la vita spiegata a un turista che non voleva esserlo

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Dicono che certi imprevisti fanno germogliare il seme – latente in noi – della vulnerabilità. Occorre però prima dimostrare quali sono i fattori che ne aumentano le probabilità del manifestarsi, ammesso che esistano. Voglio dire, uno passa l’adolescenza a girare in lungo e in largo facendo l’autostop e il massimo che gli capita è respingere l’approccio innocuo di qualche esponente della terza età attirato dagli studenti delle superiori e poi, l’unica volta che noleggia un’auto di quelle che mai penserebbe di acquistare, qualcosa di non bene identificato gli si pianta nel parabrezza causando una crepa impossibile da occultare al proprietario e chissà a quanto ammonterà la riparazione. Ma le cose si susseguono senza capo né coda, così quando di corteccia ne hai poca paradossalmente sei più impermeabile di quando hai una scorza spessa quanto una noce di cocco e trasudare fuori le ansie in circolo costituisce un’operazione complessa quanto il monumento più duraturo del bronzo degli antichi romani. Ma cosa dovremmo fare? Passare il resto della nostra vita su divani Chateau d’Ax a far scorrere canali di televendite e a mettere su chili lasciandoci vivere solo nelle funzioni involontarie? No, ma fare i conti con il mix tra età e indole non c’è proprio nulla di male. La cassetta con il kit del pronto soccorso psicologico non la trovi in ogni frangente, e portarsi il proprio fardello da casa ogni volta che ci si muove fuori dall’ordinario – tra la gente, per il mondo, ma anche nell’inesplorato delle esperienze mai provate – purtroppo fuoriesce dai canoni accettabili del confort. La sensazione è la stessa di sbagliare clamorosamente l’abbigliamento per un viaggio con quelle giacche che ti fanno sudare la schiena ma non si possono legare in vita. Che volete farci, anzi, non c’è proprio nulla da fare. Io ho parzialmente risolto lasciandomi nella piacevole balia di chi ne sa più di me, se avete la fortuna di averne almeno uno a portata di mano accozzatevi come se non ci fosse un domani, anche se magari ce n’è più di uno.

senilità, o della vecchiezza latente dentro

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Invecchiare in un ambiente e in una società pesantemente ordinari come i nostri costituisce una delle principali cause di annullamento del desiderio di evasione. Si tratta di un decorso di cui non ci rendiamo conto per via del fenomeno dell’assuefazione al presente, che è un po’ lo stesso che ci fa stemperare il passato in brodo annacquato ma con il minimo necessario di sostanze vitali necessarie a una sussistenza vegetativa di base. E non mi riferisco certo alle esperienze di sopravvivenza estrema di quella famigliola di fricchettoni del sud con cui ho scambiato quattro chiacchiere oggi nel centro di Amsterdam. Lui che di mestiere fa l’artista di strada, un concetto vago e opinabile tanto quanto lo stesso concetto di arte e che per darmi indicazioni usava come riferimento l’ubicazione dei coffee shop che conosceva, con la compagna e una bimba di due anni ad abitare in porzioni di case subaffittate da profughi di guerra del medio oriente che ottengono appartamenti gratis dal governo olandese per poi trarne profitto così alla faccia del welfare.

Credo che l’annichilimento della curiosità sia il male del secolo per noi italiani, e senza entrare nello specifico delle cose che ci ripetiamo tutti i giorni e che riguardano il modo in cui trattiamo la cultura, la tv che guardiamo, la qualità di quel poco che leggiamo eccetera. Oggi ho pensato che anche solo gli standard che siamo abituati a osservare dentro e fuori gli spazi che abitiamo sono cose che assottigliano il nostro cervello come le saponette consumate, quelle che non gettiamo perché comunque continuano a fornirci il minimo indispensabile per lavarci mani, faccia e ascelle la mattina.

Osservavo invece persone con scale di priorità completamente ribaltate rispetto alle nostre proprio ad Amsterdam: dagli appartamenti piano terra con vetrate che non capisci mai se è un negozio o una casa privata da quello che contengono agli spazi oltre l’IJ che tra avanguardie artistiche e architettoniche possono costituire un presagio di città apocalittica tanto vanno oltre la nostra immaginazione urbana fatta di standard sociali e ed estetici. Intendevo invece famiglie normali, mica gli sconvoltoni che vanno ad Amsterdam per stracannarsi senza sosta, comunque altrettanto rilassati nel prendere la vita, le cose, il prossimo a differenza dei nostri stereotipi con cui insistiamo nell’interpretazione dl nostro ambiente più famigliare.

Io, per esempio, mi ritengo una vittima irrecuperabile di questo processo di de-evoluzione. L’ordinarietà dell’Italia e degli italiani mi ha fatto passare la voglia di viaggiare, mi ha fatto fare il pieno di paure e mi costringe a sforzi emotivi molto frustranti quando mi trovo in contesti completamente diversi come quelli mitteleuropei. Mi sento assalire dalla paura del nuovo, del moderno, di un futuro incomprensibile che in realtà altrove, ma non da noi, è già parte del quotidiano. A me trasmette l’essenza della catastrofe, dell’ineluttabilità del tempo, del fatto che è difficile che noi, abituati alla totale immobilità, potremmo mai tenere un passo così superbamente rapido di popoli di corsa per allontanarsi da una situazione economica globale così difficile.

Forse la causa è tutta nelle piccole cose di comodo con cui ci facciamo consolare: il patrimonio artistico, si mangia bene e le donne sono belle e prodighe di passione, chissà. O forse sono io che sono vecchio, ormai trovo complesso l’adattamento all’ambiente anche se sono certo trattarsi di un’età che ho dentro che, per certi aspetti, era già piuttosto avanzata prima.