se vi occorre dello spleen ne ho a pacchi giù in garage, fatemi solo controllare la data di scadenza

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Come avrete capito questo è un blog depresso. Seduto davanti al portatile con due dita (in orizzontale) di cognac nel bicchiere e mi manca solo la siga accesa all’angolo della bocca e il posacenere stracolmo di mozziconi che impuzzano l’ambiente ho la conferma che quello dello scrittore di grido – mi si perdoni la presunzione – è uno dei pochi mestieri in cui ci si può permettere di guardare le cose dall’alto dell’incapacità di adeguamento al mondo reale. Cercavo un emoji o una faccina qualunque anche fatta con caratteri ASCII per dare un’espressione scritta al disprezzo, che sta all’inquietudine come i vizi stanno all’ozio. Ma che ci posso fare. Sono gentile, garbato, educato, do persino del lei alle persone con cui non ho confidenza. Sono paziente e modesto, come vedete. Mi chino quando mi raccontate ma è perché sono sordo e nove volte su dieci siete più bassi di me, ma so che apprezzate perché è una postura che viene vissuta come di slancio verso il prossimo. Sono il re delle cortesie agli altri, soprattutto ai potenti, e il principe della pazienza, questo devo ammettere con i più deboli. E tutto perché mi è toccato un volto solare, simpatico, il che è paradossale per il tenutario di un blog depresso. Un viso di quelli che mi vedi e ti viene voglia di raccontarmi tutto. Questo però è un problema perché alla fine a me nessuno chiede mai nulla quindi finisce che sto lì ad ascoltare senza possibilità di replica o magari, quando viene il mio turno o l’interlocutore porta alle labbra il suo di cicchetto di cognac per bere finisce che mi sono dimenticato che cosa volevo dire, quindi siamo daccapo. Questa mia proverbiale seraficità mi impone di disprezzare il prossimo appunto sui socialcosi e poi, sfogata l’invidia perché quasi sempre si tratta di invidia ecco che torno qui ancora con il cognac e ancora senza siga a dare una descrizione appropriata al disagio esistenziale frutto della mia natura sensibile. Poi cerco sul web come facessero cento anni fa i nostri antenati a far convivere lavoro nei campi con lo spleen, vacche da mungere a meno dieci gradi nella bassa con lo spleen, a curare malattie che noi umani non possiamo nemmeno immaginare con lo spleen e il problema è antico quanto gli studi di psicanalisi. Si guarda al peggio, si finisce il cognac, si spegne la candela, si dice buonasera. Ecco, se però un giorno tornate qui e al posto della scritta “da grande voglio fare lo scrittore americano” trovate “questo è un blog depresso”, come ho già scritto in un commento qualche giorno fa, andate sotto nei commenti e per favore scrivetemi che ho fatto bene.

cogliere l’essenza

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Forse è proprio così, le giornate particolari in un senso o in un altro le si riconosce dall’odore. Quando la temperatura cala improvvisamente e tutti siamo costretti a rivedere i nostri piani perché il cambio degli armadi era già una cosa archiviata, e giacche e maglie pesanti sono già intrise di spray anti tarme o naftalina o quelle essenze per ambienti che vanno per la maggiore. Così seduto sul solito treno l’aria è davvero strana, questi odori che io associo agli spazi chiusi, agli appartamenti dei nonni e – non chiedetemi il motivo – ai mezzi pubblici delle città europee. Ma forse è perché c’è qualcuno che sbocconcella qualcosa, cibo poco comune e per nulla da colazione italiana, ecco che cosa mi ha tratto in inganno. Poi ci sono gli odori dei prodotti per capelli che con l’acqua piovana, perché piove stramaledettamente anche stamattina, si liberano nell’aria e lacche e gel e chissà cos’altro sono tutto sommato la componente meno sgradevole. Qualcuno infine apre una confezione di salviette umidificate saturando l’aria di odore di atterraggio in aereo, e se chiudo gli occhi e mi concentro sui sussulti delle rotaie potrei effettivamente essere altrove, il trambusto copre la voce del pilota e per lo stesso motivo non si sente il segnale di via libera dal sedile. Ma no, meglio scendere dalle nuvole. Ancora una volta ho sopravvalutato gli stimoli esterni, è solo una normalissima giornata con la emme maiuscola davanti.

gli abiti da lavoro

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Quando siedo alla mia postazione e accendo il Mac la prima mattina della prima settimana piena di primavera, per di più con lo scarto di un’ora rispetto all’orario solare, quando ho le orecchie che già mi ronzano per la pressione non si è ancora capito quale possa essere la pastiglia giusta e mi sento già stanco per le scale fatte di corsa e avrei bisogno di una seconda colazione, quando mi sento di aver ancora tutta da smaltire la sovraesposizione agli stati d’animo contraddittori come l’essere affaticato da persone alle quali di norma dovresti voler bene e mi accorgo di non aver ancora capito perché a un certo punto i propri genitori invecchiano troppo. E almeno a scriverlo ho un po’ di soddisfazione, come a dismettere qualcosa di altamente scomodo.

lo spleen e i peanuts

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Tanti sforzi per poi leggere quello che davvero ci si porta dentro in una striscia di Charles M. Schulz.

il 1981, lo spleen e Nikka Costa (fare i conti con la propria adolescenza)

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Mi scrive Luca B., un tempo mio vicino di casa. “Pensare a decine è un gioco rischioso, se ci si guarda indietro o si fanno sogni in avanti, o si sbircia per lo meno di lato. 2011 meno due decine e siamo già nel 1991, anno del mio congedo dalle forze armate.Sempre nel 2011 saremo a una decina tonda tonda dalle Torri Gemelle o, ancora più impressionante, il mio anno di nascita, 1967, era a poco più di due decadi dalla fine del secondo conflitto mondiale. Mi piace e mi corrobora lo spleen, comunque, ogni anno e alla fine dell’anno, pensare a come era tempo fa, spostandomi di cifre tonde. Un passatempo dannoso, ai tempi di Youtube“. Luca ha commesso un errore: ha usato 1981 come keyword e ha premuto invio. “Non ho pensato, o, meglio, ci sono arrivato dopo, che lì non c’è solo la mia memoria, ma una memoria digitalizzata di milioni di persone. Cioè, tutto. E, dato che non temo il fatto di non essere unico – per mia fortuna – ho visto anche miei ricordi, tali o presunti“. Anche Luca, vittima della sovraesposizione alle informazioni di Internet, a volte fa fatica a distinguere il reale dall’immaginario? “Per farla breve, spezzoni di un concerto dei New Order ancora molto acerbi. Tutte le tracce de La voce del padrone. Ma, su tutti, On my own di Nikka Costa“.

Questo è stato il momento del link, la sinapsi. Il contatto. 1981, estate, tutti con le finestre aperte sul cortile. Luca, il mangiacassette a manetta, e Nikka Costa che canta On My Own, ma lo canta a ripetizione (nonsiamo ancora nell’era della dematerializzazione, il pulsante replay non esiste per i riproduttori di nastro. Occorre premere rewind e attendere che il dispositivo termini la funzione). Quindi Luca, ogni 3 minuti e rotti, torna indietro e riascolta il brano.

I related links di youtube mi suggeriscono però la versione di Irene Cara tratta dal film Saranno Famosi, proprio dopo il video tratto dalla serata finale del Festivalbar 1981, in cui Don e Nikka, padre e figlia, chitarra e voce, propongono live, in una era di playback selvaggio, il brano. Nikka sembra una bambola, un po’ i boccoli e un po’ l’estetica degli ’80, non è come me la ricordo, io ero innamorato di lei. La amavo. Così rabbrividisco e provo la versione originale. Irene Cara, piano e voce, di fronte a Martelli – il tastierista talentuoso della scuola: è incredibile come il prodotto melodico statunitense sia studiato su misura per fare accapponare la pelle. Perché la scopro solo ora?“. Già, anche io avrei preferito l’originale, diffusa ininterrottamente attraverso il rimbombo del nostro cortile comune. Soprattutto la variazione blues all’inizio dell’ultimo ritornello “but when i’m down and feelin’ blue”. Già, ci sono cascato anche io. Il 1981. E pensare che 2010 meno venti fa 1980, anno del tempo delle mele. Ma questo blog non esisteva ancora. Altro che spleen, Sophie…