avere tempo da perdere

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Ricevo da Marcello, un amico ricercatore nonché zelante cultore di dolci da pausa the, e pubblico più che volentieri, questo testo di una profondità esemplare per chi, come me, ama descrivere la musica con le parole (spesso non riuscendo nell’intento). L’amico è stato ad un live, il gruppo sul palco ha incluso in scaletta un brano arrangiato diversamente, tanto che Marcello non è riuscito a riconoscerlo subito, lasciandogli quello stato d’animo misto tra il beato e il sofferente che solo il potere evocativo della musica può dare. Fino a quando, il weekend successivo, in un altro club, Marcello ritrova quella stessa frase, capisce di che pezzo si tratti riuscendo così finalmente a risolvere il suo struggimento interiore.

“La scorsa settimana, durante un concerto, ho sentito suonare un pezzo strumentale. Dapprima avevo gustato solo la qualità materiale dei suoni provenienti dai vari strumenti. E già era stato un gran piacere quando, sotto l’esile linea della chitarra, tenue, tenace, densa, imperiosa, avevo d’improvviso avvertito cercar di elevarsi un liquido sciacquio, la massa della parte per tastiere, multiforme, indivisa, piana e contrastante come il violaceo affanno dei flutti che incanta e bemollizza la luna. Ma a un dato momento, senza poter nettamente distinguere un contorno, dare un nome a quanto mi piaceva, d’improvviso affascinato, avevo cercato di afferrare la frase o l’armonia, io stesso non sapevo, che passava e che aveva aperto più largamente il cuore come certi profumi di rose, fluttuando nell’umida aria della sera, hanno il potere di dilatare le nostre narici.

Forse era stato il non conoscere quel pezzo a farmi provare un’impressione così confusa, una di quelle impressioni che forse sono le sole puramente musicali, inattese, compiutamente originali, irreducibili a qualsiasi altro ordine d’impressioni. Una impressione simile, per un istante, è per così dire immateriale. Senza alcun dubbio le note che udiamo allora tendono già, secondo la loro altezza e la loro quantità, a coprir davanti a noi superfici di varie dimensioni, a tracciare arabeschi, a elargirci sensazioni di vastità, tenuità, stabilità, capriccio. Ma le note sono svanite prima che queste sensazioni possono essersi così formate in noi da non venir sommerse da quelle che già cominciano a svegliare le note successive o magari simultanee. E questa impressione continuerà ad avviluppare della sua liquidità e della sua incertezza i motivi che ne affiorano a tratti, appena discernibili, per risprofondare immediatamente e scomparire, noti unicamente al vago piacere che suscitano, impossibili a descrivere, a ricordare, a nominare, ineffabili – se la memoria, come un operaio che lavora a stabilire fondamenta durature in mezzo alle onde, fabbricando per noi facsimili di quelle frasi fuggitive, non ci permettesse di confrontarle a quelle successive e di differenziarle.

Così, la deliziosa sensazione che avevo avvertito era appena svanita e già la mia memoria me ne aveva offerta seduta stante una trascrizione sommaria e provvisoria, ma su cui avevo concentrato la mia attenzione, mentre il pezzo continuava, tanto che, quando la stessa impressione era di colpo tornata, non risultava più del tutto inafferrabile. Io ne rappresentavo l’estensione, gli aggruppamenti simmetrici, la grafia, il valore espressivo; avevo davanti a me questa cosa che non era più pura musica, che era anche disegno, architettura, pensiero e che permetteva di ricordare la musica. Questa volta avevo distinto nettamente una frase elevarsi per qualche attimo sopra le onde sonore. E lei aveva immediatamente proposto particolari voluttà, che non avevo mai immaginato prima di udirla, che, lo sentivo, soltanto lei avrebbe potuto farmi assaporare; e avevo provato per lei come un amore ignoto.

Con lento ritmo mi dirigeva dapprima qui, poi là, poi altrove, verso una felicità nobile, inintellegibile ed esatta. E, d’improvviso, al punto cui era arrivata e da cui io mi preparavo a seguirla, dopo un istante di pausa, bruscamente lei cambiava direzione e con un movimento nuovo, più rapido, fitto, malinconico, incessante e dolce mi trascinava con sè verso prospettive sconosciute. Poi lei scomparve. Io ho desiderato appassionatamente di rincontrarla una terza volta. E infatti lei è ricomparsa, ma senza parlarmi più chiaramente, causandomi anzi una voluttà meno profonda.

Ma, rincasato, ne sentì il bisogno: ero come un uomo nella vita del quale una passante intravista per una attimo abbia fatto penetrare un’immagine di bellezza nuova, capace di conferire maggior valore alla sua sensibilità, un uomo che, però, ignori anche solo se potrà mai rivedere quella di cui è già innamorato e di cui gli è sconosciuto persino il nome.

Questa passione per una frase musicale parve suscitare in me persino la possibilità di una specie di ringiovanimento. Da tanto tempo avevo rinunciato a consacrare la mia vita a un fine ideale e da tanto tempo limitavo la mia vita alla ricerca delle soddisfazioni quotidiane, che ormai ero convinto, pur senza dirmelo esplicitamente, che non sarebbe più cambiato nulla per me sino alla morte; e anzi, non sentendomi più nella mente idee elevate, avevo smesso di credere alla loro realtà, senza poterla tuttavia negare del tutto. Così avevo preso l’abitudine di rifugiarmi in pensieri senza importanza che mi consentissero di lasciar da parte il fondo delle cose.

Come non mi chiedevo se non avrei fatto meglio a non uscire, ma in compenso sapevo con certezza che, se qualcuno mi avesse invitato da qualche parte, non dovevo mancare e che, se non facevo visite dopo, dovevo lasciare il mio numero di cellulare e, allo stesso modo, nella conversazione, mi sforzavo di non esprimere mai con slancio un’opinione personale sulle cose, ma di fornire particolari materiali che fossero in grado di valere in qualche modo di per sè e che mi permettessero di non espormi troppo. Ero straordinariamente preciso a proposito di una ricetta di cucina, della data di nascita o di morte di un regista, nella filmografia di costui. A volte, nonostante tutto, mi lasciavo andare a esprimere un giudizio su un lavoro, su un modo di intendere la vita, ma allora conferivo alle mie parole un tono ironico come se io non aderissi completamente a quanto dicevo.

Ora, come certe persone sofferenti nelle quali, di colpo, un nuovo paese cui sono arrivate, un diverso regime, a volte un’evoluzione organica, spontanea e misteriosa paiono apportare una tale regressione del male da far loro cominciare a intravedere l’insperata possibilità d’iniziare sul finire dei loro anni un’esistenza tutta differente, io trovavo in me, nel ricordare la frase che avevo sentito, in certi altri pezzi che avevo scaricato nel tentativo di rintracciarla, la presenza d’una di quelle realtà invisibili cui avevo cessato di credere e cui, quasi la musica avesse avuto una specie di influenza elettiva sull’aridità morale che mi affliggeva, avvertivo di nuovo il desiderio e pressochè la forza di consacrare la mia vita. Ma, non essendo riuscito a sapere di chi fosse il pezzo che avevo sentito, non avevo potuto procurarmelo e avevo finito per scordarlo.

Avevo sì incontrato nel corso della settimana qualcuno che si era trovato come me a quel dato concerto, e l’avevo anche interrogato; ma molti erano arrivati dopo l’esecuzione oppure se ne erano andati prima; altri, tuttavia, eran stati presenti durante l’esecuzione, ma si erano spostati a parlare al bar, e altri, restati ad ascoltare, non avevan sentito più dei primi. Quanto ai proprietari del locale, sapevano che si trattava di una cover che gli artisti da loro ingaggiati per quella serata avevano chiesto di suonare; e questi ultimi erano partiti in tournée; io, così, non avevo potuto apprendere di più. Avevo, è vero, amici musicisti, ma, pur ricordando lo speciale e intraducibile piacere che mi aveva dato la frase, pur rivendendo le forme che lei aveva disegnato per i miei occhi, ero incapace anche di canticchiargliela. E dunque smisi di pensarci.

Ieri sera, appena qualche minuto dopo che la band aveva cominciato a suonare in quel club, d’improvviso, dopo una nota lungamente tenuta per due battute, io la sentì avvicinarsi, sfuggendo da sotto quella sonorità prolungata e tesa come una cortina sonora per nascondere il mistero della sua incubazione, la riconobbi, segreta, sussurrante e staccata, lei, la frase aerea e odorosa che tanto amavo. Era così singolare, aveva un fascino così individuale e insostituibile che per me fu come rincontrare in un salotto amico una persona che avessi ammirato per la strada e che disperassi ormai di rintracciare. Alla fine, lei si allontanò, singnificativa e diligente, tra le ramificazioni del suo profumo, lasciando sulla mia faccia il riflesso del suo sorriso. Ma adesso potevo chiedere il nome della sconosciuta (mi fu detto che si trattava di un vecchio brano dei Massive Attack), la possedevo, l’avrei potuta avere presso di me tutte le volte che lo avessi desiderato, avrei potuto tentare di impararne il linguaggio e il segreto”.