvi a entrare in sintonia con le vibrazioni rasta. Che, come dice il profeta, sono positive.