quella sottile sensazione di appagamento che si prova osservando in silenzio ambienti vuoti

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Nelle foto piccole non vi riconosco mai, ma sarà un mio problema di vista. Se poi nello spazio dedicato alle foto profilo che già sono minuscole mettete le vostre foto ancora più piccole e magari nemmeno in primo piano e per giunta lasciate intorno della cornice, potete stare sicuri che nessuno vi trova e chi vi trova pensa a quanto siete imbranati con il computer, se non siete nemmeno buoni a dimensionare un’immagine a seconda di quanto vi viene chiesto o a tagliarla in modo che non ci sia spazio intorno. Comunque se non siete capaci non è la fine del mondo e potete chiedere aiuto a qualcuno. Io non so usare il trapano, per dire, così mi avvalgo della consulenza di un vicino di casa. Ho appena terminato un lavoro nel box per il quale ho usufruito della sua manualità. Pagando, naturalmente. Mi ha costruito un sistema di mensole e ora posso conservare cose che invece dovrei gettare all’ennesima potenza. Io gli passavo i fischer, l’avvitatore e i vari strumenti e lui di rimando faceva e al contempo mi raccontava i pettegolezzi sugli altri condomini. Ma se siete lupi o lupe solitarie vi consiglio quell’apparecchietto per cui guardi le cose da fare e le cose si fanno da sole. Ce ne sono di varie marche, su Amazon sono sbarcati persino gli immancabili produttori e distributori dell’estremo oriente a prezzi stracciati e, badate bene, non è detto che la qualità lasci a desiderare. La morale è che non bisogna fare gli sbruffoni – che tra l’altro al mio vicino aggiusta-tutto non gli vanno a genio – e che non c’è niente di male a chiedere dei favori, anche dovendoli retribuire. In cambio offro consulenza su cose inutili. Ma a parte qualche dritta sul situazionismo o sulla scrittura più adatta ai social network, argomenti di cui mi capita di discutere sempre più di rado, raramente vengo interpellato per qualcosa. Solitamente sono io quello che ascolta e lascia sfogare le personalità altrui, a me è sufficiente venire qui e godere delle mancanza di contraddittorio, oltreché di lettori.

fatevi sentire, mi raccomando

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Il dramma, quando sono in mezzo a voi, è che io non so a chi telefonare. O meglio, una volta chiamato a casa per avvisare a che ora arrivo da Firenze, manifestata la reciproca voglia di rivedersi con mia moglie, parlato con mia figlia per un analogo scambio di affetto, la lista delle persone che posso sentire è già bella che finita.

Non ho responsabili da mettere al corrente circa l’esito positivo della riunione di affari che mi ha occupato la giornata, non ho colleghi con cui condividere i prossimi step, non ho subalterni a cui impartire decisioni sul modo in cui portare a termine il problema che li ha tenuti fermi in mia assenza. Non ho location da confermare, briefing da condividere, call a cui partecipare, brainstorming in cui far emergere il mio estro, loft da arredare, mail da commentare, playlist da consigliare.

Non ho amici che mi devono dare ragguagli sull’orario e il campo della partita a calcetto di stasera, non ho ex compagni di classe da invitare alla rimpatriata di sabato, non ho genitori anziani che se non li chiamo ogni giorno si preoccupano malgrado io abbia cinquant’anni, o meglio li ho, anzi, me ne è rimasto solo uno, ma anche se non ci sente per una settimana non è la fine del mondo.

Non ho contatti di Facebook che mi fanno gli auguri di compleanno, perché ho tolto la notifica della mia data di nascita, e comunque il mio compleanno era ieri e quindi se volete farmi gli auguri potete farlo anche qui e farlo con due giorni di ritardo, di certo non mi offendo.

Non ho amanti o possibili tali con cui flirtare dopo aver sentito mia moglie, non ho amiche con cui organizzare scappatelle alla prossima occasione, non ci sono sconosciute conosciute su Internet per passare a una fase di reciproco approfondimento e vedere che succede. Non ci sono compagni di corsa per rimandare l’uscita di domenica mattina, appassionati della montagna a cui chiedere in prestito uno zaino, altri membri della squadra dilettantistica di ciclismo con cui scambiarmi foto di bici da migliaia di euro. Se fosse per me non avrei nemmeno il telefono e non c’è davvero alcun rischio di perdere una chiamata mettendolo sulla vibrazione, tanto non vibrerebbe mai.

non dovreste prenderla sul personale

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Proprio ieri notavo in ufficio che nessuno riceve più telefonate personali. Questo apparentemente è un dato positivo perché certe chiamate intime sono imbarazzanti per sé e per i colleghi di stanza, occorre quindi spostarsi in spazi comuni o addirittura fuori come gli appestati o i fumatori e si perde tempo a discapito della produttività. In realtà da un lato probabilmente siamo noi a farle nei momenti più opportuni. Io ad esempio mi faccio sentire all’ora di pranzo, ma in genere a meno di urgenze potrebbe anche non essere il caso, considerando che nel giro di qualche ora comunque ci si rivede a casa. La verità è che con tutti i canali che sono disponibili per stare in contatto e in modo silenzioso nei confronti del prossimo, la tradizionale chiamata di ciao volevo solo sentirti non si fa più. Ma il quadro che emerge da questo innaturale silenzio in ambiente lavorativo trasmette un senso di solitudine diffusa, e per dimostrarvi che non sto generalizzando potrei farvi l’esempio del collega D.

Il collega D. ha quasi ventinove anni, ha una specie di part-time e vive ancora con i genitori. D. ha uno smartphone e un tablet personali che porta in ufficio e che tiene a disposizione in aggiunta al telefono fisso presente alla sua postazione e al pc aziendale. Lo smartphone di D. non squilla mai, ma non perché lo imposti su un profilo silenzioso. Lo smartphone di D. nemmeno vibra mai, non si illumina neppure, resta lì sulla scrivania per tutto il tempo rilasciando la carica della batteria con bassissime percentuali, considerando l’uso che ne fa.

D. stesso nemmeno chiama mai nessuno, ma magari conduce lunghe conversazioni durante le pause sigaretta, più o meno una all’ora. Mangia spesso pizza e focacce ripiene a pranzo, abitudine alimentare che gli ha fatto mettere su un po’ di pancia da quando è con noi ma questo non c’entra. Sembra proprio che D. non abbia nessuno con cui parlare.

Ieri pomeriggio però è accaduto l’imprevedibile. Abbiamo avvertito tutti un suonino che nessuno aveva mai sentito prima di allora. D. stesso è sembrato particolarmente sorpreso per il fatto che il suo smartphone fosse tutto illuminato e emettesse il segnale di una chiamata in arrivo. D. ha risposto al terzo o quarto squillo. Pronto? Pronto? ha detto. Pronto? Poi una pausa. Sì? Come? No. No, mi spiace, non sono io, ha sbagliato numero.

fine delle trasmissioni

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Tranquilli, dove volete che vada senza di voi. Era solo un modo per riflettere tutti insieme sul fatto che c’è sempre più l’esigenza che i programmi finiscano, ad un certo momento. Sarebbe così utile riprendere l’abitudine di accendere sto monoscopio metaforico nelle vite di tutti noi almeno qualche ora al giorno. Ventiquattro per sette è il mantra su cui si tira avanti nella modernità, qualsiasi tipo di produzione non si interrompe mai. Pensate solo al fascino che hanno avuto il Notturno Italiano e dopo RaiStereoNotte, per dire. Erano l’unica cosa che trovavi di aperto se soffrivi di insonnia. C’erano certi bar che tiravano tardi ma fino a un certo punto, ai quali subentravano i panettieri appena alzati con le loro brioche vendute senza scontrino. Oggi non c’è soluzione di continuità, ci sono turni che durano fino all’alba, trovi anchorman in tv che danno le ultime notizie così tardi che a seconda di come le giri potrebbero essere le prime del giorno successivo e sono sicuro che non manca molto ai negozi e ai supermercati che non chiudono mai. Ci andreste a fare la spesa alle tre di notte? Quella è l’ora più fetente. Se stai sveglio dalle tre alle quattro sei spacciato per il resto della giornata. Quando abbiamo smarrito il valore delle interruzioni, del riposo, della buonanotte e poi si spegne tutto, quando invece la casa pullula di led accesi, di ronzii di elettrodomestici in azione o in stand-by. Forse, con il tempo e con tutte le cose che sono successe, e mi riferisco agli ultimi trent’anni, abbiamo sempre più paura della solitudine e del silenzio. Accendere la tele e vedere il nulla fatto di assenza di un segnale – che poi oggi con il digitale terrestre abbiamo annientato pure quello – ci fa sentire abbandonati, senza guida, su un pianeta alla deriva, fuori orbita, fuori c’è buio e non sappiamo se il mattino arriverà anche questa volta. Prima invece eravamo obbligati a coricarci nel letto e il divano non ci bastava per nulla, dopo l’annuncio che qualcuno, dall’altra parte dello schermo, avrebbe chiuso tutto e signore e signori buonanotte. Eravamo obbligati ma non ci dispiaceva, tanto era sublime chiudere gli occhi con il libro sul petto che, lasciato andare dall’abbandono delle membra, ci cadeva addosso una, due, tre volte. Io mettevo una cassetta nel radioregistratore che avevo sul comodino, quasi sempre la stessa che mi faceva crollare al terzo o quarto pezzo. Vi siete mai addormentati con la musica? Ecco, le canzoni continuano ma tu ti allontani nell’oblio, resta solo un filo appeso che è tanto più sottile quanto quel brano lo conosci a memoria. E lo sapete dove voglio arrivare, perché è come avere una luce che non si spegne mai.

uomini soli

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Sapete a chi appartengono questi piedi?

riccardo_fogli

Non me ne vogliate per la spoilerata involontaria, ma questi piedi, questi stivali e quel manico di chitarra sono di Riccardo Fogli, ripreso nell’atto di riunirsi ai Pooh al completo comprensivi addirittura di Stefano d’Orazio, il batterista che nel 2009 era uscito dal gruppo. Una separazione di breve durata, altro che quella dell’interprete di “Storie di tutti i giorni” che invece era uscito dal quartetto più famoso d’Italia (anzi no, secondo solo ai Cetra) nel 1973. Questo è la prova che i cantori della solitudine per eccellenza da soli proprio non riescono a stare.

E pensare che “Uomini soli”, che ha pure vinto un Sanremo rilanciando i Pooh dopo anni di arbitrario oscurantismo, è la canzone che mi balena in testa da sempre quando le circostanze mi impongono di sentirmi senza speranza. Avrete immagino anche voi un repertorio di brani in un juke-box mentale pronti a essere gettonati a seconda di certi stati d’animo estremi che hanno per forza bisogno di una colonna sonora. Io quando ho quei momenti in cui penso che nessuno mi capisce sono condannato all’ascolto forzato di “Uomini soli”, con quegli acuti di Facchinetti che vi giuro che non c’è niente di peggio.

Non c’è niente di male invece a starsene da soli. Le donne però da sole hanno una dignità che tutti gli uomini invidiano, probabilmente perché in testa a loro risuona ben altro che una canzone dei Pooh. Ieri correvo lungo il fiume della mia città natale che, per la condizione di abbandono della città stessa ma soprattutto di quel quartiere lì, non ci sono eguali sui livelli di depressione a cui può indurre. Ma io avevo la mia playlist ben piantata nelle orecchie, quindi per fortuna non c’è stata nessuna hit dei Pooh a prendere il sopravvento. Però ho incontrato più di una donna camminare senza nessuno accanto lungo quella pista ciclopedonale del viale alberato sommersa da rami e foglie, con l’asfalto pieno di imperfezioni e a fianco il letto del fiume in uno stato di quelli che poi quando in Liguria ci sono le alluvioni si stupiscono tutti.

Comunque osservavo le donne da sole e pensavo a quanti s’incamminerebbero soli, così incuranti del giudizio altrui. Perché le persone che fanno cose da sole le guardano tutti con pena. Ecco, non dovreste farlo perché invece camminare, starsene seduti su una panchina a leggere, andare al cinema e persino mangiare in un ristorante da soli è una figata. A ogni età: io l’ho fatto a 25, a 30, a 40 e a quasi cinquanta ed è da molto che proprio non ci faccio più caso tanto per me è un comportamento naturale. Anzi, vi dirò, potete anche non rinnovarmi più la tessera ARCI del club degli “Animali Sociali”, quando non c’è nessuno mi annoio sensibilmente di meno.

Capisco però che arriva poi una certa età in cui si diventa più bonaccioni, si ricerca più la solidarietà e la condivisione altrui forse perché arriva il momento in cui il ronzio nelle orecchie e, in genere, tutte le percezioni che avvertono gli altri sensi delle persone anziane, diventano meno sopportabili. O magari, come nel caso di Riccardo Fogli, qualche soldino in tasca in più non guasta, soprattutto di questi tempi e con tutti i rischi che corrono i pensionati. Ma quali rischi? Sono gli unici che si possono permettere ancora di lavorare con la musica e di contare su un sacco di agevolazioni e ingressi gratis. Quindi siamo d’accordo: Fogli è tornato nei Pooh per un’operazione commerciale che fa il pari con il tour di Baglioni e Morandi, e si vede che dalle nostre parti non sanno proprio più cosa inventarsi piuttosto che investire sui gruppi esordienti. Malgrado ciò, la versione 2015 di Pensiero (dal cui video è tratto il fotogramma che ho messo su) spacca di brutto.

ci sono contesti in cui destra e sinistra hanno ancora un significato importante

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Sono riuscito a persuadere il signor Vitangelo, che ha un nome che sembra uscito da uno o nessuno dei centomila romanzi di Pirandello, che tutto sommato è una bella botta di culo sentirsi male a un paio di isolati dal pronto soccorso del Fatebenefratelli, anche se onestamente non è detto. Ci sono le ambulanze di turno e magari quella in servizio in questo momento si trova imbottigliata in circonvallazione per cui, se non fosse contrario a ogni regola della prima assistenza fai-da-te, sarebbe più efficace caricarmelo sulle spalle. Il signor Vitangelo, che magari gli amici poi lo chiamano davvero Gengè, ha iniziato a lamentare un formicolio al braccio destro mentre si trovava sul passante ferroviario, così è sceso alla stazione di Porta Garibaldi per mettersi nelle mani dell’efficientissima sanità lombarda. Ma a pochi passi dall’ingresso dell’ospedale ha deciso di accasciarsi perché non ce la faceva più, il dolore era passato alla spalla e si stava pericolosamente avvicinando al petto.

Io ho l’abitudine di fermarmi quando vedo qualcuno in affanno per il caldo, e il caso ha voluto che anch’io mi stessi recando in cerca di cure. Mi fa un po’ schifo dirlo, ma mi sono trovato una zecca con la testa conficcata nell’avambraccio, così mi sono precipitato anch’io al pronto soccorso. A volte certi boschi dell’entroterra ligure possono essere fatali, da questo punto di vista. Nessuno li cura più, i cinghiali la fanno da padroni e se provi a goderti il fresco delle frasche in qualche radura che magari fa pure da letto per i suini selvatici ecco che zacchete che le zecche ci azzeccano. Chiaro che al signor Vitangelo verrà attribuito un codice di maggior gravità: un infartuato balza immediatamente al primo posto di ogni classifica.

Mentre attendo rinforzi, il signor Vitangelo si lamenta un po’ della sua condizione solitaria. Dice che non si spiega come le persone possono girare l’interruttore e di colpo non volerne più sapere nulla di altri con cui, fino a qualche secondo prima, hanno condiviso praticamente tutto. Il signor Vitangelo sostiene che ci sono addirittura quelli che lo annunciano al pubblico nemmeno fossero dei presentatori della TV. Questo mi ricorda certe dinamiche sui social network, gente che non si è mai vista in faccia che di botto scrive con un tweet o su Facebook che tizio o caio è una brutta persona.

Finalmente arrivano un paio di infermieri con una barella, caricano il signor Vitangelo e lo portano di corsa via. Io non ho fretta, sta di fatto che avere un parassita sul braccio (le zecche sono parassiti?) non è una bella sensazione. Incredibilmente mi fanno visitare subito. Non c’è niente di peggio di una zecca avvistata a Milano. Mi chiedono in quale parco la ho presa per avvertire subito chi di competenza e avviare una campagna di disinfestazione. Quando rivelo l’origine di quell’essere ripugnante, al di fuori della competenza di Maroni, il dottore tira un sospiro di sollievo. E manco a farlo apposta, appena tolgo la camicia della zecca non c’è più traccia. Solo un puntino rosso che mi assicurano non essere affatto rischioso.

Quindi mi appresto a uscire e incontro di nuovo il signor Vitangelo. Appena ha messo al corrente i medici dei sintomi del suo infarto, il formicolio al braccio destro, sembra che questi si siano fatti una bella risata e gli abbiano ricordato che, in caso di infarto, il dolore si avverte al braccio sinistro. Il signor Vitangelo mi confida che, avuta la rivelazione, all’istante tutto gli è passato come per incantesimo. Mi dice che ha imparato la lezione e che deve sforzarsi a dormire sulla schiena. Stare sul fianco può comportare non pochi fastidi muscolari.

col bene che ti voglio

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Tutti i libri di geografia, a partire dalla scuola primaria, insistono sul fatto che l’area metropolitana di Milano sia una delle più densamente popolate in Europa. Si ha questa percezione girando in centro anche al netto dei turisti, tradizionali o per l’Expo, e fin qui ci siamo. Poi ti sposti nei paesi dell’hinterland come quello in cui abito io e trovi il deserto. Certo, conta il fatto che fa un caldo boia e in strada non si vede anima viva. Ieri sera stavo innaffiando le piante dei miei amici che vivono al quinto piano e che, dal terrazzo, dominano il paesello e insomma, guardando sotto sembrava uno di quei film con gli unici sopravvissuti a un cataclisma che sperano sgomenti di incontrare qualcuno del sesso giusto con cui ripopolare la specie umana. Solo qualche macchina che rallentava prima della rotonda per poi filare via accelerando, chi si ferma è perduto. La rotonda l’hanno messa proprio perché, anni fa, un automobilista non si è fermato e ha tirato dentro un signore che viveva qui vicino e che ha perduto tutto, vita compresa.

Si fa presto comunque ad avere la stessa percezione muovendosi per la zona. Se ti capita di dover chiedere informazioni a qualcuno stai fresco, anche se ci sono 38 gradi. Sono stato al centro commerciale, che con la sua aria condizionata è una delle mete preferite degli anziani che seguono alla lettera i consigli di Studio Aperto, e in effetti c’era un po’ di movimento ma è una prova che non fa testo perché raccoglie gente da ogni dove. Dove sono, quindi, tutti quanti? Restano in casa per non rischiare i colpi di sole? Sono già tutti in vacanza? Avevo un amico, ai tempi delle superiori, che lamentava il fatto che in estate tutti vanno via e questo nuoce un po’ ai rapporti di amicizia. Questo perché, abitando in un posto già di per sé turistico – sto parlando della località ligure in cui sono nato e cresciuto – in teoria uno non dovrebbe sentire la necessità di spostarsi per staccare dalla routine, corretto? Così ho pensato a una scenetta che potrebbe surclassare ampiamente quella della Merkel che fa piangere la ragazzina palestinese, in quanto a tristezza. Una bambina di origini sudamericane che abita in un quartiere popolare della periferia di Milano, i cui genitori non possono permettersi di andare in ferie, probabilmente non hanno nemmeno un lavoro fisso. C’è un cortile dove in condizioni normali si riuniscono tutti i bambini del quartiere per giocare insieme, ma a luglio sono tutti via. Così, malgrado il caldo, lei piuttosto che stare in casa scende giù e gioca da sola con le altalene e gli scivoli. Solo che non c’è nessuno che va lì a darle una di quelle fredde carezze dettate dall’economia.

il problema del suono è che non si vede

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La teoria dominante è quella dei fantasmi in casa, ma attenzione perché se ci credete questo è solo il livello 1 di un processo irreversibile di paranoia. Se non trovate le chiavi anche se sono lì sulla mensola dove le avete lasciate la sera prima ma comunque siete talmente convinti di non vederle che poi davvero non le vedete e chiamate qualcuno in aiuto, la colpa è solo del vostro essere uomini, nel senso di individui di sesso maschile. Quindi nessuna presenza ultraterrena o spiritello che vi fa i dispetti approfittando della vostra distrazione cronica. Un tema già trattato nel film The Others, ovvero siamo noi quelli morti e trasparenti che stanno con la testa da un’altra parte e i fantasmi, quelli veri, hanno già il loro daffare. Le cose stanno saldamente al loro posto e se non ci credete fate finta di assentarvi e poi provate a osservare la stanza dal buco della serratura, o se avete le possibilità fatevi installare uno di quegli specchi che si usano per gli interrogatori oppure un impianto di video-sorveglianza fai da te, con qualche webcam da due lire. In casa da sola si muove solo la polvere, quello sì un vero mistero di cui non si conoscono origine, dinamiche e scopo.

Discorso diverso con i rumori. Le case, come sapete, scricchiolano, borbottano, si stiracchiano facendo gemere infissi e strutture portanti complice la terra su cui poggiano, il vento e altri elementi atmosferici meno invadenti ma che alla lunga si fanno sentire. Se poi vivete in un condominio è facile capire la natura di tutto quel casino anche quando apparentemente al piano di sopra sono tutti in vacanza. Ma ci sono cose che mi stupiscono ancora, sapete che nell’era di Internet dove tutto è possibile sono ancora i cari vecchi fenomeni fisici gli eventi che ci fanno rimanere a bocca aperta. Le voci della famiglia pugliese che vive al primo piano che escono distinte e perfettamente riconoscibili dallo scarico del bidet è un buon esempio. Oppure la filodiffusione che si sentiva nell’abat-jour della mia cameretta da ragazzo, non chiedetemi come fosse possibile ma era così, e non si trattava di uno di quei modelli di radio-lampada piuttosto diffusi negli anni 70. Un enigma che faceva il paio con l’audio dei programmi tv percepibile nell’intercapedine tra le perline e le pareti proveniente da chissà quale appartamento del vicinato. Insomma, non potete certo lamentarvi di solitudine: il vero silenzio non esiste, nessuno si prende gioco di voi o cerca di spaventarvi in qualche modo. Siete autorizzati, in casi estremi, a far buon uso anche del vostro amico immaginario preferito.

(r)estate da soli

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No, non è un reportage di Studio Aperto, almeno non nelle intenzioni. Ma quando leggo di qualcuno afflitto da singletudine con l’aggravante del completo isolamento perché fresco fresco di scaricamento e quindi provato dallo status di eremita imposto dall’aver trascurato tutte le altre relazioni amicali in quanto completamente concentrato nella storia testé finita male, ecco io vorrei dirgli che invece nelle sue condizioni ci sono tantissime cose da fare e di contare fino a dieci prima di gettarsi a capofitto sul sito di avventure nel mondo o di passare al setaccio i contatti Facebook alla ricerca di un facile ripiego. Di un/una ex o di qualunque tipo di usato – anche sicuro – ci si pente nel giro di qualche ora in condizioni normali, o al massimo la mattina successiva dopo una bisboccia. Ma trascorrere addirittura le vacanze. Suvvia. Un po’ di amor proprio.

Ci sono tanti modi per trascorrere le ferie da soli. Potete organizzarvi un viaggio un po’ diverso dal solito, vi sconsiglio l’albergo perché non c’è niente di più triste, ma provate invece come fanno nel nord-europa. Non vi è mai capitato di incontrare persone da sole in tenda? Ricordo una giapponese che girava le coste della Sardegna in bici in affitto e uno zaino con un equipaggiamento minimale, un paio di short, una maglietta di ricambio, due costumi da bagno, materassino da yoga, igloo da un posto e poco più. Oppure compratevi un biglietto per una linea di pullmann internazionale e fatevi un viaggio in qualche cittadina di provincia europea. O ancora potreste trascorrere un po’ di tempo con i vostri genitori, a loro non può fare che piacere. Almeno credo.

Se decidete di rimanere in città ci sono tante cose da fare, a meno che non abitiate in uno di quei posti dove in agosto fuggono tutti. Musei, ville, cinema, tour in bici. A me piace visitare pedalando i quartieri quelli un po’ depressi, che in estate danno il peggio di sé. Cose che non posso che fare da solo, mia moglie è refrattaria a proposte di questo tipo. Bello anche andare a leggere un romanzo all’aperto, se non si muore dal caldo. Basta una panchina all’ombra e il gioco è fatto. Ma non c’è niente come starsene in casa, nella propria casa, e godersi una parentesi di solitudine. Almeno io ho fatto così l’ultima volta che mi è successo, una quindicina di estati fa. Avevo allestito tutto il mio set da tastierista collegato al pc, mi ero procurato intere collezioni di film (non porno, giuro) e telefilm che avevo perso in tv, libri in abbondanza, cibo e bevande in quantità da attacco nucleare. Ho passato così una decina di giorni a cavallo di ferragosto, uscendo solo per avere ristoro con il buio e staccare un po’. Se hai speso molto per costruire una vita con altri, a esperienza conclusa non c’è niente di meglio che dedicare risorse a ritrovare te stesso.

mi sento bene, non mi sento bene

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Il sistema informatizzato da sanità 2.0 per la gestione delle code in ambulatorio, che consiste in una specie di caramella polo in legno dell’anteguerra del diametro di un bottone impilata in uno spuntone di ferro e recante su una faccia, impresso a penna in una calligrafia in linea con gli standard dei dottori, il numero progressivo di attesa per la visita, mi attesta tra gli ultimi a esser ricevuti. Mi sono classificato in sedicesima posizione subito dopo uno che fisicamente potrebbe essere il modello da cui è stato disegnato Carl Fredricksen, il protagonista di Up. Trascorre il tempo prima del suo turno a consultare una risma di impegnative per visite mediche, ognuna con un foglietto pinzato su, in perenne lotta con gli spessi occhiali da vista che gli scivolano giù da la fronte e che continua a tirare su per leggere bene da vicino, come fanno tutti quelli che posizionano i fogli a pochi millimetri dalla pupilla nuda. Tiene tutto in una borsa di quelle che una volta regalavano le agenzie di viaggio in occasione delle gite organizzate in pullman, una foggia a metà tra il borsello e lo stile sportivo, in finta pelle. Alla fine rimaniamo noi due soli, siamo gli ultimi dopo la badante ucraina che è appena entrata nello studio tutta fiera della sua residenza appena ottenuta. L’anziano signore, comunque piuttosto distinto, a quel punto inizia a commentare le sue carte ad alta voce. La frequenza con cui si reca in bagno tradisce un problema alla prostata. Poi si rimette al suo posto e va avanti nel suo soliloquio. Poteva iniziare prima, penso, perché ha cominciato proprio ora che ci sono solo io a doverlo ascoltare. Nomi di medicine, diagnosi, terapie, qualche parolaccia. Ed è lì che ammetto che anch’io ho sempre più voglia di parlare da solo, camminare per le strade e parlare da solo e il bello è che non ci vedo proprio niente di male. Ma non come fanno i matti che dicono cose strampalate, imprecano e spremono il loro volto per far crescere il valore semantico del loro vaneggiare e spaventano le persone. Io il lume della ragione non l’ho ancora perso. Quindi voglio andare in giro e parlare da solo e dire cose sensate. Non so che cosa ci trattenga dal farlo e quanto ci costi, in termini di equilibrio, tutto questo autocontrollo. Perché la convenzione sociale impone che parlare da soli per la strada è una cosa che non si fa e che suscita ilarità. Anche io, come il paziente di fronte a me che si sta agitando sempre più, si conferma da solo che alla sera si sente sempre un po’ peggio, ho tante cose da dire. Chiacchierare in autonomia libera poi dalla necessità di ascoltare i pareri altrui e dall’educazione di non interrompere nessuno. Sentirsi in questi monologhi a senso unico, una volta superato l’imbarazzo del silenzio intorno a sé, è anche un buon metodo per stare più a proprio agio. Quando viene il suo turno, la sala d’attesa piomba nella calma che la sacralità di quel luogo impone. Dalle stampe appese alle pareti, illustrazioni di soldati vestiti dalle uniformi degli eserciti del passato hanno l’aria di essere rimaste immobili solo per non far spaventare di più gli esseri umani seduti ciascuno con il proprio disturbo. Io ho solo la massima a 140 e me lo dico ad alta voce, così, per provare l’effetto che fa, potrebbe essere l’inizio di qualcosa di nuovo.