non sono mai stato così sicuro

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Molta della fuffa che vi arriva nelle caselle di posta elettronica, se siete di manica larga nel lasciare in giro il vostro indirizzo oppure non vi fate troppi problemi a dare il vostro consenso per ricevere materiale promozionale, ha dietro sistemi sistemi automatici che vomitano spazzatura virtuale a pioggia nell’Internet che hanno, a loro volta, alle spalle persone come me e voi che comunque impartiscono ordini di questo tipo alle macchine e che hanno a loro volta dietro aziende che li pagano per farlo. Si tratta di un lavoro che ha ennemila diciture ma tutte riconducibili alla peste del duemila che è il Digital Marketing, settore di cui orgogliosamente faccio parte.

Da qualche tempo, però, visto che si sta diffondendo finalmente la consapevolezza che dall’Internet non si ricava il becco di un quattrino – essendo l’Internet la morte sua degli sfaccendati e gente al verde – il Digital Marketing che nasce (cosa che dicevo prima) come sistema automatizzato cerca di darsi un volto umano in modo da 1. evitare di essere indirizzato automaticamente nella posta indesiderata 2. attirare gli ultimi allocchi che ancora credono che sull’Internet ci sia gente disinteressata alle nostre carte di credito. Ecco perché oggi è tutta una gara a mettersi in mostra azzimati e tirati a lucido con lo storytelling, consigli apparentemente utili e contenuti in generale che prendono molto alla larga il vero scopo del Digital Marketing, ovvero convincerti a digitare il tuo numero di carta di credito nello spazio predisposto. Un intero sistema che ha sicuramente un aspetto nobile, quello di dare lavoro a gente come me, e che induce il mercato a pubblicare articoli sulla rana e la fava per risultare più credibili. Nice try, come si dice, ma, si sa, è facile sgamarli.

Il modo per evitare tutto questo è disiscriversi dalle newsletter, ma boh, io sono così pigro che non lo faccio mai ma poi sono contento di non farlo mai perché talvolta capitano delle chicche. Ieri, per esempio, ho ricevuto una comunicazione dal sito 6sicuro.it, a cui mi sono iscritto credo per stipulare un’assicurazione per la mia auto, tempo fa. La newsletter contiene un articolo il cui titolo è piuttosto esplicito: “Niente multa se non ricordi chi guidava” (lo trovate qui). Ora la colpa non è certo del socialmediacoso se, probabilmente, in Italia è tutto un proliferare di stratagemmi per fare il cazzo che ci pare. Ma, leggendo l’articolo in questione, mi sono chiesto se questa smania di fottere qualsiasi regola sia solo un’eccellenza tutta nostra oppure un’attitudine ovunque condivisa. E pensate anche a quante risorse, energie, estro e creatività impieghiamo quotidianamente per tirarci fuori dai guai quando sarebbe così semplice non cacciarcisi dentro. Capita a tutti, per carità, di essere vittima di un’ingiustizia o di trovarsi al centro di un complotto. Credo però che il modo più efficace per non prendere una multa sia quello di rispettare il codice della strada. Rallentare quando ci sono i limiti, parcheggiare dove è consentito, fermarsi se c’è rosso, e così via. E se scrivessi su un blog che tratta di questi temi, dovendo postare un articolo in merito, un rimando a questa legge non scritta lo includerei, anche solo per guadagnarmi un po’ di credibilità.

qual è l’ultimo libro che hai letto

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“Qual è l’ultimo libro che hai letto” è una domanda che non dovete più porre ai candidati che si presentano ai colloqui per non rovinare tutto, avere brutte sorprese e diminuire ulteriormente la possibilità di trovare figure adatte al profilo ricercato. Facile che vi sentiate rispondere cose come “da qualche anno leggo Facebook, ho alcuni contatti che scrivono status davvero illuminanti”. Non si spiegherebbe l’assiduità con cui passiamo il tempo con gli occhi puntati sui nostri cosi intelligenti, forse perché ne invidiamo la superiorità. Per lo meno la memoria, no? E come si fa a spiegare che no, tra un romanzo di Tizio Caio e una jpeg sull’amicizia con cuori, gattini e bimbi in fasce che nemmeno un incrocio tra Anne Geddes, Baricco, Jovanotti e i disegni di Love is… c’è un discreto gap culturale, e anche se non sono io a decidere cos’è bello e cos’è brutto l’evidenza è sotto gli occhi di tutti. E attenzione, che poi vi trovate a lavorare con gente che non capisci cosa dice ma non perché sono stranieri ma semplicemente sono semi-analfabeti. Sono giunto alla conclusione che questa sia una delle principali difficoltà dell’imprenditoria, e cioè trovare personale che non dev’essere per forza Umberto Eco ma almeno gente in grado di spiegarsi. Altro che stabilire se e come fare investimenti, quanto riservare per sé e quanto concentrare sulla propria azienda, quando e se è il momento di dividere gli utili o mollare il colpo, che non vuol dire necessariamente suicidarsi per la crisi. Cari dirigenti d’azienda (così ha scritto sulla carta d’identità quel poco di buono di mio cognato) sappiate che io non farei mai il vostro mestiere, di contro voi cominciate a prendere un po’ di dimestichezza con la letteratura, così vi sarà anche più semplice familiarizzare con lo storytelling di cui vi riempite la bocca con i vostri clienti. Quando mi capita di vedere frasi sottolineate a cazzo nei libri che prendo in prestito in biblioteca, al di là del fatto che non bisognerebbe sottolineare testi che sono patrimonio comune ma vabbe’, dicevo che quando mi capita di leggere frasi sottolineate a cazzo nei libri che prendo in prestito in biblioteca penso che magari è uno di voi poco avvezzo con la narrativa che vede cose in certi passaggi che per noi sono del tutto ininfluenti ai fini della trama o dello stile dell’autore. Questo per dire che c’è sempre da imparare. Ma, amici miei, dai vostri contatti Facebook cosa pensate di apprendere? Che ne sarà del genere umano dopo un secolo di status e di tweet? Cosa penseranno i posteri di quelli che pubblicano le foto in cui sembra che reggano la torre di Pisa o stringano il sole tra le dita della mano? Quante cose mancano ancora all’appello prima che si esauriscano le citazioni e cali il silenzio sui nostri socialcosi? Ecco, per mettervi in pace con il mondo del duepuntozero provate solo a osservare le persone che usano i dispositivi portatili per scrivere mail che, sbirciandone il contenuto, sembrano incomprensibili perché magari invece sono semplici appunti e magari vi trovate a vostra insaputa proprio dietro a un blogger che, appena potrà, si burlerà di voi al mondo intero, o almeno ai suoi venticinque lettori, partendo da quella base rubata al vostro chiacchiericcio.

convertiti al rigore dallo storytelling di un prodotto da supermercato

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Te lo dico io, Roberto, quando siamo diventati bacchettoni. E mi ricordo addirittura l’istante esatto: la relatrice è passata alla slide successiva e sullo schermo sono apparsi due casi di social media marketing di successo riguardanti la Nutella e le Gocciole. C’era un fetta di pane con la Nutella che si aggrappava a un palo per il forte vento fresca fresca di un post sulla sua pagina Facebook. A fianco un’analoga iniziativa con un biscotto con i capelli neri e lo stecchino in bocca che doveva somigliare a Roberto Benigni. Entrambi gli esempi riportavano a fianco numeri che non sono passati inosservati al pubblico della prima giornata del SMX 2014, un vero e proprio happening della comunità di professionisti del marketing digitale. Centinaia e migliaia di fan della crema alla nocciola e dei biscotti industriali – prodotti di cui anche mia figlia è ghiotta, sia chiaro – che hanno speso del tempo per dimostrare la loro approvazione a quel tentativo di conversazione tra brand e audience. C’è quindi uno storytelling della Nutella e delle Gocciole, ci sono risorse dedicate che hanno fatto di quello il loro lavoro, che per carità ha la sua dignità tanto quanto un tornitore, un maggiordomo o un dog sitter. Comunque appena abbiamo percepito e sedimentato il senso di quella slide, è proprio in quel momento che siamo diventati bacchettoni. Ed è una fortuna, Roberto, che io e te non viviamo in una società di integralisti religiosi o che non siamo in quei posti sperduti delle Louisiana dove ci sono quei pazzi da True Detective che quando vanno in tilt si comprano i mitragliatori al supermercato sotto casa. A me e a te ci girano i coglioni già quando arriviamo al nuovo quartiere fieristico e leggiamo gli striscioni “Benvenuti in Europa” sulle transenne intorno ai cantieri con gente che chiede l’elemosina e proprio dopo un treno in ritardo di mezz’ora e fermo sotto una galleria in cui il telefono non prende. Oppure ci innervosisce la presenza di un frigobar pieno di bottiglie di Carlsberg gratis proprio oggi che siamo nel pieno del periodo no-alcol, una specie di fioretto che non si sa bene per chi o per cosa è in corso. E c’è pure la festa di Twitter, stasera, a inviti e io e te non siamo stati invitati, nel locale di un’altra creatura di questo pazzo pazzo occidente che è uno di quei Masterchef di successo che – e qui ci starebbe una bestemmia – fino all’altro ieri pasteggiavamo a tagliolini in brodo e polenta e oggi siamo vittime di questa follia collettiva consapevoli che poi, Cracco o non Cracco, tutto dopo si trasforma in merda. Così mentre divampano sempre più focolai della guerra dei poveri nelle nostre banlieue che hanno nomi evocativi del calibro di Torpignattara, mentre la scelta tra le personalità che dovrebbero offrirci la sintesi della politica va dalla destra postfascista alla destra populista anti-euro fino alla destra post-razzista – quella che ci vuole far credere che i posti come Torpignattara erano belli come San Gimignano prima che arrivassero gli stranieri con i loro costumi inadeguati – ecco nel bel mezzo del progresso di diversi colori tra i quali il nero e basta (cit.), anzi no anche il verde dei nostri conti bancari, proprio oggi in cui questo rifiorire di narrazioni sui pomodori pelati capita in un momento storico in cui a malapena siamo in grado di capire il senso di un avviso sul libretto delle comunicazioni tra la scuola e la famiglia dei nostri figli. Ecco, in questo squallore illuminato solo dai nostri smartcosi accesi giorno e notte, il problema sembra essere il posizionamento esistenziale delle aziende, una volta definito il quale noi, sul nostro social network preferito, possiamo finalmente decidere se stare con il prodotto ed essere brand ambassador, oppure no. Non dare il nostro like alla pagina. Trollare chi si spende per intavolare discussioni costruttive con il community manager del Philadelphia. Non c’è da stupirci così se diamo diventati bacchettoni e va bene esserlo in qualunque disciplina che ci consenta di annullarci fisicamente in qualche modo, come quelli che si preparano per fare le maratone nelle varie città del mondo e si allenano anche tre volte al giorno. Occorre davvero un rigore ma parlare di morale non me la sento, perché sia io che te, Roberto, siamo costretti a dare anche il nostro contributo in questo mondo che ha dell’osceno e, a dirla tutta, non capisco però quale sia stato il punto in cui era evidente che sarebbe andata così e nessuno ha fatto nulla per impedirlo.

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D’altronde perché la gente dovrebbe leggere i blog se non legge più né i quotidiani tantomeno i libri? Secondo le conversazioni intercettate sui mezzi o in ambienti pubblici o comunque dove le persone hanno occasione di incontrarsi e interagire, oggi la lettura che va per la maggiore è quella degli status altrui di Facebook, delle freddure con cui si commentano eventi e notizie del giorno e dei tweet di questo o quel personaggio famoso. Il dramma è che su questi contenuti si fanno appunto anche i dibattiti e le discussioni, se ne parla insomma, come un tempo si faceva sull’ultimo film visto o l’ultimo libro pubblicato. “Hai mai letto qualcosa di @Flaviaventosole?” sentiamo chiedere. “No, ma ti consiglio l’aggiornamento di status di #GianniMorandi dell’altro ieri, mi ha piacevolmente sorpreso”, sentiamo rispondere. Oppure “Cosa posso regalare a mia moglie per Natale?”, sentiamo domandare. “Prova a vedere se sulla pagina Facebook del Milanese Imbruttito c’è qualcosa di carino”, sentiamo suggerire. Con questo non voglio dire che i flussi di coscienza di emeriti sconosciuti come il sottoscritto possano compararsi in termini di tempo speso bene con l’ultimo romanzo di un DeLillo, per dire, ma avrete capito anche voi che l’analfabetismo di ritorno del genere umano e la crescente diffusione dell’incapacità di comprendere testi di senso compiuto si sposa perfettamente con la tendenza a preferire contenuti sempre più brevi, in cui l’attenzione si può mantenere facilmente dall’inizio alla fine. Verrà il giorno, quindi, in cui semplificheremo sempre di più il nostro codice comunicativo perché avremo sempre meno esigenze di dettagliare il nostro pensiero e, all’altro capo del messaggio, ci sarà sempre meno capacità di comprensione, per non dire intelligenza ma è un termine che non ho usato apposta perché, come sapete, di intelligenza ce ne sono vari tipi e non è detto che in futuro l’accezione che intendiamo sia ancora utile a qualcosa. Accorceremo sempre di più il numero di caratteri nelle conversazioni e nelle letture fino quando per lettere, davvero, anziché intendere la letteratura e gli studi umanistici, si intenderanno solo le lettere dell’alfabeto e ci esprimerà così. B. Z. F. Q. Pensate quindi a come è stato profetico Francesco Salvi, un vero intellettuale di altri tempi, che ha saputo non solo trovare la sintesi ma ridurre tutto ai minimi termini, concentrando un’intera canzone in una sola lettera dell’alfabeto, la prima, fin troppo capiente per contenere un significato così complesso.

venti sconosciuti che si fanno un handjob per la prima volta, guarda subito il video

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La regola numero uno nell’Internet e nelle vostre attività di personal branding – chiamiamolo così – sui socialcosi dovrebbe essere quella di controllare bene per filo e per segno quello che state per condividere, verificando che non sia una cosa superata e già ampiamente discussa, non sia una bufala, non sia un trucco, o una notizia priva di fondamento, un articolo dal titolo roboante ma senza contenuti contestuali. Quindi contare fino a venti e a quel punto riconsiderare se ciò che state per postare rientra nei parametri dell’idea che volete che chi vi legge o vi frequenta virtualmente abbia di voi. Se seguite questa procedura chissà quante volte avrete ringraziato quegli attimi di riflessione e quella pastiglia di temperanza il cui effetto è vedere con l’occhio adulto – adulto dal punto di vista della vostra anagrafica sull’Internet – per avervi impedito una figura un po’ così. Ma se della vostra reputazione, come spesso accade e magari è anche giusto, non ve ne può fregare di meno, tanto vale lasciar prevalere la smania dell’arrivare primo, tanto la moltitudine non vi si fila di striscio, se lo fa non legge quello che pubblicate, se vi legge lo fa distrattamente, se lo fa con attenzione non capisce il senso dell’articolo, se lo capisce si ferma al titolo perché è roboante, se non si ferma al titolo e legge tutto con attenzione e voglia di approfondire non rischiate nulla perché si tratta dello zero virgola zero zero zero uno per cento ovvero di quei pochissimi contatti talmente affezionati a voi che si berranno qualunque cosa pubblicherete. Ma nel duemila e quattordici si verificano ancora episodi di clic a cazzo su contenuti costruiti apposta per screditarvi con il prossimo duepuntozero. Magari siete attirati da uno specchietto per le allodole che ha le sembianze di un banner e che riporta una procace quanto disinibita testimonial di non so quale fatto straordinario che stuzzica la vostra ehm diciamo curiosità. Dietro quell’annuncio ovviamente non c’è nulla, al massimo qualche sito che vi promette guadagni facili. Invece la traccia dell’azione che può risultarvi fatale – dal punto di vista della considerazione che gli altri hanno di voi – sarà immediatamente condivisa e visibile a tutti se l’errore che avete appena commesso ha come splendida cornice Facebook, che tutto sommato è il posto dove è più facile perdere il controllo, smarrire la morigeratezza, dare sfogo ai più bassi istinti e decidere del proprio destino. Il mio consiglio, ma sono certo che anche su questo siete sufficientemente responsabili, è quello di seguire la stessa procedura di cui sopra – pensarci bene, contare fino a venti e quindi valutare ancora una o due volte se ne vale davvero la pena – prima di schiacciare qualunque cosa sia visibile e interattiva in una pagina Internet, onde evitare di dover fornire imbarazzanti chiarimenti sulle vostre inclinazioni. E comunque quella del bacio tra gente che non si era mai vista prima era una pubblicità. Vi sta bene.

tutti i limiti della social democrazia

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Se posso darvi un consiglio, fossi in voi farei a meno di ficcare il naso nella vita degli amici dei vostri amici sui socialcosi come Facebook. Correte il rischio che qualcuno della cerchia più stretta dei vostri contatti vi deluda e, come accade a me ogni volta, vi troviate impantanati nella realtà, nel mondo, nel come è la gente, quella stessa che voi avete chiuso fuori dalla porta di casa vostra e che però, malgrado teniate gli occhi ben stretti e tratteniate il naso nei rari momenti in cui siete fuori, esiste, esprime opinioni, opera scelte e soprattutto vota, contribuendo attivamente quindi al destino di voi e dei vostri figli. D’altronde non tutti adottano gli stessi criteri di gestione dei rapporti sui social. Il mio approccio è unicamente di tipo tecnologico, nel senso che ho a disposizione una piattaforma di condivisione contenuti. I rapporti con le persone più vicine sono molto superficiali, perché altrimenti sarebbero ridondanti e ci si ritroverebbe di persona a parlare “della cosa che mi hai postato su Facebook”, per intenderci. Poi ci sono gli amici lontani, con i quali si ha la possibilità di tenersi aggiornati sulla propria vita anche se ci si vede poco. Poi c’è tutto il resto: persone che segui, rapporti casuali, ex compagni dell’asilo, lontani parenti che sono quasi i più estranei di tutti. Ma non è solo questo calderone che può riservare brutte sorprese. Magari il genitore di un compagno di classe dei vostri figli può frequentare uno di quelli che vanno alla sagra degli arrosticini per compiere un attentato ai danni dei carnivori, oppure qualche sprovveduto che non sa che la satira di certi siti – che evito come la peste, eh – sia satira, appunto, e vuole coinvolgerci nell’indignazione popolare. Grazie a una di queste frequentazioni di rimando, in questa dinamica distorta di gradi di separazione, ho scoperto persino un portale che raccoglie solo articoli inerenti malefatte compiute da stranieri in Italia. In generale, a parte la prima cerchia, per dirla alla Google+, per il resto uno dovrebbe tenersi alla larga da nazifascisti, pentastellari, vegani, complottisti e chiunque usi aforismi stampati su jpeg come arma di distruzione di massa. Un approccio utile non tanto a non partecipare a discussioni con una categoria umana distante dal buon senso quanto una colata di magma, ma a non lasciarsi incuriosire dalle boutade di terzi, una conseguenza del mettere in piazza la propria rete di relazioni che, a dirla tutta, non è per nulla vantaggioso. Perché poi vai a curiosare tra i friends altrui e trovi gente che segue portali di ultradestra, militanti delle brigate antika$sta, fan di Gigi D’Alessio o neocatecumenali. Uno dei pochi vantaggi che offre Internet è infatti l’esercitare la misantropia in tutta rilassatezza, costruirsi il proprio mondo alternativo in cui i presuntuosi possano darsele di santa ragione nei recinti insonorizzati che ben ci guardiamo dal frequentare, lasciare fuori ogni scocciatura, altrimenti abbiamo costruito – con le nostre mani – una copia di quanto più negativo ci sta intorno. Internet e i social media costituiscono la vera e propria “seconda possibilità” rispetto alla prima, quella in carne e ossa che incontriamo nel quotidiano. Cerchiamo, tutti insieme, di non commettere gli stessi errori e di non sprecarla.

il social e l’antisocial

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Chi scrive di tecnologia e affini come il sottoscritto avrà notato la diffusione che sta avendo il termine sociale e tutti i suoi derivati – socialmente, socializzazione, socialità – con una nuova accezione che ben si discosta dal significato originale. Ciò che è sociale non è più solo ciò che riguarda l’ambito della società, ma anche quello dei social media. Un aspetto che va oltre il processo di italianizzazione di vocaboli in lingua inglese per i quali i più, negli ultimi decenni, hanno manifestato perplessità, e che ha visto in modo pervasivo la diffusione di tecnicismi del marketing e dell’informatica nella nostra parlata quotidiana e il loro declinarsi e coniugarsi secondo i criteri grammaticali della lingua italiana. Una frase come “un unico ambiente socialmente integrato” che ho appena trascritto da un’intervista di lavoro, mi ha fatto riflettere perché in realtà significa “un unico ambiente applicativo in grado di favorire l’utilizzo e la diffusione di strumenti di social media”. Ovvero siamo pienamente nei margini della correttezza linguistica, non c’è nessuna storpiatura né neologismo evidente, ma solo un’evoluzione – o involuzione, vedete voi – di un insieme di parole legate a un concetto peraltro molto pesante, uno di quelli che è stato protagonista della storia degli ultimi secoli. A dimostrazione che, a parole, c’è ben poco di sacro. Così non ho problemi a parlare di “socialismo reale” riferito alla disponibilità di strumenti 2.0 senza distinzioni di classe, purché poi non si finisca con il dimenticarsi dell’archetipo e del suo significato originale. I lavori “socialmente utili” saranno quelli svolti dai moderatori delle pagine Facebook aziendali, e prima o poi un gruppo di punk filosovietico pubblicherà un album come “Socialismo e barbarie” come critica all’abuso dei social media e alla democratizzazione dei mezzi di marketing individuale. Io, nel mio piccolo, rifonderò il PSI per riunirvi tutti insieme in un unico movimento, fino a quando mi tirerete le monetine con giusto e meritato accanimento.