l’elettronica che è il bene trionfa sempre sull’acustica che è il male

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Cresce in modo irreversibile il gap tra gli spot televisivi di chi ha il grano vs le pubblicità di chi non può che investire in agenzie di comunicazione low budget. Una volta le case farmaceutiche erano tra le più ricche, probabilmente la diffusione delle tecniche di cura fai da te a causa di Internet, il ritorno dei rimedi della nonna, la medicina alternativa e l’anti-vaccinismo stanno mettendo in ginocchio big pharma e i primi rami secchi a essere tagliati sono quelli del marketing.

Ma veniamo al nocciolo della questione. Tradizionalmente gli spot dei prodotti per farti stare meglio dovrebbero concludersi con la convinzione, da parte di chi guarda e soffre, che la cosa che gli presenti è in grado di risolvere il problema, per questo bisogna andarci piano. I malati cronici o passeggeri sono vulnerabili e distratti, quindi è bene andare al punto nel modo più diretto possibile. Ieri sera, per dire, mi è capitato di vedere in tv per la prima volta questo spot:

che a una visione superficiale può passare inosservato se non simpatico, ma sul quale invece vorrei, insieme a voi, dedicare qualche considerazione. Non capisco il nesso tra il batterista e il Tetris, innanzitutto. Poi il messaggio che mi arriva è che un batterista rockettaro lo associo al mal di testa mentre invece l’esposizione ai videogiochi – che è benzina sul fuoco per l’emicrania – no? O forse la dicotomia è tra gli strumenti acustici e quelli digitali, tra chi suda in sala prove sui tamburi e chi compone musica elettronica?

Per non parlare del finale: prendo il principio attivo che schiaccia la creatività e l’arte mentre il cervello mi si riempie di pixel scoloriti, peraltro, digitalizzando la mia testa quindi rendendola replicabile all’infinito e omologata. Il target dello spot vuol essere giovane, ma cari amici delle multinazionali ricordatevi che sul rock non si scherza e che musica e giochi arcade sono agli antipodi negli schieramenti in base ai gusti di noi giovani.

Vi lascio a una veloce considerazione anche sullo spot Apple Pay Unicredit:

Andate a 0:18. Questo spot non funzionerà mai con i potenziali clienti liguri. Si è mai visto infatti un ligure che si accinge a pagare qualcosa con il sorriso sulle labbra?

mille parole valgono di più di un’immagine

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La comunicazione si divide in due tipi: quella efficace e quella che invece no. Un fattore chiave che ha portato a questa dicotomia così manichea, passatemi il termine, è il budget o, meglio, quello che si dice da quasi dieci anni e cioè che i soldi sono finiti. In tempi in cui si tira la cinghia i primi rami secchi che si fanno fuori sono proprio quelli in cui la linfa del marketing non passa più. Allo stesso tempo i passaggi degli spot alla TV tradizionale, ai tempi dell’Internet e di Netflix, fatta eccezione per i mondiali o per Sanremo probabilmente te li tirano dietro, questo significa che con due lire ti fai il tuo carosello e lo piazzi in prima o seconda serata.

Dove un tempo c’erano cucine e caffettiere emblematiche del design italiano, laddove poi auto di lusso e telefonia hanno fatto terra bruciata per poi spostarsi su canali pubblicitari più redditizi, sono rimasti brand e relative pubblicità che in confronto quelle della Lidl sembrano le réclame d’autore dei tempi d’oro del boom economico.

D’altronde ai creativi si chiede di fare presto e di costare poco, conseguentemente i creativi rispondono picche perché sono tutti presi dal grano che si può fare sui socialcosi e ancora conseguentemente a fare la pubblicità in tv ci vanno le seconde o le terze linee. Non ci sono più i copy di una volta, anche se comunicare certe cose e certi prodotti non è sempre semplice. Per dire, ieri sera nell’ordine mi sono segnato due messaggi che definire imbarazzanti è poco. Nel primo spot si sente dire nella stessa frase, giuro: “Aperifresco, il nuovo modo di camosciare”, e oltre alle parole se osservate la qualità della recitazione degli attori vi renderete conto di quanto valore circoli nei pressi della televisione italiana:


Ma non è tutto. Poco dopo poi sono rimasto letteralmente scioccato da questo, in cui l’autore è stato pagato probabilmente con voucher stampato con l’inchiostro simpatico per aver in cambio un capolavoro di marketing come “non ne potevo più di fare la pipì così tante volte al giorno”. Ecco qui, giudicate un po’ voi:

In questo caso, oltre a copy e recitazione, vi prego di notare l’effetto chroma-key dello sfondo digitale incollato a cazzo dietro alle persone intervistate e “ritagliate” in questo modo elementare. D’altronde con un budget così nemmeno io ci avrei lavorato in post-produzione più di un paio d’ore.

purché se ne parli, no?

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Da giovane ero molto più bravo e lesto nello schiacciare tasti a caso del telecomando quando il mio programma preferito veniva interrotto dalla réclame. Ora non solo sono meno reattivo, ma se non ci sto attento mi ritrovo a seguire con curiosità gli spot. Un po’ come accadeva ai tempi dei divertenti cortometraggi di Carosello in cui primeggiava la bravura dei creativi pubblicitari e quella degli interpreti, oggi si è verificato un nuovo sorpasso da parte dei consigli per gli acquisti in quanto a sforzo realizzativo degli autori rispetto ai programmi tv. Ma, a differenza dei tempi di Bramieri e Calindri, oggi è per demerito delle trasmissioni e non certo per la pubblicità.

Volevo quindi soffermarmi su tre spot in onda in questo periodo. Il primo è questo:

L’idea è un po’ banalotta, soprattutto con i rimandi a quello che comunemente si utilizza per esemplificare i periodi culturali citati nel video. I testi, però, li trovo raffinati e molto efficaci.

Il secondo è questo:

ovvero culi che se la ballano e se la cantano. L’ho visto è non credevo ai miei occhi. Non oso pensare a questo format applicato agli assorbenti.

Il terzo infine è questo:

L’ho visto e ci sono cascato, perché la storia mi ha distratto rispetto al finale, in cui viene presentato il prodotto, e fino a poco fa ero convinto non si trattasse di un fake ma di una vera e propria pubblicazione a fascicoli di quelle che tengono in vita le edicole delle nostre città. Poi ci ho riflettuto e ho pensato che qualcosa non tornava, perché non si sente parlare di modellismo ma solo dell’aereo. Insomma, in un modo o nell’altro hanno colpito nel segno e la cosa mi ha fatto sorridere e non è vero che il brand scompare. Anzi, la prossima volta in tv lo seguirò con maggiore attenzione.

sei come un juke-box?

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Era tanto che non si sentiva un motivetto famoso con il testo cambiato e adattato ad hoc per una pubblicità. Almeno dai tempi di “Road to nowhere” dei Talking Heads rifatta per lo yogurt Yomi della Yomo, spot che a sua volta riprendeva lo stile del video di Take on me degli A-ha, vi ricordate?

Un altro remake clamoroso è stato “One step beyond” dei Madness in italiano utilizzata per una reclame di patatine ma non ho trovato nulla in rete. Se non ricordo male si trattava delle Cipster Saiwa, nel testo della canzone addirittura definite “patatose” ma, probabilmente, ai tempi l’Accademia della Crusca non si era mobilitata a sufficienza. Fino a ieri, quando invece in sottofondo alla pubblicità televisiva di un unguento da trauma dal nome di Fastum Gel ho sentito “Sei come un juke-box” di Bennato che era un pezzo che mi piaceva un casino come tutto l’album. Il mantra “muoviti muoviti” ripetuto per tutto il tempo della canzone si presta, in effetti, a una pomata. So che morite dalla voglia di sentirlo quindi vi suggerisco di stare incollati alla tv per ore senza muovervi, a differenza di quello a cui vi esorta il cantautore napoletano mettendovi così a rischio di strappi e contusioni per comprare e usare, di conseguenza, il gel pubblicizzato. In alternativa, se vi sentite in forma potete pogare al ritmo della title track di quel disco – già in piena atmosfera grillista ante-litteram – che è passato in sordina solo perché uscito a ridosso del ben più famoso “Sono solo canzonette”. Il bello di “Uffà Uffà”, la canzone, è che è suonata dai Gaznevada.

così per spot

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Ovunque mi giri vedo Federica Pellegrini che fa la pubblicità a qualcosa, e se ci aggiungete il fatto che assomiglia di brutto alla mia coach di attività motoria globale da qui alla vera e propria ossessione il passo è breve. E pensare che io ero convinto che carosello e tutti i suoi derivati avessero leggi rigide a partire dall’esclusività di un volto o una voce a un brand. Ernesto Calindri si dedicava solo al Cynar, come Giampiero Albertini non si accontentava mai e, in tempi più recenti, Nino Manfredi beveva solo quel caffè lì. Più lo mandava giù e più lo tirava su.

La punta di diamante del nostro nuoto la vedo invece alla tv che ha problemi di sistemarsi i capelli tra la piscina e le sfilate, poi si mangia i Pavesini quando non fa allenamento, fa il tifo per la più antica compagnia italiana per la fornitura di energia e come se non bastasse ha prestato il suo volto e un look dimesso a Miia, un marchio tecnologico tutto italiano. A me tutta questa leggerezza in fatto di endorsement commerciali disorienta e non poco, scusate ma come sapete sono un uomo del novecento. Federica Pellegrini, da che parte stai? Per chi batte il tuo cuore? A chi vorresti legare la tua dizione così approssimativa e schiava di un accento così scostante?

Al di là del fatto che lei è una super-campionessa e io no, il che rende ogni mia velleità ben al di là di ogni possibile finalizzazione, tutta questa sovraesposizione di Federica Pellegrini in ambito advertising mi ha fatto venire voglia di lanciare una sfida. C’è un’azienda tra di voi che accetta la scommessa di legare il proprio brand o un prodotto anche in end of life (mi va bene qualsiasi cosa) alla mia identità pubblica? Chiudete gli occhi e immaginate plus1gmt a bordo di un Volkswagen California della nuova linea che sta per essere distribuita in Italia, oppure me che assaggio il nuovo tipo di pizza surgelata della Buitoni, o mentre cammino con un bel paio di sneaker della Camper o addirittura che corro con le Asics Gel Pulse 7.

Vedreste plus1gmt testimonial della Tre (che con il contratto per mia figlia mia ha rifilato una bella sòla) oppure del detersivo per i piatti concentrato perfetto per sgrassare pentole e piatti di plastica in campeggio. Per non parlare di giradischi, impianti hi-fi, sintetizzatori e software di audio editing. Se volete farmi felice, però, non datemi il ruolo da protagonista nello spot della Akuel, non ne sarei all’altezza, piuttosto potrei pubblicizzare birra, tanta birra, e poi materassi, non avete idea di come mi piacerebbe essere mandato in onda mentre dormo comodo per otto ore di fila. Potrei prestare il mio volto anche a luoghi turistici per invogliare la gente a fare le vacanze lì ma con dei limiti: no viaggio in aereo, no utilizzo di mezzi privati in luoghi con guida a sinistra, no rischi di malattie con dissenteria. Se poi la vostra azienda cerca di puntare tutto sulla simpatia allora capito a fagiolo. Di sicuro sono più gioviale di Federica Pellegrini ma che ve lo dico a fare, sono io quello che deve accontentarmi della sua sosia che, vi ricordo, è la mia coach di attività motoria globale, un corso che mi occupa un’ora per due volte la settimana insieme a un’altra decina di carampane della mia età.

esta indecisión me molesta

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La Bicocca, sapete meglio di me, è un’area di Milano che è stata completamente rimessa a nuovo fino a formare un quartiere, di quelli un po’ borderline: operoso e vitale nei giorni feriali per la presenza dell’omonima università e di molte sedi di uffici, a tratti spettrale nei giorni festivi. Ciò non toglie che sia una zona ricca di scorci incantevoli di architettura moderna, di quelli che piacciono a me: freddi e imponenti, degni del razionalismo sovietico. Prendete la sede della Siemens, per esempio, con quella specie di piazza interna e l’accesso che sembra un arco imponente. Potrebbe essere tranquillamente la location di uno spot pubblicitario. Anzi, secondo me qualcuno ci ha già pensato.

C’è il quartier generale di una azienda farmaceutica cliente dell’agenzia in cui lavoro io, proprio lì a fianco. Ogni tanto mi capita una visita in loco, per loro realizziamo video aziendali, house organ, insomma ci tocca ogni tanto qualche riunione con il responsabile marketing. Stavo prendendo un caffè con un paio di colleghi giusto qualche giorno fa in un bar a metà strada tra gli uffici a cui ero diretto e l’ingresso principale della Siemens. Era poco prima delle nove, tutto intorno un viavai di impiegati al galoppo e studenti assonnati, molte matricole, gente comune. Anche il bar era piuttosto gremito, ma mi stavo comunque godendo il riparo dall’ultimo caldo della stagione. Caffè, aria condizionata, solito intrattenimento radiofonico da locale pubblico, una emittente commerciale che, dopo il consueto report sul traffico delle tangenziali, fa partire “Should I stay or should I go” dei Clash.

Yeah, penso dentro di me, altro che caffè, ecco quello che dà la carica al mattino. Un paio di queste per iniziare la giornata e vai di rendita fino a sera. C’è qualcosa di stano però, ma non me ne accorgo immediatamente. Colgo con la coda dell’occhio che tutti, ma proprio tutti, hanno espressioni molto amichevoli gli uni con gli altri, parlano in maniera piuttosto cordiale, anzi troppo, come se fossero tutti amici che si sono incontrati in quel bar per caso dopo non so quanti anni. Ex compagni di classe, ex colleghi, ex coppie. Il tutto mentre scorre via liscia la prima strofa. Avete presente il pezzo, no? Un classico giro blues, la strofa che si ripete due volte. Io poi ho la pessima abitudine di raccogliere lo zucchero in fondo alla tazzina con il cucchiaino, e proprio mentre porto alla bocca quel po’ di dolcezza prima di pagare per tutti, tutti quelli che erano con me, naturalmente, la seconda strofa finisce. “So you gotta let me know/Should I stay or should I go?”, quindi si chiude il riff di chitarra è c’è lo stop. Mi seguite?

Bene. A quel punto sto per cantarmi il ritornello mentre succhio il contenuto del cucchiaino, ma il ritornello non parte. Lo stop diventa una pausa di un quarto, poi di due quarti, poi una battuta intera. Mi rendo conto dell’anomalia, ripongo il cucchiaino nel silenzio più assoluto, mi guardo intorno e vedo che tutti mi osservano. Il barista, i gruppetti di impiegati in giacca e cravatta che hanno preso cappuccio e brioches, le tre studentesse al bancone, poco più in la, con la loro attrezzatura da aspiranti architetti. Tutti mi guardano, anche in modo tutt’altro che accomodante, e il pezzo non riparte. Ma che succede?

Poso la tazzina, mi prende il panico, ma oltre le vetrine, sulla strada, vedo che anche fuori è così. Tutti si sono fermati, guardano me, poi si squadrano tra di loro con gli occhi pieni di sfida. Ecco, una sfida. Tutti contro tutti. Ma una sfida di che? Esco fuori terrorizzato e, incredibilmente, ecco che riparte il ritornello. Con il tempo raddoppiato, avete presente, l’avrete ballato chissà quante volte anche voi. Dal blues al rock’n’roll puro. E immediatamente scatta il pogo generale. Lavoratori, docenti e ricercatori dell’Università, imprenditori, passanti, tutti si inseguono e iniziano a spintonarsi in un immenso delirio punk, proprio in quella piazza.

Quindi l’apoteosi, perché il pezzo curiosamente salta la terza strofa e il bridge strumentale, e continua con l’ultimo ritornello, si tratta di un radio-edit particolare, penso. Un gruppo ben nutrito di persone mi corre incontro, decisissimo a pogare contro di me. Scappo. Corro sempre più veloce, vedo un portone che è rimasto aperto e in un lampo di lucidità mi ci butto dentro e mi chiudo lì. Gli scalmanati che mi avevano puntato, però, quasi in trance, si riversano contro un altro crocchio di persone, più numeroso, e poi tutti insieme ad accanirsi di pogo, donne e uomini, ventiquattrore che volano in aria, tacchi di scarpe di marca spezzati, fogli e documenti stracciati.

La canzone si avvia verso la fine e io, tirando un sospiro di sollievo, assisto alla scena finale al riparo in quell’androne. Il pezzo si conclude, torna dimezzato, Should I stay or should I go, l’ultimo verso accompagnato da chitarra, basso e batteria tutti con la stessa metrica. Quelle comparse di non so che incubo materializzatosi si fermano dovo sono. E a quel punto, sulla scena, appare in in bianco una headline: “Silvergold Assicurazioni. Ogni imprevisto ha un’alternativa. La nostra è sempre la più vicina”.

il mondo del lavoro sta cambiando

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Gran bello spot di INCA CGIL.