the rythm of the night

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Il monopolio dell’informazione locale è suddiviso tra due quotidiani semi-nazionali che dedicano al territorio alcune pagine interne differenziandole per l’area di distribuzione. Gli abitanti della provincia scelgono quale acquistare anche a seconda del loro orientamento geografico di riferimento. Mi spiego. Chi è più incline a un’ottica regionale legge il quotidiano A, edito nel capoluogo. Ma nella provincia non sono poche le rivalità storiche e culturali tra le città, quindi piuttosto che leggere le notizie relative al capoluogo inviso sono in molti ad acquistare il quotidiano B, edito nel capoluogo di una regione confinante che però ha geograficamente un canale economico e turistico da sempre con la città in questione. Ma la sostanza non cambia: il tenore delle notizie è quello che è, potete immaginare, soprattutto nella sezione spettacoli.

Che poi il problema non è certo quello della testata, né la colpa è dei giornalisti. È che da quelle parti, da sempre, non c’è mai nulla di interessante da fare, e quello che i più volenterosi riescono a organizzare è talmente off da non rientrare in nessuna categoria, quindi difficilmente divulgabile alla massa e non riportato dalla stampa. Il fatto che i più giovani si rompano le scatole è un annoso problema, che un tempo si risolveva con artifici di varia intensità latori di oblio o, nella migliore delle ipotesi, cambiando aria. Oggi non so, ma non credo la situazione sia molto differente.

Tornando ai giornali, da sempre, o almeno dalla nascita delle sale da ballo, i titoli a sei colonne del venerdì e del sabato sono sempre gli stessi, su entrambi i quotidiani. “Venerdì tra dance e ritmi latini”. “La notte della dance commerciale”. “A tutta disco-music. Il suono della trasgressione è house”. Segue l’elenco dei locali in un vorticoso copia e incolla che si ripete oramai da decenni. Cambiano nomi perché cambiano le gestioni, ma la sostanza rimane la stessa. Gli occhielli degli articoli sono imperdibili. “La notte: si balla sulle piste della Kascia, dell’Alborada, dell’Essaouira, del Porto, della Nuit. Per chi ama i ritmi latini appuntamento all’Aegua. Al Buga Buga “Let’s Funky” con hits dagli anni 70″. E a testimoniare che da quelle parti ci si diverte sul serio, le pagine intere dedicate ai programmi organizzati dai ritrovi sono corredate solitamente da una foto ripresa in uno dei templi del divertimento, bella gente immortalata mentre manifesta le vibrazioni della serata. I gesti del feeling. Così gli abitanti del luogo, chi è lì in vacanza, chi ritorna a trovare i genitori anziani, la mattina apre le pagine della cronaca locale sorseggiando un caffè, vede la foto e pensa che sia davvero un peccato non poter rimanere lì, quella sera, e unirsi a loro.

stereonotte

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Alla fine poi si erano lasciati perché lavoravano entrambi fino a tardi. Lei faceva la barwoman in un locale che andava per la maggiore, poi era anche l’unico decente della zona e tutti, giovani e meno giovani, andavano lì. C’era il pienone a cena, quindi gli avventori si spostavano di là nel discobar e arrivavano clienti da ogni dove. A parte la sera di chiusura si faceva sempre l’una o le due di notte, le tre o le quattro nel finesettimana, e con il fatto che il locale era fuori dal centro abitato nessuno si lamentava per il baccano. I proprietari erano amici dei carabinieri del posto, ma insomma non c’era mai stato nessun problema. E lei così non si poteva muovere da lì, anche se l’ambiente non era male e, dietro il bancone, ci stava volentieri.

Lui invece era una specie di musicista, una specie perché i musicisti non è che possono scriversi la professione sulla carta di identità a meno di non essere musicisti con i fiocchi, altrimenti ti imbarazza avere quel marchio lì che poi quando te lo vedono non sai come giustificarlo. Ma, di riffa o di raffa, anche lui lavorava fino a tardi, anzi più tardi, perché magari finiva una serata chissà dove e poi doveva poi ancora rientrare. Ma c’era un bar che rimaneva aperto tutta la notte, in cui i due si davano appuntamento. Erano amici del titolare, e trascorrevano quelle poche ore residue prima dell’alba seduti nella penombra con le facce distrutte dal tenore di vita, fino a colazione. E il giorno lo passavano nelle rispettive abitazioni a riposarsi e a fare altro, preparare esami per l’università, leggere, esercitarsi nelle attività preferite, migliorare la professionalità. Fare i cocktail, lei. Imparare pezzi nuovi, lui.

La notte di capodanno è stata l’apoteosi, potete immaginarlo. Lei ha lavorato fino alle cinque, lui ha staccato un po’ prima perché aveva trovato un ingaggio in un albergo frequentato da anziani, di quelli tutti vispi ma che oltre le quattro proprio non reggono. Ha smontato la sua attrezzatura, ha salutato i colleghi ed è andato ad occupare la panca del solito bar notturno ad aspettare lei, più sfinito del solito, in più vestito da suonatore da capodanno. Lei è arrivata che quasi albeggiava, con il trucco sfatto e conciata da barista da capodanno. Sono stati insieme per un po’, il solito cappuccino, e il proprietario del bar notturno, per festeggiare l’anno nuovo, ha scattato una foto alla coppia, o almeno a quello che ne rimaneva. Poco dopo sono andati a trascorrere qualche ora nell’auto di lui, con il riscaldamento acceso, ma si sono addormentati abbracciati all’istante. E al risveglio, guardandosi ciascuno riflesso nel disfacimento altrui, hanno capito che non si poteva andare oltre.

È sopravvissuta nel tempo solo la foto, che è rimasta appesa per tanti anni in quel bar da nottambuli, in una bacheca con i saluti votivi di tutti gli amici del locale. Tra tutta quella gente sorridente in eccesso e qualche bellezza locale ammiccante di alcool, non è facile notare un ritratto un po’ meno appariscente, con due teste appoggiate l’uno all’altra, ma non era amore, era solo stanchezza.

i mercoledì da beoni

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Il proprietario del bar latteria posa lo straccio con cui ha appena asciugato un paio di tazzine rimaste umide dalla lavastoviglie, quindi nota l’uomo che per la terza volta in poche ore svuota un altro borsone pieno di bottiglie di birra di varie marche nella campana adibita a raccoglitore differenziato per il vetro che si trova proprio di fronte alla porta di ingresso. Esce spazientito, pronto a riprendere l’uomo: di questo passo non ci sarà più spazio nel contenitore e lui, a fine giornata, dovrà caricarsi i suoi vuoti in spalla e portarli in un’altra campana. I raccoglitori per la differenziata sono di tutti, ma da sempre quello dinanzi alla sua bottega lo usa solo lui, è l’unico bar latteria su quel lato dell’isolato.

L’uomo è un trentenne di nazionalità ucraina, da pochi anni in Italia, l’esigenza di lavorare l’ha reso bilingue, almeno per il minimo necessario a cavarsela. Ma per fornire spiegazioni al proprietario del bar, è sufficiente un cenno del capo verso l’alto. Entrambi spostano lo sguardo all’ultimo piano del palazzo di fronte, da una finestra del quale il signor Elvio osserva la scena. Il signor Elvio aspetta che l’ucraino abbia completato il suo giro, quindi si reca presso il mobiletto del telefono, cerca sulla guida il numero del bar e chiama per giustificare quel che sta succedendo.

L’ucraino si sta occupando di un lavoro per lui e la moglie, la signora Ines. I due, entrambi ottantenni, hanno chiesto ad Andrea, marito di Dana che è la signora che va due volte la settimana a fare le pulizie in casa loro, di svuotare la stanza della loro figlia secondogenita, Marina. Marina ha quasi cinquantanni ma vive ancora con i genitori. Lavora nella cucina di un ristorante pizzeria da qualche anno. L’unico giorno della settimana che le rimane libero, il mercoledì, Marina lo trascorre così. Si porta a casa la sera prima qualche bottiglia di birra e piano piano trascorre la giornata di riposo scolandosi i litri di benefit aziendale che un lavoro umile come quello le concede. Ostentando una sorta di alcolismo a giorno fisso, che le consente l’alibi di scarsa affidabilità, muove ciclicamente il suo corpo barcollante tra la cucina, il divano di fronte all’abbonamento sky e l’ex camera della sorella maggiore, suo nuovo quartier generale.

Ma butta alla rinfusa i vuoti in quella che era la sua stanza, e che ora è solo un buco nero pieno di vestiti dismessi a causa degli innumerevoli cambiamenti di taglia, assorbenti, polvere, carte e fogli e riviste, oltre alle bottiglie. Una camera piena fino a scoppiare dell’antimateria della solitudine e della disperazione, chiusa poi a chiave ogni giorno, chiave che ha sempre con sé. Nessuno sa che livello di macerie e spazzatura sia stato raggiunto, ma lo si può facilmente immaginare.

Marina ha assistito impotente ma non troppo all’escalation del suo sdoppiamento di personalità, che ora manifesta 6 giorni stordendosi di lavoro, dalle 9 del mattino a mezzanotte, benvoluta da tutti i colleghi e dai proprietari del ristorante. Il giorno dii chiusura, il mercoledì, è invece dedicato alla battaglia sempre più aspra contro i suoi genitori, l’obiettivo è fargli pesare il fatto di essere invecchiati, di non essere più all’altezza di affrontare e risolvere i problemi di una figlia adulta sofferente. Così la guerra psicologica, tutti sperano che rimanga sul piano dei sentimenti, si combatte una volta alla settimana, l’unica in cui Elvio e Ines possono assistere al decorso umano di una dei tre figli, quella che ha avuto maggiori difficoltà e delle cui difficoltà ora ha deciso di vendicarsi con i legami più prossimi e deboli. Bevendo birra di fronte agli unici spettatori interessati.

Ma avere una stanza in quelle condizioni, piena di sporcizia e inaccessibile, è diventato per gli anziani genitori un cruccio insopportabile, quasi quanto il muro che Marina costruisce mercoledì dopo mercoledì intorno a sé. Ed è Dana che fa a Ines la proposta. Suo marito accetta qualsiasi incarico pur di guadagnare qualcosa. Potrebbe venire, approfittare di una o più delle giornate piene che Marina trascorre nella cucina del ristorante. Smontare la porta chiusa a chiave non è un problema. Quindi potrebbe svuotare tutto, buttare via quasi venti anni di rancori e restituire una parziale serenità a Elvio e Ines. Almeno quella di non doversi preoccupare di avere il magazzino di una folle tendente al borderline in casa. E poi uno shock potrebbe giovare alla staticità della situazione.

Andrea quella mattina ha iniziato presto, non appena Marina si è recata alla fermata dell’autobus. Nè Ines nè Elvio se la sono sentita di riconoscere lo stato di follia della loro figlia, quando l’ucraino ha scardinato la porta. Ma la sua espressione, e dire che ne deve aver visto tante, è state eloquente. A fine giornata, ha contato 15 viaggi tra l’appartamento e i contenitori della spazzatura, e ha detto di essere a metà. Ha rimesso a posto la porta, per non destare sospetti in Marina la sera quando sarebbe rincasata, quindi si è ripresentato il mattino successivo. Il programma sarebbe stato lo stesso. Il barista di fronte non si sarebbe lamentato. Conosce il signor Elvio, per lui è disposto anche a sobbarcarsi la fatica di un centinaio di metri a piedi con un paio di sacchi di bottiglie in spalla.

Il pomeriggio del secondo giorno l’impresa è compiuta. Andrea ha avvertito Dana, insieme hanno pulito e disinfettato la stanza di Marina, finalmente vuota; è stato anche necessario gettare il materasso, è facile immaginare le condizioni in cui si trovava. Non si è salvato nulla. La signora Ines e il marito hanno così rimesso piede in quella camera che ormai davano per irrecuperabile. Entrambi seduti sulla rete del letto, in silenzio, ora osservano sbigottiti lo spazio di cui si sono riappropriati, domani inizierà un nuovo corso. Ma nessuno dei due ha idea di come dirlo a Marina. Già, domani è mercoledì.