manifesta superiorità

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Eravamo entrambi comparse di contorno, in un gruppetto in cui c’erano due eletti che per la loro superiorità estetica oggettiva erano destinati all’accoppiamento reciproco e che suscitavano varie dinamiche tra il gruppo, a partire dalle maldicenze per finire alla funzione di coro greco. Quel cicaleccio che potrebbe essere sostituito da rabarbaro o da altre parole onomatopeiche usate nel cinema e nel teatro per creare l’effetto di brusio, brusio anche nel senso di personalità in subbuglio per quel fine che è già stato scritto. Succede proprio così e non dite che non vi è mai capitato. I due eletti destinati all’accoppiamento reciproco impongono l’agenda del gruppo, consapevoli che tutto a loro è dovuto e il contorno si mobilita per il loro compiacimento a dispetto del resto, persone invece irrilevanti come quelle sterili foglie di lattuga da supermercato con cui i bar del centro indeboliscono il valore calorico dei piatti risolvendo così il senso di colpa dei clienti per le pietanze poco salutari che acquistano a caro prezzo e che a furia di nutrirti così in ufficio è un attimo a diventare obeso. Fino a quando i due eletti destinati all’accoppiamento si accoppiano. O magari lo si viene a sapere perché i due decidono di rendere pubblica l’ufficializzazione di una cosa che tutti supponevano o che era in auge già da tempo ma nessuno voleva ammettere per non sancire la crisi, il crollo e poi la fine di quel gruppo a contorno dei due eletti, che comunque di riffa o di raffa era purtuttavia un gruppo nel senso di una compagnia il che è meglio che star soli soprattutto se ci sono due teste di serie che orientano scelte, guidano opinioni, decretano tendenze e lasciano che le cose li seguano come una scia, tutti a ridosso degli eletti che alla fine si accoppiano reciprocamente e poi cominciano a frequentarsi da soli con l’obiettivo di fondare un’altra comunità di appoggio, non basata certo più sulla loro tensione erotica ma sulle certezze che hanno le coppie compiute, fatte e finite. Cene, aperitivi, merende, cinema e qualche festa. Gli ex supporter invece no, si disgregano ognuno per la sua via costellata di mediocrità, qualcuno emula la coppia alfa accoppiandosi e ammazzando il tempo a parlare del loro archetipo sentimentale. Ed è andata proprio così, nel senso che eravamo entrambi comparse di contorno e i due eletti destinati all’accoppiamento reciproco un po’ ci piacevano reciprocamente. A me lei e a te lui. E poi quando lui e lei si sono accoppiati e hanno mostrato a tutti che era vero, ci siamo rimasti così così, potevamo imitarli ma non volevamo essere secondi a nessuno.

maniera compita e amabile di trattare e di comportarsi

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Aveva trovato il riferimento sul suo paese di provenienza in una rivista che in confronto Ragazza In era il bollettino della comunità accademica di ricerca del CERN, l’occasione era troppo ghiotta per non lasciarsela scappare. Munitosi di carta e Tratto Pen, giacché la posta elettronica era ancora solo un escamotage per ridurre le barriere spazio-temporali degli scrittori e registi di fantascienza, aveva composto una facciata di protocollo a righe comprensiva di presentazione, elogi, domande e richieste di curiosità al limite dello stalking, anche se le persecuzioni personali in via epistolare non costituivano ancora un reato vero e proprio, considerando la lentezza delle Poste che, in quegli anni, si confermava ben più che proverbiale.

Pur non conoscendo la via dove potesse abitare, aveva considerato che l’Artista doveva essere una celebrità in un borgo di provincia, un po’ come oggi si scrivono le cartoline delle vacanze a Vasco Rossi, 41059 Zocca (MO), e che comunque di riffa o di raffa arrivano a destinazione. Ma non aveva considerato che magari l’Artista potesse non abitare più a 22070 Fenegrò (CO), tutte le star poi lasciano il luogo natio e si spostano nelle metropoli a fianco di studi di registrazione, locali, pub, pusher e propri simili. Ad oggi, mi assicura, non ha ancora ricevuto risposta dall’Artista, ma il fatto che la lettera, su cui aveva posto correttamente il nominativo e l’indirizzo del mittente, non gli sia mai stata rispedita a casa, lo rende fiducioso che le sue righe siano giunte a destinazione e, semplicemente, l’Artista non abbia mai trovato il tempo di rispondergli in modo esaustivo a domande del calibro di “Cosa ne pensi della scena post-punk nazionale?”.

Tra l’altro, anni dopo l’invio, aveva persino avuto la fortuna di vedere un suo concerto anche se, ormai, la fama dell’Artista era sfiorita e lui stesso aveva definito meglio i suoi gusti, delineandoli più intorno all’ambito new-wave anglofono. L’ispirazione dell’Artista era nel frattempo ridotta quasi a zero, a giudicare dall’ultimo disco.

Memore però del contributo che l’Artista aveva dato allo svecchiamento di una certa estetica che lui comunque aveva ritenuto fondamentale anche per la sua personale formazione, musicale e non, si era presentato al concerto con un anticipo vergognoso, mentre ancora gli operai del comune stavano montando il palco. Qualcuno gli aveva detto però che l’Artista era appena sopraggiunto e si era offerto addirittura di accompagnarlo nel camerino, come se un fan esaltato di un cantante ormai démodé potesse comunque contribuire al miglioramento del suo umore, almeno in vista del previsto flop della sua esibizione.

L’Artista sembrava però in gran forma, accompagnato da una donna bellissima che poi, la sera, aveva condiviso con lui il palco in qualità di corista davanti a una manciata irrispettosa di spettatori. In quella visita benaugurante, orgoglioso del fatto che ci fosse ancora qualcuno che ascoltava le sue canzoni, aveva accennato una sua strofa al fan, a commento delle incerte condizioni meteorologiche, prima di firmargli una dedica su una cartolina pubblicitaria con la sua foto risalente ai tempi d’oro, marchiata addirittura Sorrisi e Canzoni TV. In quel frangente si era presentato con il suo nome e cognome ma l’Artista non aveva mostrato alcun cenno di sorpresa.

Così, ancora oggi, lui sogna di nascosto come sarebbero potute andare le cose. Lui che pronuncia il suo nome e cognome e l’Artista che, mostrandosi meravigliato, estrae una vecchia missiva dal quaderno con i testi, quello che alcuni cantanti sistemano sul leggio come pro-memoria per le esibizioni live. Tira fuori una busta ingiallita, gli dice “sei tu”, aggiunge che finalmente può rispondergli di persona, lo invita a sedere – magari davanti a un bicchiere di qualcosa – e gli confida il suo parere sulla scena post-punk nazionale.

cose di cui non ci libereremo mai

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Considerando gli svariati miliardi di individui che occupano il pianeta da qualche decennio a questa parte, che almeno una o due persone su numeri di tale entità si siano fatte sorprendere dai grandi appuntamenti della storia impegnate a fare sesso, da sole o in compagnia, non stupisce nessuno. E che tu fossi completamente svestito sul divano con Serena – altrettanto scoperta – mentre l’edizione straordinaria del tg cambiava le sorti di quel pomeriggio, tuo e di tutti gli italiani, mostrando le prime immagini da via D’Amelio, al massimo colpisce perché tenevi la tele accesa di sottofondo alla passione. A me verrebbe da spegnerla come prima cosa, al massimo cambierei canale cercando un po’ di musica. Ma che rischio, anche lì.

Si tratta comunque di episodi che segnano, nel senso che poi rimane quella sensazione di colpa per esser sembrato disimpegnato, cinico o indolente, anche se vi sfido a confessare se, in una simile esperienza, portereste a termine l’agognato compito o mettereste invece il vostro e l’altrui piacere in stand-by. Tanto, mi direte, non ci si può fare nulla né è plausibile cambiare il destino del nostro paese di una virgola, e allora, che diamine, diamoci dentro.

C’è gente che invece il qualunquismo glielo hanno tirato fuori con le tenaglie, allo stesso modo in cui l’educazione dalle suore culmina talvolta in metamorfosi morali da titoloni in prima pagina. Un’altra devozione, quella al socialismo a opera dell’educazione scolastica negli anni 70, ha fatto crescere bambini refrattari alle agiografie sulla Resistenza, tanto che la sola melodia di Bella Ciao a certi li induce a effetti condizionati con il braccio teso romanamente che in confronto il cane di Pavlov era un represso. Non guardatemi così, per me vale l’opposto perché ho avuto una maestra che ha usato gli argomenti giusti e dosati al meglio per trasformare un potenziale democristiano, considerando l’estrazione sociale e la mia famiglia, in un fervente comunista che però ha finito col votare PD, come molti di voi.

Comunque poi a quello che si trastullava con Serena durante i duri colpi della mafia nei primi anni 90 gli sono venuti i denti grigi, ha iniziato a puzzare di fumo di sigarette e lo so perché è diventato qualche anno dopo un mio collega. Ho riconosciuto la sua valenza di programmatore anche se aveva dieci anni più di me, cosa che ho ritenuto straordinaria perché fino ad allora avevo vissuto nella consapevolezza che le persone di una certa età non si cimentassero nell’informatica. Non mi ha stupito invece venire a conoscenza che ce l’avesse a morte con i suoi insegnanti delle elementari e delle medie che gli facevano cantare “I morti di Reggio Emilia” e altri inni da partigiani, il tutto a causa di un’indigestione di bandiere rosse. Portava una specie di gilet di pelle nero anche d’estate e si trastullava con divertimenti elettronici che vedevo fare a pischelli di trent’anni in meno di lui, dai giochi di ruolo agli attacchi hacker. Vi farà piacere sapere che ha fatto la fine che si meritava, in prima fila sulla colonnina di Facebook, quella con le foto dei profili, in una pagina fascistissima dedicata a quella sagoma di Almirante. Sposato con Serena, che si sarà convertita alla destra estrema pure lei.

consolare gli afflitti

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Così penso di chiedergli perché sta piangendo non tanto per impicciarmi degli affari suoi ma perché sembra essere diventato un dovere quello di intervenire sempre e comunque con gli amici che manifestano qualche difficoltà, anche a rischio di agire a sproposito ed è una cosa con cui alcuni, me per primo, devono ancora prendere le misure. Con Jose è andata così. Tutti a chiedergli che bisogno c’è di prendere i tranquillanti e berci dopo, quando ha due fidanzate entrambe strafiche, un lavoro pesante ma sicuro e redditizio, una macchina a meno di non sfasciarla una volta in cui è strafatto come ora, una casa a meno di essere sbattuto fuori per lo stesso motivo e soprattutto tanti amici che gli fanno i professori di buone maniere come noi ora ed è a quel punto che ingoia altri due tavor e li butta giù con una golata di amaro Montenegro. Ora vedi uno piangere e accendi la sirena e ti fai in quattro no? Insomma, mi tira fuori una fototessera di una mai vista con un’acconciatura smaccatamente maschile ma per il resto passabile e mi dice che è da qualche giorno che sta con questa new romantic e non è mai stato così felice. A un’occhiata piú attenta riconosco trattarsi di quella che tutti chiamano la cucustrilla, una crasi azzeccata e sin troppo vezzeggiativa tra cocorita e pipistrella, quella che si accozza sempre allo stellone, che è soprannominato così per via delle punte in cui si cementa i capelli con la lacca. Sarebbe da guastargli tutto con un po’ di sano cinismo da fine gennaio e ricordargli tutte le altre volte in cui mi sono sorbito le sue invettive misogine ma chi se ne frega, domani o dopo gli busserà alla porta un ex che rivendicherà uno strascico con cui competere o addirittura da prendere a pugni, questa cosa comunque del gruppo e dell’amicizia per cui bisogna mettere al riparo gli sprovveduti e chi si caccia nei guai deve finire. Mi viene d’istinto però voltare la fototessera e sul retro noto la data di ieri scritta a penna e mi accorgo che oggi è oggi, ed è l’ultimo giorno utile per una cosa importante, una scadenza per la quale so già che non avrò alcuna proroga. Non c’è nessuno a farmi da agenda, e penso che questa si che sarebbe una funzione utile che dovrebbero ricoprire le persone che ti circondano.

una vita da gruppo spalla

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Avevo dedotto che avevano suonato prima dei Negrita perché i due fratelli giravano per il centro storico con una maglietta evocativa del gruppo ed era strano, perché ampiamente eretico rispetto ai canoni dell’abbigliamento hip hop che entrambi seguivano piuttosto fedelmente. Ma il dogma poteva essere parzialmente messo in discussione in un caso come quello, in cui lo sfoggio delle vestigia riconducibili a un evento ad ampia visibilità avrebbe riservato anche a loro qualche stralcio di fama di risulta. Li ho sentiti commentare il concerto della serata precedente che probabilmente era stata un’esperienza di quelle da annoverare nel curriculum da allegare al cd demo. I due fratelli, che condividevano il ruolo di front man e cantanti in quel complesso tutto sommato di buona qualità e dal sound innovativo, stavano ripercorrendo i momenti più significativi con alcune ragazze che avevano trovato un canale per compiacerli, quello dell’alimentazione del loro ego, la chiave giusta per anelare a qualcosa di più. Il più giovane dei due non ne aveva certo bisogno, stava già con una che sembrava una modella. L’altro, quello più grande, che andava un po’ a rimorchio, in una di quelle dinamiche anomale che si sviluppano quando un fratello maggiore si accorge che il più piccolo se la cava meglio e cerca di recuperare, parlava prodigo di particolari sulle modalità in cui l’essere risultati simpatici ai Negrita avrebbe potuto essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione. L’illusione che hanno tutti i gruppi emergenti quando annusano quel poco di popolarità che spetta alle rockstar alternative di casa nostra, che già le conoscono in quattro gatti. A me per esempio Pau, il cantante, è simpatico ma solo perché ho letto che ha dato un paio di ceffoni a quella sagoma di Andrea Scanzi, per dire. I Negrita probabilmente non hanno mai avuto il successo meritato. Il gruppo dei fratelli nemmeno, dopo un po’ si sono sciolti come tutti, la maglietta dei Negrita era sparita dal loro abbigliamento già qualche giorno dopo, per un gruppo di hip hop mostrarsi condiscendenti con dei rockettari allora, come adesso, è considerato disdicevole.

cose che non sorprendono affatto

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Stefania, quante stefanie conoscete se siete degli anni ’60, eh? dicevo Stefania ha questo amico imbecille che si chiama Marco e fa un po’ da sparring partner, dove siete autorizzati a interpretare partner nell’accezione che volete. Uno di quelli che si tagliano il pizzetto perché Stefania ha la pelle sensibile e può capitare che se Stefania è libera sentimentalmente ci scappa un bacio, ma Stefania non è mai libera sentimentalmente quindi non c’è il rischio di ferirla, in ogni senso. Comunque nel dubbio Marco si taglia il pizzetto lo stesso, tanto nel giro di una settimana ricresce, che problema c’è.

Stefania chiama Marco soprattutto quando uno dei suoi amori ufficiali la mette da parte, allora lei si vuole sentire al centro di qualcosa e chiama Marco e Marco va fin sotto casa sua, in cima alla collina dove abitano quelli con i soldi proprio come Giovanni, quello con cui Stefania stava prima, uno che l’ho visto con i miei occhi accendersi le canne con le banconote da diecimila lire. Nemmeno nei film sulla banda della Magliana.

Marco invece viene dalla provincia e scala la collina con la sua Panda del cazzo targata Alessandria che già in seconda fa fatica. Stefania, che è l’unica stefania della sua vita, lo fa aspettare un po’ e quindi lo raggiunge nel parcheggio sotto casa. Qualche volta passa di lì suo padre che rientra dal lavoro anche se sembra avere ottant’anni ma è un’impressione, uno che trasuda ingegneria d’altri tempi e che una leggenda voleva persino minacciato dalle Brigate Rosse, negli anni di piombo, per il potere padronale che incarnava. Il padre di Stefania è abituato agli spasimanti di sua figlia che stazionano sotto casa in attesa di essere raggiunti dalla sua grazia, Marco forse è uno dei più simpatici con il suo essere alla mano anche se sa che il papà di Stefania cerca di essere imparziale e di non dare confidenza per non favorire uno dei pretendenti rispetto a un altro. A parte quello che ha scritto sul muro di fronte “Stefania ti scoperei fino all’osso”, quello non ha fatto certo una bella figura con la sua famiglia.

Così stasera Stefania ha convocato Marco sempre per lo stesso motivo, a dispensare un po’ del desiderio che suscita nella seconda fila dei pretendenti che come la serie B di calcio, in cui i calciatori dicono essere meno fighette e più pronti al sacrificio, così le retrovie di Stefania sono all’erta nel caso cadano quelli degli avamposti con le Saab e le Golf Cabrio. Ma a Stefania stasera le basta osservare sullo sfondo della sua crisi il cruscotto povero della Panda per fare dietro front, dice a Marco di essersi sbagliata ma Marco non capisce l’errore, chi l’ha commesso e in cosa consista.

Nel dubbio è lui ad aver torto, così Stefania ha il tempo di rientrare subito perché forse l’amore sta già facendo squillare un telefono e Marco ingrana la retromarcia proprio mentre si chiude il portone, e l’unico diversivo è mettere una cassetta. C’è tutto un accrocchio per stabilizzare l’autoradio alla destra del volante della Panda che non è nemmeno di serie.

Ora non so che cosa mettereste voi al suo posto nel 2014 come sigla finale di questo cortometraggio tragicomico, anche se non dovreste compatire Marco perché se le va a cercare. So che nel 97 estrae Ok Computer dalla custodia con il nastro tutto riavvolto, se lo lasci a metà corri il rischio di guastarlo. Era ancora a Castelletto, e se vivete a Genova sapete di che posto si tratti, quando ha ruotato la manovella del finestrino in senso orario per non disturbare nessuno con Airbag. Ma ecco che Marco si spara tutto il viaggio di ritorno con il nuovo disco dei Radiohead e arriva sotto casa poco prima che inizi No Surprises, è sovrappensiero e sta per spegnere la macchina e, conseguentemente, l’autoradio e la musica. Poi se ne accorge e così resta nell’auto fino alla fine del pezzo, fuori è notte e gli sembra di aver trovato un significato nelle luci accese del cruscotto riflesse nel parabrezza.

alla festa dei commercianti

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“Signora si sente male? Signora?”. Qualcuno dietro cerca di minimizzare osservando che la signora ha bevuto troppo e con il caldo le è venuto un coccolone, una tesi rinforzata dalla ragazza del bar che ha contribuito, insieme agli altri esercenti della via, a organizzare quella festicciola in onore di non si sa bene cosa. Troppi spritz, sembra la diagnosi, ma c’è chi ha ben presente che non è la prima volta. La coppia che gestisce la gastronomia sarda di fronte, per esempio. Una volta si sono presi una sfuriata perché c’era dell’aglio nel pesto senz’aglio, il che poteva anche essere plausibile se appunto la donna ora oggetto di attenzioni da quella manciata di persone e dall’anziano dj Paolino – proprio quello che, temendo una tragedia, ha ridotto al minimo il volume della bachata – se appunto la donna entrando in gastronomia non avesse sfoggiato un alito di tutt’altra matrice.

Le impiegate dell’agenzia immobiliare mica se ne sono accorte, hanno la visuale coperta dal furgone delle consegne da cui è uscito il corriere. Ha portato qualcosa all’elettrauto che ha l’officina poco più avanti e mentre ritorna, incurante del suo mezzo parcheggiato dove non dovrebbe, si vede che sa che tutte le ragazze osservano sbalordite la sua postura da gorilla con le mani che oscillano con il palmo rivolto verso dietro. Comunque uno dei tanti anziani che osservano l’accaduto dalle finestre che danno sull’incrocio ha già chiamato la Croce Bianca, si sentono le sirene. La donna però rinviene e in qualche modo riesce a tirarsi su nonostante la sua stazza. Si copre pudicamente le gambe gonfie che, svenendo, la gonna macchiata di sudore aveva svelato. Qualcuno l’aiuta, altri si preoccupano di sapere come sta. Il figlio del panettiere si allontana per accendersi una Camel e non vuole dare fastidio con il fumo, poi però si fa tentare da un quadretto di pizza sul tavolo di plastica e si avvicina alla cassiera della sua rivendita, giusto per flirtare un po’. La signora sembra riprendere colore, tutti sanno che abita proprio lì sopra e non la trattengono quando dice che preferisce rientrare in casa. Il proprietario della gastronomia sarda però capisce che può essere una cosa grave e appena l’ambulanza si ferma al di fuori dello spazio delimitato per la festa, nel frattempo dj Paolino è ripartito con un nuovo ballo di gruppo latino-americano, raggiunge uno dei volontari del soccorso e gli racconta quel che ha visto, aggiungendo un invito ad andare a controllare a casa della signora in pericolo, sa bene come si chiama e l’indirizzo.

L’equipaggio della Croce Bianca si precipita al portone su per le scale fino all’ultimo piano. Un controllo all’ascensore, potrebbe esserci qualcuno dentro, suonano più volte alla porta finché non apre una vecchina. “Ci hanno avvisato che qui c’è una donna che si è sentita male, poc’anzi, giù nella strada”. L’anziana donna rimane sorpresa. Lei sta benissimo e ha visto rientrare la figlia poco prima con i suoi occhi viva e vegeta. Per sicurezza si assenta dai soccorritori per controllare meglio se la figlia ha qualche problema. La trova in camera seduta sul letto, di spalle rispetto alla porta, a osservare la finestra con gli scuri semichiusi. Da sotto si sente la voce di un animatore amplificata dallo stesso impianto di dj Paolino che avvisa che sono pronte le frittelle.

ancora sul ragazzo di campagna

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Se sognate un ritorno alla campagna e barattereste senza tante remore il vostro impiego dal nome in inglese nei servizi per un’involuzione verso la terra e i proventi che ne derivano dalla semina e la raccolta, passando per la zappatura, dovreste essere pronti a un cambiamento radicale della vostra vita soprattutto negli orari dei pasti. Io lo so perché i miei nonni paterni erano contadini, e anche quando si sono trasferiti in città, come si usava fare dopo la guerra, hanno continuato le loro abitudini pranzando a mezzodì e cenando alle sei di sera. Abitavamo tutti insieme e ricordo bene quei ritmi naturali prima che iniziassi ad andare a scuola. Oggi posso proiettarli in un’economia povera fatta dei frutti del proprio lavoro, di qualche animale nella stalla per il sostentamento del nucleo famigliare e dei cicli produttivi soggetti alla natura, alla regolarità delle sue certezze – le stagioni in primis – ma anche agli imprevisti. Grandini, incendi, siccità, piogge copiose. Nella sicurezza della vita urbana, nella finzione delle comodità messe a disposizione dal progresso come la luce elettrica sul tavolo da pranzo e un mobile tv sintonizzato sul telegiornale della sera, mantenere gli stessi ritmi imposti dal lavoro nei campi era comunque una sfida aperta all’industrializzazione. E poi si sparecchiava e con la bella stagione c’erano ancora un po’ di ore di chiaro da passare a proprio piacimento prima di coricarsi. Per me quindi il concetto di dopocena, almeno per una parte cospicua della mia adolescenza, partiva dalle sette circa in poi. Quella trasposizione di un modello non tanto superato quanto inadatto per la vita di città si è esaurita in occasione del primo scontro con la realtà dei coetanei. Avevo risposto con entusiasmo a una proposta di uscita con una ragazza, era estate e tutto era lecito anche se le prime esperienze fuori di casa si cercava di organizzarle basandosi un po’ sul sentito dire dei più grandi o copiando quello che si vedeva nelle pubblicità in televisione. Le avevo proposto di vederci dopo mangiato per un gelato, ma l’idea di incontrarci verso le sette e mezza fu motivo di ilarità. Lei, cittadina da molte generazioni, era solita cenare non prima delle venti e trenta. Avevo comunque provato a uscire di casa all’orario che ritenevo più naturale, una sorta di prova preliminare all’appuntamento vero e proprio, e avevo appurato che alle sette e mezza, in effetti, le gelaterie erano deserte. Non volevo però far pesare alla mia famiglia questa usanza che ci rendeva differenti rispetto al resto della gente di città. La sera decisiva ero uscito lo stesso dopo cena – ora contadina, ammazzando il tempo fino alle nove in giro da solo, cercando di non farmi vedere da nessuno.

il mentalista

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Massimo aveva preso un pacco di soldi dall’assicurazione per via dell’incidente in moto. L’aveva tirato sotto un’auto in una rotonda, quando di rotonde in Italia ce n’erano ben poche prima che poi si diffondessero proprio mentre, nel resto del mondo, iniziavano a sostituirle con gli incroci tradizionali. Massimo comunque non aveva studiato nemmeno quelli abbastanza, a scuola guida. E quando dico un pacco di soldi intendo davvero una fraccata di milioni di lire, si era spaccato di tutto, bacino compreso, e vi sfido a dire che sottoporreste volentieri voi e i vostri cari a una tragedia del genere solo per poi ricevere in cambio tutta quella fortuna. Roba che poi non è che vi cambia la vita, ma vi permette di stare qualche anno in panciolle – riabilitazione esclusa – senza muovere un dito lavorando, e non è poco a meno di vent’anni.

Comunque Massimo, che era negato per ogni forma di espressione musicale, voleva sfruttare a suo vantaggio una certa somiglianza con John Taylor per mettersi a suonare il basso nel modo più semplice possibile. Ovvero comprandosi un basso uguale a quello sfoggiato da John Taylor nei live dei Duran Duran e aspettare che mani, testa e corpo nel suo insieme – avete presente il linguaggio del corpo che è un termine che mi fa venire in mente i gorgoglii della pancia come avvisaglia della dissenteria – dicevo e aspettare quindi che mani, testa e corpo nel suo insieme imparassero la tecnica dalla sola vicinanza con lo strumento musicale.

Così aveva deciso di investire un po’ dei soldi ottenuti dall’incidente, una volta rimesso in piedi, acquistando uno Steinberger, che oltre a essere una delle novità di grido del momento – il primo basso senza corpo e senza paletta, un vero e proprio moncherino – era anche stato visto in braccio proprio al suo bassista di riferimento. Ma Massimo, consapevole del suo potere d’acquisto, aveva pensato anche a uno strumento di ripiego qualora l’esperienza con il basso si fosse rivelata deludente. Un buon sintetizzatore poteva restituire quella soddisfazione di emettere suoni e note più definite e con maggior semplicità e immediatezza rispetto a uno strumento a corde, in cui al tocco certo del dito o del plettro occorre corrispondere un bloccaggio sicuro della corda con l’altra mano sul tasto del manico consono alla nota che si vuole far emettere.

Massimo così mi aveva chiesto di accompagnarlo nella scelta della tastiera, un ruolo oltremodo frustrante per me che invece me la cavavo egregiamente come musicista (ho le prove, eh) ma non avevo la possibilità di comprare nulla. La situazione è facile da immaginare: un musicista vero e squattrinato in un reparto traboccante di ogni ben di dio in compagnia di un fanfarone ricco che può permettersi tutto.

Gli strumenti musicali si compravano in un magazzino musicale della bassa piemontese che era la mecca per chi suonava. Un negozio che aveva fatto la sua fortuna concedendo rateizzazioni pluri-annuali senza pretendere buste paga a copertura o acconti impossibili. C’era addirittura un sistema di collegamento in taxi dalla stazione per chi non possedeva la macchina pagato dal proprietario del negozio, che malgrado il suo impero lo vedevi sempre dietro alle casse o a inserire dati nel computer per stampare un prospetto della fortuna che gli avresti dovuto rilasciare tramite versamenti su bollettino postale, da lì all’eternità.

Durante il viaggio in treno avevo fatto di tutto per mettere un freno all’invidia, tuttavia mi accorgevo di preferire la richiesta di consigli sulla marca e sui modelli rispetto ad altri argomenti di conversazione molto più irritanti. Massimo, nel periodo di convalescenza, era entrato in contatto con una specie di santona che gli aveva messo in testa convinzioni strampalate sul potere della mente. Si era persuaso che il solo volere fortemente una cosa ne consentisse il raggiungimento. Pur forte del mio scetticismo, ricordo di aver trascorso tutto il tragitto sul taxi gratuito concentrandomi sull’evenienza che Massimo comprasse un synth anche a me, potevo benissimo essere io nel torto e lui aver ragione.

La pratica dell’acquisto del basso si era risolta in pochi minuti. Il commesso, ovviamente competente, era in imbarazzo per tutti mentre Massimo provava qualche mossa con lo strumento sopra lo spolverino, come se quello fosse sufficiente a valutare la qualità di un prodotto professionale. Nel reparto tastiere lo indirizzai quindi sullo strumento che avrei voluto tanto per me, provandolo addirittura in sua vece. Massimo così lasciò alla cassa un assegno a copertura di tutto e ci avviamo a casa con il taxi e il treno del ritorno. Lui con la custodia del basso a tracolla, io con il Roland Alpha Juno dal quale mi sarei però dovuto separare al termine della giornata di shopping.

La storia finisce bene, se avete voglia di sapere qual è stato l’esito. Voglio dire, un po’ di quella giustizia divina o giù di lì si è manifestata qualche mese dopo. Massimo ha deposto le sue velleità di musicista di lì a breve, consapevole degli sforzi che l’apprendimento della musica da adulti può comportare. Il basso Steinberger ha comunque deciso di conservarlo, tutto sommato aveva un suo perché poggiato sul suo supporto, in bella mostra in un angolo della sua camera e in un anfratto del suo ego. Sono entrato però in possesso del suo synth a metà prezzo, mi pare proprio che me l’avesse proposto lui, troppo complesso da programmare e da utilizzare. Un Roland Alpha Juno praticamente nuovo a un prezzo da non lasciarselo scappare. Probabilmente le teorie della santona sua amica funzionavano davvero: a desiderare intensamente una cosa la si ottiene alla fine, magari in un viaggio in taxi, o magari con un po’ di pazienza perché basta aspettare, ma a me andava bene lo stesso così.

la compagnia dell’anello

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Il comandante in capo era uno di quegli energumeni un po’ grossolani che si vantano di non riuscire a indossare monili alle dita né tanto meno al polso o al collo, adducendo come scusa cose come i gonfiori dovuti alla circolazione o leggende metropolitane con protagonisti che erano rimasti vittime di tragedie rare quanto audaci, roba come amputazioni dovute a bracciali o catenine rimaste agganciate a sporgenze che erano state fatali. L’esempio noto a tutti, e riportato fedelmente, la madre di Profondo Rosso strozzata dalla catena al collo impigliata nell’ascensore.

La cosa comica è che lui poi aveva addirittura rischiato di morire decapitato in motorino, non aveva visto un cavo steso sotto un ponteggio vietato ai pedoni proprio perché ad altezza pericolosa, e con l’intento di mettere in mostra le sue doti di slalomista trial tra i tubi innocenti l’aveva preso in pieno all’altezza del pomo d’adamo. Teneva però l’anello della ragazza a cui era legato da anni appeso a una collana che gli batteva sul petto quando ballava e quando si tuffava dagli scogli più alti levando ampi spruzzi, soddisfatto di rientrare nei parametri di un’applicazione letterale del principio di Archimede.

I ranghi femminili del resto della truppa erano composti invece da soldati che, dell’anello, avevano fatto usi differenti. Le più opportuniste avevano venduto quelli realmente preziosi, una volta riconquistata o subita la condizione di singletudine o la versione moderna sintetizzata nella celebre espressione da socialcosi “it’s complicated”, in qualche centro compro oro di cui la periferia era disseminata. Le più scaltre avevano addirittura saltato i passaggi intermedi rivolgendosi direttamente a pusher intraprendenti, ottenendo in cambio cospicui quantitativi di droghe leggere, la maggior parte delle quali andata poi sprecata per una inadeguata conservazione fuori dalla carta stagnola di ordinanza o dalla pellicola trasparente ad alto tasso di sgamo.

C’era poi la squadra delle romantiche che invece, complice il materiale scadente di cui era composto il suggello della promessa d’amore testé andata in fumo, questa volta nel senso proprio e legale del termine, aveva votato per la soluzione finale con l’anello scagliato nella fiumara ad alto tasso di pantegane e zanzare dall’alto del ponticello del parchetto, quello che nel giro di qualche anno si sarebbe riempito di lucchetti di qualità economica, nemmeno il loro quartiere dormitorio fosse Venezia e quello sotto il Canal Grande.

Tutti i soldati semplici maschi al servizio delle adepte della compagnia dell’anello sapevano comunque che si trattava di una spesa inutile per un oggetto dal valore intrinseco ampiamente sovradimensionato, sia che si trattasse di una patacca in argento da bigiotteria, sia che la scelta cadesse obbligatoriamente su modelli in metallo per personalità particolarmente alternative che delle pietre preziose o dei materiali costosi, rientranti nell’ordinarietà dei rapporti sentimentali standard, non sapevano che farsene, e sia che la convenzione imponesse invece acquisti all’altezza della considerazione estetica in cui, la persona destinataria del dono, fosse tenuta dalla moltitudine. Malgrado ciò arrivava il momento in cui a tutti toccava di comprarlo, magari con una certa vergogna per dover mostrare a commesse navigate la propria inesperienza nell’accostamento di oggetti a persone durante la prova della scelta conto terzi. Ma solo immaginarne la conseguente ostentazione con orgoglio leniva ogni ferita da sacrificio preparatorio.

Chiudevano le fila quelli senza speranza, a cui era successo solo sporadicamente di essere in prima linea ma troppo tempo indietro, un’esperienza poco edificante di cui restava solo un marchio beffardo, la striscia bianca dove prima stava l’anello sull’anulare ancora abbronzato dall’estate precedente, per lo più persone che lo avevano sfoggiato a lungo sotto il sole e che, ora, erano sole e basta.