palloni gonfiati

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Oggi quei distributori di gomme da masticare sferiche colorate e zuccherosissime che campeggiavano fuori dai bar e dai tabaccai di una volta sarebbero inammissibili intanto perché chissà che porcherie che contenevano le gomme, poi perché erano esposte al caldo, al sole e alle intemperie, e per essere così coriacee i casi erano due: o le porcherie che appuntano contenevano erano artificiali in un modo che noi, ai tempi della moda biologica, non possiamo nemmeno immaginare oppure boh, la seconda cosa ora mi è sfuggita, magari più avanti mi torna in mente. Comunque rispetto agli standard ammessi dagli osservatori anti-sofisticazioni di oggi avevamo dei mezzi di conservazione del cibo che, visti da qui, fanno sorridere. Pensiamo all’interno dei distributori. Chissà se erano soggetti a una corretta igienizzazione, ma anche i condotti stessi in cui transitavano le caramelle e le gomme prive di incarto prima di planare nella nostra mano quindi alla nostra bocca, in cui venivano soggette a sessioni di ore di masticazione senza soluzione di continuità. Indubbiamente davano un’enorme soddisfazione dal punto di vista organolettico. Oltre al colore (che non corrispondeva assolutamente a un gusto particolare, avevano tutte lo stesso sapore di zucchero e gomma da masticare) variava il diametro e conseguentemente il volume: il primo morso era quello decisivo e i veri intenditori cercavano di prolungare quella sensazione il più possibile.

Poco tempo dopo c’è stata la vera rivoluzione con la versione ammessa dalle convenzioni sociali perché dotata di un minimo di elementi di tracciabilità alimentare. Mi riferisco alle note Big Babol, che io avrei chiamato direttamente Big Bubble ma da bambino avevo una cotta per Daniela Goggi – la testimonial -, non chiedetemi perché. Non mastico una Big Babol da una vita ma ci ho pensato qualche giorno fa in un negozio di abbigliamento, quando una commessa ha definito “Big Babol” il colore di una gonna che voleva proporre – fortunatamente senza successo – a mia moglie. Si è trattato di un caso limite, ma in generale se sei abituato a vestire con colori standard e mi riferisco al blu, al nero, al tortora, poi è difficile spostarsi da lì. Ma non è un problema per noi adulti.

Piuttosto ho rivisto il colore “Big Babol” in un insieme di pantoni altrettanto sgargianti quanto artificiali indosso a una coppia di giovanissimi, l’ennesima occasione perduta dal mondo delle nuove generazioni per dimostrare qualcosa con l’abbigliamento. Rabbia, protesta ma ad oggi ci accontenteremmo anche di una soddisfatta omologazione al sistema, perché no. Ci sono tanti canali individuali per dimostrare qualcosa a se stessi se proprio non ci interessa il prossimo, e non riesco a spiegarmi perché nessuno li sfrutti più. Le t-shirt non dicono più nulla, i pantaloni al massimo hanno rimandi allo sfruttamento minorile in estremo oriente, le scarpe sono solo di gomma e molto spesso puzzano. In questo i nostri insegnanti dovrebbero essere coperti d’oro solo per tutte le ore che trascorrono in luoghi al chiuso gremiti di ragazzini che calzano sneakers.

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«Dovresti esercitarti nei dialoghi, non puoi continuare all’infinito raccontando cose attraverso discorsi indiretti.»

Il solo fatto di aver trovato facilmente con Google la combinazione di tasti da digitare per ottenere i caporali aperti e chiusi, come nei libri stampati, gli aveva stimolato un nuovo modello di scrittura, sebbene nei suoi post non sentisse così pressante l’esigenza di cambiare il proprio stile. Considerando anche la discutibile popolarità che stava riscuotendo, testimoniata dal freddo rendiconto delle statistiche, non vedeva un gran bisogno di apportare novità. Ma quell’interlocutore inventato, che solo grazie a interventi in prima persona aveva trovato come attirare il suo interesse, sembrava non voler lasciarsi scappare un’opportunità così facile per ritagliarsi un po’ di consenso.

«Non so. Sono perplesso.» gli rispose. «Di certo dipende dall’autorevolezza della controparte. Non mi pare, tanto per fare un esempio, che alle tue parole corrisponda una personalità stand-alone. Sei in grado di provarmi il contrario?»

Non aveva tutti i torti. Dare voce a personaggi inventati per finzioni narrative era provato essere una pratica rischiosa per certi autori come lui, con poca esperienza editoriale, anzi nulla. Potevano manifestarsi infatti controindicazioni ed effetti collaterali. Potevano prendere vita alter ego con sufficiente attitudine all’indagine psicologica da notare e mettere per iscritto dettagli intimi spuntati dalla sera alla mattina, nuove angosce o pensieri fino ad allora compressi dalla quotidianità. Ma anche particolari fisici mai notati a causa dell’abbigliamento consono alle stagioni fredde, tutti quegli strati da cui si capisce poco o niente di come è fatto un corpo. Carne in eccesso all’estremità inferiore della schiena strizzata sopra la cintura. Ma anche cose ridicole come singole sopracciglia di lunghezza spropositata rispetto ai parametri medi di crescita.

«Ti ricordi quella pratica di fotografare due persone in un unico scatto separate tra di loro?» lo incalzò per ritagliarsi ancora qualche istante di vita prima della fine del post. «Così si stampava una sola copia per risparmiare e la si tagliava a metà con un soggetto in una e uno nell’altra da consegnare ai rispettivi interessati? Potrei essere la persona ritratta nella parte mancante di quella che hai trovato nell’agenda di seconda liceo a casa dei tuoi genitori.»

L’autore provò a ricordarsi di quel particolare. Poteva trattarsi di uno di quegli amici vestiti da comunione e liberazione, con k-way, abiti sportivi e scarpe da trekking come se dovessero farsi trovare sempre pronti a inerpicarsi su per le montagne per avvicinarsi il più possibile a Dio. O peggio, uno di quegli esagitati fanatici dei videogiochi da bar che muovevano il loro corpo in modo osceno, simulando quasi un amplesso con la macchina, dando così maggior potenza alla mano sul joystick e alle dita sui pulsanti per far saltare ammassi di pixel antropomorfi verso monete, cuoricini, frutta e varie amenità remunerative.

«Meglio che torni a esprimermi tra me e me». Questa gli sembrò la risposta più sincera con cui tornare alle sue abitudini. «Magari un giorno proverò con un romanzo, ho già in mente una trama. Se torni nelle bozze di WordPress e te ne stai buono lì è facile che abbia davvero bisogno di un protagonista». Per quella voce invisibile, al momento, non c’era ancora posto.

italian graffiti

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Se ve la devo dire tutta, non ho mai pensato si tratti di una forma d’arte, per lo meno non generalizzata. Mi spiego. Se ho la velleità di fare il musicista, registro il mio pezzo, lo metto online da qualche parte o lo distribuisco su cd, ma la fruizione rientra nel libero arbitrio del pubblico. Se voglio fare lo scrittore il processo è analogo. Per i graffittari è per forza di cose diverso, scelgono un muro e via di spray, e l’opera è in mostra permanente, a portata di tutti. Se è gradevole, ben venga. Ma i muri e gli arredi degli spazi pubblici li pasticciano sia gli esponenti più in voga della street art che lo scavezzacollo qualunque armato di bomboletta che si dichiara alla compagna di banco. E il passante è costretto ad ammirarle entrambe, la bella e la brutta, la vis espressiva e la ciofeca, il che non sarebbe un problema se si trattasse invece di una mostra temporanea che un bel giorno termina, la disallestisci e finisce lì. Certe opere d’arte rimangono illese fino alla successiva mano di pittura, o fino all’intervento vendicativo del rivale di turno. Volano persino schiaffi ai restauratori se colti sul fatto a danneggiare la proprietà intellettuale, raramente l’artista urban è talmente umile da incoraggiare il work in progress delle proprie creazioni. A Genova, anni addietro, era praticamente impossibile trovare una qualsiasi tag non violata da un baffo di vernice bianca, una firma di disprezzo posta in calce alla cattiva educazione altrui di appropriarsi di beni comuni, anche se desueti o altrimenti non utilizzabili. Oggi, a maggior ragione che il 2011 è l’anno internazionale della chimica, è sufficiente una passata di non so quale solvente per riportare muri, piastrellati e non, all’antica foggia, bella o brutta che sia. Così vedere il personale addetto a questo tipo di operazioni, che non esisterebbero se gli artisti metropolitani utilizzassero tele o qualsiasi altra cosa rimovibile, mi mette sempre di buonumore. Sicuramente loro sono meno entusiasti di passare ore a cancellare farneticazioni murali dalla nostra lettura forzata quotidiana, immersi (soggetto: loro) negli aromi di certo poco salubri ma virtuosi della redenzione civica, posso anche capirlo, così cerco di ringraziarli sempre – e non sono l’unico – per l’impegno profuso nel togliere di mezzo acriticamente (ma il gioco vale la candela) capolavori e fuffa.

you are what you write

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Immagino sia una funzionalità di ogni piattaforma di blogging: nel pannello di controllo di WordPress, oltre alla conta delle visite, c’è l’elenco delle parole che i miei utenti (scusate, ma stento ancora chiamarvi lettori, la responsabilità che ne deriva mi spaventa non poco) hanno inserito nei motori di ricerca per avere, come esito, il mio unico e inconfondibile url. Piccola deformazione professionale, dovendo cimentarmi quotidianamente anche con i princìpi di SEM e SEO per mettere insieme uno stipendio a fine mese. Una forma di voyeurismo anonimo ma comunque divertente, un modo di intercettare le ricerche in Internet altrui.

Nel report spicca la stragrande maggioranza di stringhe di testo contenenti “Sanremo”, quindi “onorevole Iva Zanicchi”, un buon numero di “The Sound” e “Jeopardy”, il che mi ha sorpreso, trattandosi di una delle band più sottovalutate della storia della musica.

Cose inquietanti, tipo “pupille da eroina” e “problemi di acidità”, l’immancabile e nazionalpopolare “figa”, allo stesso modo “Tini Cansino”. Una marea di frasi incomprensibili, sgrammaticate e zeppe di refusi (ecco perché portano qui, probabilmente) tipo “vignetta che studia” e “scrivere un racconto di come o pasato il natale”. Infine, avendo scelto un titolo come “alcuni aneddoti dal mio futuro”, ho riscontrato una strenua e continua ricerca di motti e facezie mista a richieste di divinazione, quasi che gli italiani si affidino a Google per fare rifornimento di battute o spunti di conversazione e per sapere cosa ne sarà della loro vita.

Il bilancio: per quanto da queste parti ci si atteggi a influencer di politica, cultura, sociologia della comunicazione e nuovi media, alla fine il mio blog altro non è che un sano ricettacolo di musica pop e cazzate.