A me il salone, il fuori salone, la design week, gli interni e gli esterni e tutto il collaterale a cui potete partecipare se siete a Milano in questo periodo fa venire in mente sempre un sacco di cose, a partire dalle peregrinazioni in lungo e in largo per la cittĆ quando ritenevo lāiniziativa una cosa fighissima e mi aggiungevo al novero dei postulanti degli aperitivi super-rinforzati a scrocco in questo o quellāaltro spazio della metropoli. Che poi mica ĆØ vero, succedeva che arrivavo lƬ e il meglio – la pasta fredda, i panini imbottiti e le focaccine ripiene – era giĆ finito, cosƬ da rimanere investito della responsabilitĆ di pucciare le mani inzaccherate di materia urbana e emanazioni particellari dei mezzi pubblici nelle ciotole comuni di patatine da discount, salatini della nonna e le immancabili arachidi che uno spera sempre che la consuetudine del lavarsi dopo aver retto il proprio membro per la minzione sia tuttāora in auge. Nel dubbio si puĆ² anche rinunciare, ma al terzo o quarto spumantino cadono diversi freni inibitori, compresi quelli dellāigiene.
Ma questa trovata dellāindoor versus outdoor, che ĆØ poi lo specifico di quello che ĆØ un vero e proprio mood piĆ¹ che un evento, nel senso che ci si sente “salone del mobile”, ci si sente “fuori salone” e cosƬ via, genera metafore che sono antiche tanto quanto il vecchio quartiere fieristico soprattutto in una cittĆ che si proietta verso unāesposizione mondiale cosƬ incombente ma con tutte le contraddizioni che un periodo storico come questo, in cui i soldi sono finiti o quasi, genera.
Se prendete per esempio il passante ferroviario sulla direttrice Milano – Saronno, che ĆØ la linea che mi vede pendolante quotidiano per una ventina di minuti ogni giorno, tra casa e ufficio, in prossimitĆ della fermata di Quarto Oggiaro potete osservare alla vostra sinistra una sorta di salotto, anzi, di salone in stile rom o nomade, in un ampio prato verde in cui le speranze, per dirla alla Gianni Morandi, non crescono piĆ¹ da tempo.
Oltre ai tipici rifiuti dāordinanza, un classicoĀ degli allestimenti living di questa cultura, la comunitĆ che ha arredato lāinnovativo spazio lo ha anche dotato di un paio di divani che tradiscono un riconoscibilissimo design svedese moderno, in tessuto e colori primaverili, che a giudicare dalla condizione sono oggetto di trasferimento autorizzato di beni da una discarica. Ce ne sono uno rosso e uno arancio, un accostamento che riflette i parametri estetici che si possono ritrovare anche nellāabbigliamento casual di chi occupa questa sorta di casa allāaperto, un vero e proprio cielo in una stanza con pareti che non sono alberi ma piloni della strada sopraelevata che passa lƬ a fianco.
La cosa curiosa ĆØ che allāimbrunire, proprio come la massa affamata di cultori della partecipazione affolla le numerose installazioni estemporanee degli ex quartieri popolari oggi diventati di culto grazie allāennesima gentrificazione, qui questa specie di Spazio Kusturica pullula di vitalitĆ con adulti, piccini che scorrazzano spensierati, cani, fuochi accesi e – se la memoria non māinganna ma potrebbe trattarsi di una visione indotta dal pregiudizio – violini, fisarmoniche e chitarre. Se cosƬ ĆØ, non manca il sottofondo musicale.
Ma ho pensato che forse ĆØ solo un spot pubblicitario per la vita semplice allāaperto senza le costrizioni del presenzialismo, della moda occidentale e del calendario mandatory – si dice cosƬ, avete poco da ridere – a cui ĆØ legatoĀ chi fa lavori come il mio ed ĆØ obbligatoĀ a pascolare laddove si radunanoĀ quei pochi spiccioli rimasti con l’obiettivo di raccoglierne la parte spettante. E appena il mio treno passa, i protagonisti di questa specie di piece d’avanguardiaĀ tornano al loroĀ posto. I bambini si rimettono sui libri di scuola a finire i compiti per lāindomani, i nonni ripongono gli strumenti musicali da strada presi a nolo nelle custodie e tornano a preparare la minestra e a pelare le patate, gli adulti indossano pullover e pantaloni stiratiĀ e tutti rientrano nelle loro case di proprietĆ , rigorosamente in muratura.