la nevicata dell’85

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Alle ragazze dell’artistico piace far le strane ma mica si lasciano puntare come tutte le altre. Stanno sedute al tavolo più esclusivo della Sala da The e ordinano un punch al rum dopo l’altro alle nove del mattino. Noi proviamo a fissarle dritte negli occhi impiastrati di eyeliner con quell’approccio che è tipico del gioco delle parti alla nostra età, ma loro non si lasciano intimorire e tengono botta. Al massimo, se una si scoccia, non ci mette niente a sedersi dandoti la schiena, che è il solito modo umiliante di dire che no, grazie, non mi interessi. Le studentesse dell’artistico sono abituate a un genere di ragazzi così trasgressivi che noi ce lo possiamo scordare. Io li conosco perché ne frequento un paio, darkettoni come me, che comunque non sono così trasgressivi come quelli che hanno già fatto anche qualche esperienza con l’eroina. Ma nella Sala da The i ragazzi dell’artistico nemmeno ci mettono piede, tanto è un posto ordinario dove passare le mattine in cui si salta o c’è sciopero e non si va a scuola.

Stamattina è tutto chiuso perché è nevicato e siccome qui non è le dolomiti gli autobus slittano, sbandano e si mettono pericolosamente di traverso. Nessuno è provvisto di pale per pulire i marciapiedi né di sale, per questo l’assessore ha deciso che è meglio lasciar stare tutti a casa. Noi però non vogliamo perdere nemmeno un’occasione per darci da fare. Con tutto quel bianco in giro, poi, noi vestiti tutti di nero siamo l’esatto contrario di come sono le cose. C’è così bianco in giro che persino noi siamo attoniti, stringiamo gli occhi a fessura per non farci abbagliare. E conciati così come i Bauhaus è facile notarci, con tutta quella neve in giro, cosi per farci una canna in santa pace dobbiamo trovare un luogo più appartato del solito.

La pratica dell’appetito chimico la sbrighiamo con cappuccio e brioches in quel bar di provincia dal nome sorprendentemente raffinato, puntando le ragazze dell’artistico che sicuramente hanno fumato anche loro. Parlano delle loro discipline derivate dalla pratica della riproduzione della realtà e noi, che al massimo riusciamo a malapena a citare filosofi e autori latini, non sappiamo trovare una scusa per intrometterci nella conversazione. Sono truccate pesantemente e anche se si vede lontano un miglio che ascoltano la nostra stessa musica sembra che a loro non interessi socializzare con noi.

Per quello dopo un po’ ci scocciamo e ce ne andiamo. Quella stessa sera ci sarà uno spettacolo comico di Gino Bramieri, al teatro comunale. Siamo ancora belli cotti quando Gino Bramieri si mette al nostro fianco a osservare dei capi di abbigliamento da gente di un certo livello in una vetrina davanti alla quale ci fermiamo dopo, rientrando a casa, ma solo per vedere nel riflesso se la pettinatura cotonata ha tenuto bene. Vorrei dirlo a tutti che Gino Bramieri ha sfiorato il mio cappottone nero con il suo montone da milanese, ma mi scappa da ridere, sapete tutti vero come ci si sente quando si fuma un po’ di erba la mattina.

non è per niente facile la vita a due, figuriamoci in quattro

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Della mia vita con Marco potrei scrivere un blog a sé, non so a chi interesserebbe a parte me, anche se voglio dire non è che qui ci sia tutto ‘sto traffico quindi comunque due parole le vorrei spendere. Soprattutto perché oggi mi è venuto in mente di quando abbiamo fatto conoscenza con quelle due ragazze in quel locale sul lungomare di Nervi e Marco che si era subito appartato su una panchina le aveva vomitato sulle scarpe, in effetti avevamo bevuto abbastanza. Forse era per quello che all’appuntamento successivo, sarà stato per il fine settimana dopo, non si sono presentate o forse si erano nascoste per studiare la nostra reazione, vedere quanto saremmo rimasti ad aspettarle, o anche solo farsi due risate per vendicarsi dell’onta ricevuta. Perché la performance di stomaco di Marco aveva anche guastato la serata a me e all’altra, io notoriamente sono più lento in queste cose e insomma non avevo mica ancora concluso niente ed è finita che poi ci siamo messi tutti ad aiutare Marco a sistemare le cose e anche un po’ a pulire. Ma la svolta c’è stata la settimana successiva, quando si sono presentate al bar che frequentavamo e in cui si rimediava sempre qualcosa da fumare. Era appena uscito “In utero” e ne valutavamo le potenzialità bevendo sambuca, e poi le abbiamo viste entrare, comprare delle caramelle – era evidente che si trattava di una scusa – e allontanarsi. Quindi sapevano dove quelli come Marco e il sottoscritto si incontravano? Ci avevano seguito? Che cosa volevano esattamente? Tra l’altro era la prima volta che le vedevamo alla luce e entrambi avevamo notato certe imperfezioni che, vuoi la sbornia vuoi la vita notturna ci erano sfuggite. Non che fossimo due adoni, io e lui, quindi evitatemi la paternale perché sono perfettamente consapevole dei miei limiti e delle mie possibilità. Voglio solo sottolineare che quella che sembrava avere il suo destino perpendicolare al mio vista di giorno e non in abito scuro sembrava un po’ tarchiata. La ragazza che spettava a Marco invece secondo me era proprio sgradevole e non certo fisicamente, Marco però nella sua immensa sensibilità coglieva cose nelle persone che io proprio non vedevo nemmeno al microscopio. Tra l’altro Marco è già comparso altre volte su questo blog ma sotto falso nome, e oggi mi chiedo (e chiedo anche a voi) se c’è bisogno di dare diverse identità o di mantenere l’anonimato quando si raccontano episodi della propria vita che riguardano altre persone. Perché poi la cosa che ricorreva sempre nella mia vita con Marco è che storielle come questa ce ne sono capitate a decine ma dovessi dire non ricordo assolutamente come sono andate a finire, perché dopo che le due ragazze sono uscite dal bar, terminata la sambuca e ascoltata l’ultima traccia di “In utero” probabilmente ne abbiamo iniziata un’altra, di storiella, che si è mescolata con il finale di questa.

tanto fumo e poco arrosto

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Il cugino di Ale è il primo che conosco a dichiarare apertamente che consumare droghe leggere, benché pratica ludica che mantiene un’attrattiva senza confronti su giovani e meno giovani, è un canale fruttuoso di sostentamento della mala. Meglio farsi un bicchierino in più, che anche se ti distrugge il fegato alla fine sovvenzioni lo stato con il suo monopolio. Ma è una mosca bianca. Tutti gli altri non si fanno problemi, conoscono i tizi giusti che hanno sempre qualche stecca da vendere, mentre la materia prima – l’erba di cui parlano i testi delle canzoni reggae che alcuni hanno preso ad ascoltare – non è facile da recuperare. I canali che verranno solo dopo da alcuni paesi del Patto di Varsavia affacciati sull’Adriatico non sono ancora attivi, portarla da Amsterdam è un rischio che nessuno vuole correre, quelli che se la coltivano sul balcone o nella serra probabilmente devono ancora nascere.

Sul diario di Linus c’è chi mette persino gli asterischi a fianco della data, che non si capisce mai se stanno a indicare le volte in cui hanno fatto sesso con la tipa o la canna fumata. Si tratta di un rito collettivo con una sua liturgia che agli scettici fa sorridere, ma tanto dopo qualche tiro sorridono tutti indistintamente. Massimiliano non ha assolutamente manualità nell’arte del rollare, poi ha le dita sudate e quando è il momento di leccare la colla la cartina gli resta appiccicata alla lingua e fa cadere tutto. Chi ha il palmo bagnato poi gli rimangono attaccate le briciole quindi c’è sempre qualcuno che si mette pazientemente a grattare via i residui facendo il solletico.

Si fa la posta fuori dal bar ad aspettare Paolo che ci dia buone notizie. Il suo grossista gli lascia una chiave di riserva dell’A112 parcheggiata più avanti, Paolo entra, si prende quello che gli serve e gli lascia i soldi contati nel cassetto del cruscotto, in una forma di automatismo ante-litteram che se un giorno davvero sarà legale tutto questo sbattimento farà ridere. E la libertà con cui si consuma in giro va a periodi. Carmine tiene nascosto un cilum sotto un’agave al parco, mentre Piero usa la cintura di cuoio, ma per queste modalità di assunzione così evidenti è meglio appartarsi o starsene a casa. Dario ha una 126 con cui riesce a passare in stradine strette in cui nessuna volante potrebbe avventurarsi e così non si preoccupa di andare sempre nello stesso posto a cui ha dato pure un nome. Quelli squattrinati sanno dove quelli ricchi si vedono per stordirsi ben bene e fanno spesso ricognizioni per vedere se magari qualcuno ha perso qualcosa. Se vedi infatti gente di notte con la pila a bestemmiare controllando centimetro per centimetro per terra è di certo il dramma che si è consumato: qualcuno con le mani di ricotta si è lasciato scappare l’ultima caccola rimasta della sera e ciao.

E Piero, quello del cilum con la cintura, si è fatto beccare in casa le cartine lunghe da sua madre che, con una pazienza che non vi sto a dire, su ognuna gli ha scritto “sei uno stronzo”. Se si va a mangiare fuori poi qualcuno ne prepara una nel bagno della trattoria e, una volta pagato il conto, ci si mette fuori a condividere quell’ammazzacaffè comunitario. Invece nei lunghi viaggi in treno delle licenze a militare Renato rolla nei cessi della seconda classe poi accende e si fuma la prima metà mentre il suo commilitone e compagno di viaggio (che non sono io eh) lo aspetta fuori come se attendesse il suo turno per fare la pipì, quindi gli dà il cambio e fuma la parte rimanente.

Ci sono poi i sostenitori dei modi più fantasiosi di consumo: la mela, la bottiglia, il baffo, il carciofo. Un lessico tecnico che non ha eguali a partire anche dai componenti essenziali – la mutanda, il castello – e dal gergo con cui la sostanza viene chiamata a seconda della latitudine. Il più azzeccato che ho mai sentito è “citrone”. Il più imbarazzante è sicuramente “free joint bambulè”, che sembra uscito da un film di Verdone.

Terminologia a parte, le più belle comunque sono quelle in casa rilassati ascoltando per la prima volta un disco appena acquistato, con i genitori in vacanza e senza la preoccupazione che si riconosca l’odore. Francesca, per dire, ne percepisce la fragranza anche a distanza di giorni e si offende se sale in macchina e di fumo non c’è nemmeno l’ombra, e tu vai a spiegarle che ha sentito l’odore di quella di domenica scorsa.

I cani addestrati pure ma per ben altri scopi: sguinzagliati nei furgoni delle band in giro per l’Italia a suonare per due lire impazziscono da come i sedili ne sono impregnati. Qualcuno passa persino qualche guaio, come quello che ora è tutto preso dai grillisti che ha venduto ventimila lire di hashish a un carabiniere in borghese che gli si era presentato con una fascia sulla fronte con l’effigie della foglia di marijuana, ma quello è un caso limite di ingenua spavalderia che, giustamente, non poteva che andare a ingrossare le file dei cinquestelle. Qualcun altro invece riesce sempre a scamparla anche grazie a eccessi di prudenza che, comunque, alla lunga premiano. Si tratta pur di una pratica fuorilegge che arricchisce la mala, come diceva il cugino di Ale, e la legge – almeno fino ad oggi – non scherza proprio per un cazzo.

paola chi l’ha vista?

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Paola ed io abbiamo continuato a mandarci sms di auguri di Natale per anni, una pratica piuttosto comune se non fosse che non c’eravamo mai più visti né incontrati per caso e nessuno dei due si preoccupava di chiamare o contattare l’altro nei restanti mesi. Si faceva a gara a chi per primo, il 24, mandava il messaggio più grondante di sincero affetto digitale. Cose tipo un immenso augurio a te e alla tua famiglia, mantengo sempre il tuo ricordo e spero prima o poi di riabbracciarti di persona, che scritto fa un po’ effetto se qualcuno soffre le smancerie ma in fondo era vero.

Paola era stata per anni insieme a Federico, un chitarrista che prima di fondare insieme a me una divertentissima cover band di new wave ri-arrangiata in chiave prevalentemente drum’n’bass aveva impersonato – ma moltissimi anni prima – Andy Summers in un trio che scopiazzava smaccatamente i Police sia nel genere che nel look. Tre ragazzini biondi e dalle fattezze tutt’altro che mediterranee con il loro seguito di groupies tra cui, appunto, Paola. Lei era una fan della band di “Message in a battle” della prima ora e, come me, amava alla follia gli esordi del gruppo tanto quanto schifava le gesta soliste di Sting. Ricordo un suo concerto passato proprio con lei fuori dai cancelli (mai avremmo acquistato un biglietto per arricchire il traditore del secolo) ad aspettare che l’ex cantante dei Police suonasse qualcuno dei brani indimenticabili di “Outlandos d’Amour” o “Ghost in the machine” anziché quella roba melensa e patinata in salsa pop jazz composta dopo i dissidi con gli altri due componenti, e invece poi eravamo scappati dopo un “Bring on the night” in una versione che non ve la sto nemmeno a raccontare.

Comunque Paola e Federico si sono presi e mollati un centinaio di volte fino a quella decisiva, ai tempi appunto della cover band che vi dicevo sopra. Paola mi chiamava in lacrime, una volta ci siamo pure incontrati in macchina perché voleva che leggessi una lettera, forse Federico aveva addirittura perso il controllo ed era volato qualche spintone e il problema era che avevano già comprato casa. Dopo che si sono lasciati definitivamente abbiamo perso i contatti, io mi stavo trasferendo in una nuova città per lavoro e poi però c’era il problema di chi dei due doversi tenere come amico, sapete come succede quando si sfalda una coppia.

Quasi dimenticavo di scrivere che Paola ha una sorella più piccola di sette anni che poi si era messa con il cantante dei Police de noantri, con grande preoccupazione della mamma di lei (il papà di Paola e della sorellina era morto quando erano ancora piccole entrambi) considerando l’ampio gap anagrafico. La cosa però mi aveva fatto rivalutare la possibilità di fare la corte a Luisa, che non c’entra niente con questa storia se non che aveva dodici anni in meno di me ma non preoccupatevi, è stata un’idea che ho accantonato in fretta.

Quindi dicevo un sms tra me e Paola ogni Natale, questo fino a quando – sarà successo tre anni fa? – ho cambiato il numero di telefono. In agenzia mi hanno dato un contratto aziendale flat, io non avevo voglia di dovermi portare dietro due dispositivi o prenderne uno dual-sim, fatto sta che la scheda ricaricabile che avevo dai tempi del Nokia 7110 con tutta la mia vita di contatti e finita nel dimenticatoio è stata disattivata. Io avevo dato il nuovo numero solo ai contatti più vicini in quel momento e potete immaginare com’è finita ed è per questo che ora sono veramente pentito. Potrei fare qualche tentativo per rintracciarla ma è strano perché in Internet, di lei, non c’è nessun segno e quando non trovo nulla mi viene sempre da pensare al peggio. Ecco Paola, magari qualche amico comune ti ha parlato di questo blog e niente, se ti va, scrivimi un bel commento di auguri al prossimo Natale, d’altronde mancano solo poco meno di quattro mesi.

nuoce gravemente alla salute

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Dario ha ripreso a fumare la sera in cui ha scoperto che Silvia lo tradiva con l’istruttore di aerobica come nelle peggio storie di provincia e nel modo più banale, notando cioè la 500 di Silvia parcheggiata nei pressi della palestra ben oltre l’orario di chiusura. Poteva essere accaduto di tutto, cose come un aperitivo con qualche amica del corso dopo l’ora di allenamento o l’auto rimasta in panne e lasciata lì, certo. Ma Dario ha sempre avuto un sesto senso per queste cose. La mattina di quel giorno perfetto per perdere un amore aveva giusto notato una bellissima cinquantenne – quelle che oggi il web chiama cougar o MILF a seconda del sito porno di riferimento – uscire verso l’ora di pranzo da una lussuosa villa nel quartiere collinare, un posto da ricchi, seguita a ruota da un giovane ragazzo scuro come la pece e grosso quanto quelli che si vedono nei video dei cantanti rap. Dario mi aveva confessato di aver pensato subito male, i due che si congedavano con un bacio sulla guancia dopo un’estenuante matinée di sesso extraconiugale alla faccia del padrone di casa al lavoro a capo della sua fabbrichetta, un particolare che ricordo perché poi gli avevo raccontato della mia premonizione quando avevo avuto un brivido assistendo all’illusione ottica di un aereo di linea che trapassava il matitone di Sampierdarena la sera prima delle Torri Gemelle. Una cosa non vi ho detto: Dario in realtà era già stato scaricato da Silvia, e forse proprio a causa del confronto impari con il coach, ma sapete come sono gli uomini. Insomma, Dario riconosce la 500 e si precipita al bar degli amici, sempre come nelle peggio storie di provincia.

Gli amici – ovviamente comuni, se no come farei a sapere questa storia – vedono Dario palesemente alterato dalla scoperta mentre gli racconta quello che suppone, poi acquista un pacchetto di non so che marca di sigarette e ritorna in fretta in macchina. E questa storia mi è tornata in mente perché, proprio stamani, ho sentito uno di quei tipi che non perdono un’occasione per abbordare le sconosciute chiedere alla sua vicina di posto in metropolitana tutta assorta da “Pastorale americana” in lingua originale se non fosse impegnativa la lettura di Philip Roth in inglese, e lei rispondergli con una flemma e un accento inconfondibile che era di Boston, Massachusetts. Un vero e proprio latin lover di altri tempi che indossava le stesse scarpe di tela che Dario portava fino allo sfinimento, ma tenete conto che oggi qui nevica e non ho potuto fare a meno di attivare un link tra i due avvenimenti, anche se quello che vede Dario protagonista risale a un’età dell’uomo precedente al momento in cui le persone si rivelassero completamente scollegate dalla natura circostante e utilizzassero snickers in giornate meteorologicamente proibitive.

Abbiamo lasciato Dario salire sulla sua macchina e ora lo vediamo già sulla strada, anzi, sull’autostrada sfrecciare verso la sua ex prima di Silvia, che forse aveva addirittura lasciato per Silvia, sapete che per certi maschi (se non quasi tutti) il darsi da fare subito anche solo per trovare conforto è una prassi consolidata. Sfrecciare per modo dire, l’utilitaria di Dario non permette velocità rischiose, e la cosa buffa è che se anche avesse infranto la barriera del suono non avrebbe trovato la sua ex prima di Silvia in casa, quella sera, per pura coincidenza. Supponiamo però che si sia fatto fuori quasi tutto il pacchetto tra l’andata e il ritorno come forma di monito al resto del mondo della sua volontà auto-distruttriva, un sacrificio inutile perché nessuno, davvero, poi è venuto mai a saperlo.

la vita al netto dei filtri di Instagram

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Dice di noi più una foto che millemila parole, sostengono i luoghi comuni, ma lasciatevi servire che un po’ me ne intendo che mica è vero. Se siamo disabituati a leggerci e a descriverci ciò non toglie che non facciamo più caso alle righe e alle parole nascoste tra di esse, che sovente sono anche più esplicite. Il guaio è che nelle conversazioni e nei soliloqui è difficile applicare gli effetti speciali che ne esaltano il significato, bisogna impegnarsi un po’ di più, metterci la testa, capire, e ci sta pure un sano fraintendimento perché il confrontarsi con la voce o con la penna (per modo di dire) è così. Ti capita una frase di senso compiuto e la tua attenzione coglie a fondo solo quello che vorresti ci fosse scritto, magari il sostantivo protagonista dei tuoi sogni in quel tuo momento storico e da lì non ti smuovi. Poi ti chiamano per tutti i chiarimenti e tu cadi dal pero. Avete presente, vero, quelli che ti scrivono una e-mail e poi ti telefonano per dirti che ti hanno mandato una e-mail e te ne raccontano per filo e per segno il contenuto? Si tratta di un caso di cross-media pure questo o è un banale esempio di mancato controllo delle proprie ansie? Ma è valido anche il processo inverso: mandi una e-mail a qualcuno anticipando che a breve lo chiamerai, e lasciatemi dire che così ha più senso, io lo faccio sempre perché la posta elettronica è meno invasiva e uno può leggersela anche se è a casa in mutande, non fa nessun tipo di squillo quindi non si corre il rischio di svegliare il destinatario, è impossibile disturbare la gente quando è a tavola. Le foto invece parlano chiaro e anche troppo, nei frequenti casi di sovraesposizione artistica per gli effetti vintage che vanno tanto di moda. Ma nessun filtro anni 70 è così potente da ricostruire ambienti che c’erano allora e che oggi hanno lasciato il posto a qualcosa di sicuramente più utile ma molto meno gradevole. Vedete questo enorme megastore bianco di articoli da ufficio in fondo a questa piccola strada a ridosso della ferrovia? Lì c’era un cinema, uno dei tanti che hanno ceduto il passo alla modernità e al business, che ancora prima era un teatro parrocchiale. In quella sala, che faceva per lo più spettacoli pomeridiani per ragazzi e bambini, ho visto pochissimi film, e a dir la verità ne ricordo solo due: No nukes, il film-concerto del 1980, e una pellicola dedicata ai Kiss di cui non ricordo il titolo e a dir la verità nemmeno la trama. C’era Sara seduta al mio fianco che sembrava aver fatto il bagno in uno dei profumi più di moda di allora e a me, a parte quello, non mi importava di nient’altro.

fantascienza di serie b

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Se sapessi che si tratta di Street Marketing chiamerei subito mio cugino Gian per dirgli che proprio sotto casa mia si sta consumando un riuscitissimo esperimento di Street Marketing. Ma considerando che sono ancora un ragazzino per me l’episodio a cui sto assistendo è poco meno di un miracolo perché c’è la realtà che incontra la fantascienza. Quella specie di supereroe che fa la pubblicità del detersivo e che vedo sempre lanciarsi nella lavatrice e che poi indefesso si tuffa nel catino con i capi più delicati e migliora l’esperienza di lavaggio dei consumatori che acquisteranno il prodotto da cui ha preso il nome ora è a un isolato da qui. Siede su una lussuosa specie di Batmobile (se fosse Batman) cabriolet e ha al suo fianco un prestante autista-aiutante tipo Robin (sempre se fosse Batman). Dalla avveniristica macchina si diffonde il noto jingle dello spot, molte casalinghe al ritorno dalla spesa si avvicinano al misterioso supereroe e ricevono in cambio campioni (anche se il vero campione è lui), curiosi e passanti si avvicinano divertiti, i bambini piccoli tirano le nonne che sono le più scettiche sull’utilità dell’operazione, d’altronde nessun personaggio del futuro può battere la caparbietà di una donna anziana negli anni settanta. Poi si avvicina l’ora di pranzo, così vedo la specie di Robin che scende dalla cabriolet e, facendo svolazzare il suo mantello, fa il suo ingresso trionfale in uno dei due panettieri che, uno di fronte all’altro, si contendono le massaie del quartiere. L’aiutante dell’eroe mascherato, anch’egli mascherato ma che se l’è tolta per non allarmare le commesse, l’episodio di Re Cecconi fulminato per una finta rapina in banca negli anni del terrorismo è ancora sulla bocca di tutti, torna in macchina con una borsa di nylon. Dalla mia finestra che è al quinto piano è comunque facile immaginarne il contenuto. L’autista e il supereroe ora sono entrambi a volto scoperto tanto la via è semi-deserta come tutti gli altri giorni feriali all’ora in cui la gente è a tavola. I due si dividono almeno mezzo chilo di focaccia appena sfornata, una cosa che a me che faccio le medie non fa nessun effetto ma ai più piccoli potrebbe suonare strana. Nel futuro o negli altri pianeti della galassia i marziani si cibano come da noi? I Rockets hanno un apparato digerente come tutti gli umani? Così non ci penso due volte, vado al telefono e chiamo subito mio cugino Gian per dirgli che qui sotto casa mia c’è il Gran Dixan che mangia la focaccia.

quando le cose non tornano più come prima

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Non sapevo da che punto di vista prendere questa storia. Non sapevo se scriverla dalla voce della vittima, ma si sa che i morti non parlano e non dovrebbero farlo nemmeno nella letteratura, figuriamoci in un blog. I morti al massimo cantano le loro canzoni preferite proprio come Ricky, il cui unico vago ricordo che ho è proprio di lui che cerca di convincermi che Vasco Rossi ha una sua filosofia e probabilmente in quegli anni lì, era l’86, avrei potuto anche dargli ragione.

Ho pensato di scriverla come se a narrarla fosse Gemma, la sua ragazza che poi ragazza non era, perché se lui era a malapena maggiorenne lei ne aveva almeno dieci di più e aveva pure due gemelli piccoli a carico, in un quadro di realtà aumentata con padre volatilizzato alla notizia della gravidanza. Ma l’unica colpa che Gemma aveva era quella di aver consentito che uno studente della scuola in cui lei lavorava come impiegata le facesse la corte, quindi che entrasse nella sua vita in una relazione comunque seria e matura. L’unica colpa prima che Gemma insistesse affinché Ricky prendesse il suo Ciao per fare prima a tornare a casa e prima a raggiungerla dopo cena, considerando la coda interminabile in cui, in macchina o con l’autobus, si sarebbe imbattuto lungo la strada costiera a picco sul mare. Avete capito l’epilogo anche se non siamo nemmeno a metà. Probabilmente con l’intento di evitare un ostacolo, Ricky compie una manovra avventata e finisce sugli scogli, giù dalla scarpata.

Ho pensato anche che poteva essere un buon approccio narrativo raccontarla dalla voce degli adulti che camminavano lenti davanti a me al funerale. La mamma e il papà di Ricky, che avevano cercato di osteggiare quella relazione sproporzionata per un figlio scavezzacollo come il loro che aveva trovato un freno alla sua turbolenza proprio da quando stava in quella storia che, per la sua natura, imponeva necessariamente un certo grado di serietà, e Ricky voleva esserne all’altezza. Ma parlare con la voce dei genitori che hanno perso un figlio è troppo difficile e, da padre, non ci voglio nemmeno pensare.

Di certo devo evitare di scriverla come se a farlo fosse Alex, il migliore amico che però poi ha scoperto proprio lì che per lui si trattava molto di più di un’amicizia. Alex si era innamorato di Ricky e ancora oggi non sa dirmi come, quando e dove, ma di certo sa che è successo tutte le volte che gli capita nel campo visivo la foto di loro due insieme al mare che ha appeso sulla parete più importante di tutte le case in cui ha abitato. Posso immaginare come dev’essere stato tenere compresso tutto quel sentimento e quella emozione in tempi e posti in cui dichiararsi omosessuali era peggio che essere scoperti a farsi le pere in un vicolo del centro storico. Per fortuna poi Alex, conseguita la laurea, è scappato in uno di quei paesi in cui quello che fai dentro e fuori le lenzuola del tuo letto non interessa a nessuno.

Alla fine così ho fatto una veloce ricerca su Google per capire se da qualche parte ci fosse qualche traccia di Ricky, anche se so che il suo incidente è capitato molto prima dell’avvento di Internet. Ho trovato però un’intervista di qualche anno fa in un quotidiano locale a un insegnante, uno di quelli conosciuti da tutti al paese, un professore alle soglie della pensione che risponde a domande sulle emozioni a fine carriera. Il giornalista gli chiede, a fine articolo, quale sia stato il momento più difficile della sua vita nella scuola, e tra tante cose che quel professore deve aver visto – gli anni sessanta, poi i settanta, le contestazioni, la droga, il terrorismo e tutto il resto – tra tutte le cose che uno pensa che restino a un insegnante che tira i remi in barca, lui ha ricordato proprio la morte di Ricky e il momento di dolore che la comunità che comprende tutte le voci che hanno contribuito a costruire questo racconto ha attraversato. Ecco, credo che se dovessi raccontare questa storia in un blog, probabilmente farei finta di essere il professore di Ricky e cercherei di trasmettere nella storia quell’affetto che talvolta non si vede ma che lega indissolubilmente gli insegnanti ai loro studenti.

bootleg

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L’unico ad accorgersi che quello è il tema di “Summer on a solitary beach” è il parroco, viene sotto il palco improvvisato con un paio di pedane da cattedra per farmi sapere, appena distolgo lo sguardo dal mio synth monofonico, che Battiato piace anche a lui. Non posso certo deluderlo dicendogli che ho accennato quella melodia solo per attirare l’attenzione di qualcuno durante quella specie di sound check e che a tutti pensavo fuorché a lui, ma pazienza. Ci sono già molti dei partecipanti alla festa di fine anno dell’oratorio, nostri coetanei ma che sembrano appartenere a un altro pianeta sociale. Ci sono già anche quei due o tre amici che ci hanno invitato lì a suonare, si vedono anche un bel po’ di ragazze che poi quella è la cosa principale. Di certo tutti pensano che li faremo ballare, c’è l’equivoco di fondo che quelli che suonano devono per forza fare disco music e, dalla parte dei musicisti, che il pubblico è lì per ascoltare a prescindere. È presente anche qualche adulto, ci sono i catechisti e c’è mio padre che mi ha portato in macchina per via della strumentazione ed è rimasto lì, d’altronde abbiamo quindici anni ed è meglio controllare anche se in un ambiente così difficilmente ci si imbatte in abitudini trasgressive. Basta solo che a uno gli scappi “che sballo” come apprezzamento entusiasta su qualcosa che tutti corrono ai ripari. La serata comunque fila via liscia, in effetti c’è qualche pezzo ritmato su cui ci si può dimenare, liquidiamo il nostro acerbo repertorio in meno di un’ora e poi, tutti insieme, lasciamo la parola ai dischi. D’altronde abbiamo scelto di esibirci per puro diletto, mica volevamo guadagnare qualcosa. Finisce che noi cinque ce ne stiamo da parte e tutti gli altri attendono la mezzanotte insieme, la festa finisce poco dopo e noi smontiamo e torniamo a casa. La serata sarà memorabile, almeno per per me, solo perché rimarrà l’unico live della mia vita in cui ho cantato un pezzo, con un testo inventato sul momento e in un finto inglese.

brani che durano nemmeno una notte

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Abbiamo scritto persino una canzone su questo, Paolo ed io, con un vero e proprio testo dedicato alle risorse in termini di soldi e tempo spesi per non dire sprecati in questo regime votato al lasciarsi vivere addosso nella speranza che la risposta consista nella ricerca ostinata del divertimento. Ci siamo guardati, guidava lui malgrado io mi fidassi poco dopo tutte quelle consumazioni di bassa qualità e considerando l’ora vergognosa, ed è lì che abbiamo pensato – almeno io l’ho fatto ma credo che ci sia arrivato anche lui – che sarebbe stato meglio darci un taglio a partire dal frequentarci e passare nottate da un posto all’altro con l’idea che così diminuiscano le possibilità di mancare la missione, quella di un ben non identificato stare bene, paragonabile alla corsa istintiva cui siamo soggetti quando piove e siamo senza ombrello e ci precipitiamo nella ricerca di un riparo come se l’acqua rispettasse il nostro sforzo di riconoscerle una sorta di autorità. Ma nei testi delle canzoni come quella, che addirittura si intitola pensate un po’ con un profetico “Anni inutili”, non si possono usare gli hashtag né nominare qualcuno che vorremmo la ascoltasse per venirci incontro e farsi trovare di proposito lungo la nostra strada. Il distacco tra la composizione musicale e la condivisione interessata a far recapitare al target giusto il messaggio che essa contiene è una formula di transmedialità che non è stata ancora inventata, o meglio potrei chiedere a Paolo un eguale sforzo nell’implorarti di scaricare il file e di ascoltarlo anche se so che non lo faresti mai, figuriamoci in assenza di un sistema per cui in quelle parole musicate ci capiti per caso e cogli l’intento di farti sapere una cosa importante. Per la cronaca, il titolo non l’ho scelto io e certi passaggi li avrei resi diversamente ma quando si fanno le cose a quattro mani occorre un po’ di condiscendenza verso il co-autore, giusto? Paolo ci tiene a forzare la rima a scapito del senso e a costo di sembrare un po’ lezioso, io che sono più diretto ti avrei chiesto direttamente di farti trovare in questo o quell’altro posto in tempo utile, prima della fine del weekend intendo, per farti sapere una cosa molto importante che poi in una canzonetta magari il senso si perde. Così premo il tasto eject per interrompere quella cassetta su cui Paolo ed io abbiamo registrato un versione piano e voce inutile quanto il suo titolo, che prima ancora che sorga l’alba finisce direttamente sugli scogli.