Idles – Tangk

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Tangk è il nuovo disco degli Idles e, per me, il 2024 potrebbe anche chiudersi qui.

Tanto per cominciare, il remake del video di “Yellow” dei Coldplay, realizzato grazie all’intelligenza artificiale per la clip di “Grace”, è forse, almeno ad oggi, l’applicazione più pertinente e meglio riuscita della tecnologia deepfake. Un uso magistrale che si dovrebbe insegnare nelle scuole. Altro che capi di stato che dichiarano guerra ad altri capi di stato o personaggi famosi che straparlano a botte di corbellerie o tutte le altre stronzate che ci lasciano presagire che l’AI, dopo le tv Mediaset e i social, è l’invenzione che darà il colpo di grazia alla nostra civiltà come l’abbiamo conosciuta.

Ma è tutta la storia a essere bellissima: Joe Talbot che scrive un pezzo che parla d’amore e si sogna proprio Chris Martin nel fiore dell’età che, con la sua andatura dinoccolata sul bagnasciuga sotto la pioggia all’alba, intona tutto lo struggimento del suo omologo di ventiquattro anni dopo in sostituzione di quello (altrettanto melenso) della canzone originale di ventiquattro anni prima. E Chris Martin che, anziché sottrarsi al divertissement (o, peggio, andare per vie legali per questioni di copyright come un’isterica rockstar miliardaria qualunque, priva del senso dell’umorismo e dell’ironia con cui l’operazione è stata pensata) non solo concede il suo benestare per trasformare l’idea in realtà, ma contribuisce ad addestrare l’AI per rendere la sua performance vocale più realistica, in modo che il risultato balzi immediatamente ai vertici delle classifiche dei video musicali più iconici di tutti i tempi.

Non trovate tutto questo commovente? Il risultato è che “Grace” è una delle canzoni più significative della storia recente, un pezzo che potrebbe davvero stare nel repertorio dei Coldplay, perché no? La voce di Talbot è incredibilmente delicata e, con un arrangiamento più rassicurante, non sfigurerebbe nel repertorio di uno dei gruppi più famosi al mondo.

E poi c’è la questione dell’amore. Sembra che nei quaranta e rotti minuti di Tangk, Joe Talbot pronunci la parola love quasi trenta volte e dia sfogo, quasi senza soluzione di continuità, a buoni sentimenti come la freudenfreude, quello stato d’animo da oratorio che consiste nel provare gioia per la gioia degli altri, o la gratitudine per ogni mattino che ci viene regalato. Tenete conto che il suo approccio al prosieguo di Crawler è stato quello di rispondere a urgenze condivise, a partire dal mondo in caduta libera post-pandemia, e ad altre molto personali, e decisamente agli antipodi tra di loro, come il lutto e la passione.

Ma il britpop, le dita che si uniscono a forma di cuore e Hall&Oates non sono le sole cose che mai ti aspetteresti di trovare in un album degli Idles. Pensate alla melodia a bocca chiusa nel finale di “Idea 01”, così spiazzante da sembrare un violino interpellato a chiudere una prima traccia praticamente perfetta, un incipit che chiunque, in futuro, gli invidierà, con quell’accompagnamento di piano suonato dal chitarrista e co-produttore Mark Bowen (sporcato a opera d’arte) che accompagna una melodia straordinariamente premurosa, preludio all’amore nella dimensione paterna di “Gift Horse”.

E pensate a “Pop Pop Pop”, con quella metrica da ninna nanna a cavallo tra la conta che fanno i bambini per designare sotto a chi tocca e alla trap. Ma anche il soul di “Roy”, con un Talbot in versione Otis Redding, lo stile più adatto per farsi perdonare dalla propria amata per certe cose dette la sera prima, e una band sotto che suona un punk-blues decisamente oltre ogni aspettativa. O ancora la voce sussurrata di “A Gospel”, coda naturale della traccia precedente, tutta pianoforte e archi. Per non parlare del modo di edulcorare il brutalismo degli esordi in “Jungle”, vero capolavoro dal suono indefinibile, e del sax che si erge repentino dalle macerie negli ultimi istanti di “Monolith”, ancora un sorprendente blues scelto come improbabile chiusura di una tracklist in grado di lasciare di stucco anche gli animi più scettici.

Di certo mettono più a nostro agio le volte in cui la band manda affanculo tutto e tutti, re compreso, violenta gli strumenti con una distorsione disumana, percuote le pelli dei tamburi con la rabbia tipica dell’hardcore (“Gratitude” su tutti), urla tutto il suo disagio possibile e invita al pogo con il patrocinio e il bpm disco-punk degli LCD Soundsystem.

E sapete come andrà a finire, vero? Andrà a finire che, al cospetto di questo album monumentale, l’amore per gli Idles (e l’amore secondo gli Idles) ci dividerà di nuovo: apocalittici e integrati, o detrattori e entusiasti, insomma quella dicotomia lì. Il punto è che la band di Talbot ha bruciato le tappe. Cinque long playing in sette anni e ora si trova già in quella fase di presunta morbidezza in cui cascano tutti, quella in cui gli snob dei “mi piacevano i primi due dischi”, i più pessimisti, gli intransigenti e i disillusi del bicchiere mezzo vuoto vedono solo compromessi e decadenza, mentre i più curiosi e intelligenti, chi, in genere, approccia l’arte come naturale evoluzione della multiforme indole umana, riconosce il vero genio.

Se state dall’altra parte, quella che avrete capito essere opposta alla mia, quella sbagliata, insomma, vi lancio un’altra provocazione: provate a fare sempre uguale la cosa che vi piace di più e poi ne parleremo quando, del vostro estro, rimarrà solo un mozzicone impossibile da impugnare. Per me, un disco come Tangk è uno di quelli che, tra trenta o quarant’anni, definiremo, anzi, definirete epocale, una delle opere più influenti della vostra vita, il punto di non ritorno per una band punk sempre meno post e ormai molto radicale nel suo non esserlo come gli Idles che, sono sicuro di averlo scritto da qualche parte e di ripetermi, sta alla moda musicale del momento come i Killing Joke di “Wardance” stavano all’analogo movimento nel primissimo scorcio degli anni Ottanta.

Con Tangk gli Idles hanno ampiamente sconfinato nell’empireo degli artisti che fanno la differenza. Una scalata alla vetta già avviata con il precedente Crawler (bello come solo sa essere un’opera di passaggio) che taglia definitivamente ogni legame con la genuina ferocia degli esordi e definisce al meglio un gruppo di musicisti che hanno tutto lo spazio e il tempo per esprimersi al massimo e in ogni forma.

La speranza è che gli Idles siano diventati sin nel midollo tutto questo: cattiveria sperimentale, impeto con il valore aumentato della ricercatezza, rabbia che tracima nell’avanguardia artistica grazie alle larghe intese con tutte le cose belle con cui vale la pena mescolarsi. Il risultato è una assoluta meraviglia, la più credibile colonna sonora degli anni venti, un’opera in cui la raffinatezza di cui è pervasa stride meravigliosamente con l’idea che abbiamo maturato degli Idles, in tutto questo tempo. Le loro pose truci, il look beffardo, il suono gratuitamente aggressivo, la mancanza di grazia compositiva e quel mix di cinismo e di noncuranza come conseguenza della sfacciataggine incosciente figlia dell’insicurezza.

Sulla morale di Tangk c’è poco da dire. Come la favola di Esopo “Il Sole e il vento del Nord”, che ne ha ispirato la composizione, “No god, no king, I said, love is the fing”, pronunciato così, con la F al posto della TH come fanno i veri gentleman, ci ricorda che la gentilezza e la cortesia vincono dove la forza e la spavalderia falliscono. Un approccio che, nel punk rock, si mette in pratica con una produzione come quella di Nigel Godrich, il sesto Radiohead, per capirci. Di sicuro, Tangk è un ellepi che nessuno dovrebbe assolutamente lasciarsi sfuggire, un album intriso di suoni e parole d’amore da urlare sgomenti, il più efficace deterrente al senso di vuoto invadente di questi tempi pessimi che, detto tra noi, ci sono ottime possibilità che siano davvero gli ultimi.

zuck

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La data di iscrizione riportata sul mio profilo dice 10 ott 2007, e la cosa che sorprende non è tanto che sia scritta proprio così, con l’abbreviazione del mese, ma che io, come molti di voi, sia su Facebook da 17 anni. DICIASSETTE. Una vita. Ho letto che è un social al tracollo e che tutta la baracconata di Meta messa in piedi è un buco nell’acqua ed è giusto così, in un sistema così dinamico come l’Internet. Io uso Facebook ormai esclusivamente per due motivi: gestisco alcune pagine e mi tengo aggiornato su musica, letteratura e cinema. Per me è principalmente un aggregatore di notizie che mi interessano e vedo che il mio algoritmo è ammaestrato bene a servirmi spunti in linea con in miei gusti. Post di amici e conoscenti ridotti praticamente a zero a cui unisco la rimozione immediata di tutte le proposte del sistema su pagine e gruppi da seguire. Evito i commenti degli utenti come la peste e pubblico solo dischi che mi piacciono, film che mi hanno folgorato e libri che mi hanno migliorato la vita, ma non tanto per condividere, quanto per tenere traccia. È grazie a questo approccio che ieri ho scoperto che è stato adattato un film da uno dei miei romanzi preferiti, “Cancellazione” di Percival Everett. Dopo la pessima esperienza di “Rumore Bianco” di Delillo, da cui è stato tratto un film a dir poco inguardabile, mi sono sottoposto alla visione (è disponibile su Amazon Prime) pieno di timori. Invece è fatto strabene, attori bravissimi, sceneggiatura perfetta e storia rispettata al 100%. Non so dirvi, se non avessi letto il libro di Everett, se avessi altrettanto apprezzato la sua riduzione televisiva. Anzi, ditemelo voi. Guardatelo anche se non avete letto il libro. Ma no. Prima leggete il libro, che è superlativo, e poi guardate il film, molto meglio. O leggete il libro, e basta.

chef moi

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La notizia è che una vincitrice di un noto talent per aspiranti cuochi aspiranti giudici di talent per aspiranti cuochi sostiene di non andare mai al ristorante. Avete letto bene: non le piace mangiare fuori. Non la biasimo. Da quando ho imparato a preparare quelle quattro cose ignoranti che propongo a rotazione nel menu domestico ho ridotto a zero quell’unica volta all’anno in cui si usciva a cena. Vuoi mettere pensare la ricetta, scegliere gli ingredienti e cucinare per famigliari e amici rispetto a mettere le gambe sotto il tavolo, impestarsi il loden di odore di fritto e spendere un occhio della testa in cose che poi lungo il tragitto intestinale si trasformano in quello che sappiamo?

Denis, che è il mio alunno di origine rumena nonché uno dei più simpatici della classe, chiama la cacca “la numero due”, per distinguerla dalla pipì che è “la numero uno”, e ora che siamo alle prese con l’apparato digerente finiamo sempre lì, anche perché è il cibo, primo tra tutti, a finire sempre lì. Malgrado nei testi della trap che ascoltano sia contenuto l’intero vocabolario delle parolacce italiane e non solo, i miei bambini sono timorosissimi e inutilmente pudici in eccesso quando si tratta di pronunciare qualunque sinonimo di feci, per questo attribuire a merda e piscio una perifrasi riconducibile a una gerarchia morale – l’urina è il numero uno perché è considerata meno impegnativa, si fa davanti e il canale appartiene a un rango più nobile dell’altro, probabilmente perché è anche veicolo di piacere ma anche l’altro non è poi così male, insomma esprimere una preferenza tra i due non è così scontato – mi fa sorridere. Ho detto loro mille volte che le parolacce sono volgari ma a seconda del contesto, ma non voglio mettere in dubbio i paradigmi della loro rigida educazione. Però mi hanno seguito e li ho percepiti persino in linea con me quando ho provato a convincerli della mia idea: spendere così tanto per questioni di palato non esiste. Il loro pantheon della ristorazione comprende solo McDonald’s, Burger King, Roadhouse e l’all you can eat cinogiappo sulla provinciale, quello frequentato anche dai ludopatici attirati dalla consistente concentrazione di videopoker. E quello di cui voglio convincere anche voi è che è molto meglio imparare a spignattare.

L’unico compromesso, a casa mia, è la pizza. Almeno un paio di volte al mese, in quelle giornate che si vede già alle otto del mattino che finiranno in pizza. Quelle che entri alla prima ora, accompagni le quinte a visitare la caserma dei Carabinieri, fai due ore di matematica per poi scendere nel chiasso assordante nella mensa-inferno, quindi altre due ore con i bambini con l’impallo catatonico postprandiale e, per chiudere, altre due ore di formazione digitale ai colleghi docenti online.

È andata proprio così, anche questa volta. Ho terminato la videoconferenza e ho subito lanciato l’idea sul gruppo di famiglia, ma questa volta è successa una cosa stranissima. Mia moglie mi ha chiamato per darmi il suo assenso alla pizza, con l’entusiasmo esagerato con cui siamo soliti aderire a questo fuori-programma che è incredibilmente sopra le righe malgrado si ripeta con la stessa frequenza da più di vent’anni. Ma prima di dirmi che pizza avrebbe scelto mi ha chiesto a quale pizzeria d’asporto pensavo di ordinare. Di getto, non chiedetemi il perché, mi è uscito dalla bocca il nome di una pizzeria che frequentavo con ostinata continuità una trentina di anni fa. Un posto che oltre a essere a duecento km da qui probabilmente avrà chiuso i battenti chissà da quanto. Era un locale che faceva solo pizze, non a caso si chiamava “Solo Pizza”, era meta notturna di giovinastri come me in piena fame chimica e aveva le pareti coperte dall’iconografia tipica degli esercizi che vogliono trasmettere l’appartenenza socio-culturale alla napoletanità indipendentemente da dove sono ubicati. Totò, Peppino, Maradona, Mario Merola.

Il pizzaiolo si chiamava Mimmo, e il nome lo ricordo solo grazie all’aforisma che si leggeva su una lavagnetta accanto l’imboccatura del forno a legna e che diceva così: “La pizza di Mimmo è come una bella signora: buona e da gustare a piccoli morsi”. Al telefono con mia moglie mi sono reso conto dell’equivoco e mi sono corretto immediatamente, anche se il nome della pizzeria da cui ci serviamo, pur essendo altrettanto evocativo della cultura partenopea radicata al nord, ha un’accezione che fa molto meno marketing anni novanta e rimanda invece alle qualità organolettiche della pizza, un tema molto più attuale e figlio dell’ossessione per l’italianità che va per la maggiore. Ma sono certo che il mio non sia stato affatto un lapsus. Ancora adesso sono sicuro di non aver compreso appieno il significato di quella frase e il senso della trasposizione simbolica di immagine che la rende così difficilmente interpretabile.

terzo, tipo

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Nella pagina Facebook dedicata ai selfie dei turisti americani immortalati con alcuni dei più celebri luoghi in cui sono state girate le scene più iconiche di tutti tempi del cinema sullo sfondo, postate con l’escamotage del prima e dopo (prima, la scena del film; dopo i turisti con quell’espressione inevitabilmente idiota che viene nel tentativo di mimare la scena in questione) qualche giorno fa ha fatto capolino la Devil’s Tower, quella specie di pandoro alto 1500 metri e ubicato nello stato del Wyoming divenuto celebre grazie a “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.

Ci penso ogni volta in cui scorgo il nuovo Galeazzi di Rho, meglio noto come il “Sacro Monolite Bianco”, l’unico grattacielo al mondo che ha una base più lunga dell’altezza – in questo caso già fuori scala di per sé. Ci passo a fianco per recarmi a scuola e ci sono pure entrato per fare visita a un amico che si è appena sottoposto all’intervento all’anca. Osservandolo da sotto fa molto meno impressione, soprattutto stanziando nei parcheggi arbitrari lungo la strada, stipati di vetture malgrado la frequenza dei cartelli di divieto di sosta. Lui occupava una stanza al dodicesimo piano ed è un peccato che, tra fabbriche, raccordi autostradali e carcere di Baranzate, la vista da lassù lasci piuttosto a desiderare. Ma da qualche settimana la percezione del colosso della sanità privata non è nulla in confronto a quella del monte Alpissimo, che con i suoi 16mila metri non teme confronti. È impossibile non notarlo e il colpo d’occhio dietro allo skyline di Milano non è niente male.

Anch’io sono rimasto fortemente impressionato dalla sua comparsa improvvisa, questo è il motivo per cui non ho esitato a rispondere affermativamente alla chiamata indetta dall’associazione di settore che riunisce i copywriter d’epoca che presiedo per escogitare il nome più adatto alla nuova formazione tettonica. Resti tra noi, ma non ho ancora detto a nessuno che la proposta più suggestiva è risultata proprio la mia, peraltro votata all’unanimità, decisione per la quale non mi stancherò di ringraziare tutti i soci. Ma non è stato solo l’evidente e scontato gioco di parole che concentra la sua caratteristica principale e la sua ubicazione ad aver convinto tutti. C’è dell’altro, ma ora non me lo ricordo. Se non mi sono ancora esposto è perché avrei preferito introdurre un ulteriore fattore significante, qualcosa che richiamasse alla sorpresa con cui ce lo siamo trovati all’orizzonte la mattina in cui è comparso. Se avete in casa, come me, un animale domestico, avrete capito a cosa mi riferisco, visto che solo loro – a quanto sembra –  hanno avvertito l’orogenesi. Stamattina viaggiavo in direzione Malpensa e, a seguito di un’improvvisa schiarita che ha interrotto per qualche minuto la perturbazione che persiste ininterrottamente ormai da diverse settimane, si è propagata una luce e un conseguente riflesso dalla parete della nuova montagna da togliere il fiato.

Peccato che dalle finestre di casa mia il monte Alpissimo non si veda, ma non è questa l’unica conseguenza negativa dell’altezza a cui è situato il mio appartamento al secondo piano e della sua esposizione. Non bazzico i circoli feng shui e i taoisti più radicali – per mancanza di tempo, mica per pregiudizio – nonostante ciò mia moglie ed io ci siamo convinti che l’ultimo rimescolamento della posizione dei mobili in camera dal letto – lo ha ancora una volta pensato lei – non sia di sicuro il più riuscito. Mia moglie ama dedicarsi a questo genere di trasformazioni degli ambienti di casa, e se non ha ancora modificato la disposizione dei sanitari nel bagno è a causa del posizionamento delle tubature. In camera da letto però ci troviamo senza vie d’uscita a causa di un enorme armadio, che scherzando abbiamo ribattezzato proprio Alpissimo, oramai impossibile da muovere se non smontandolo. E, fedeli al motto della montagna e Maometto, ci siamo messi così a dormire al contrario, con i cuscini al posto dei piedi e i piedi rivolti verso la testata. Avete capito: questo nuovo orientamento sembra funzionare. Non solo ci svegliamo riposatissimi ma faccio anche sogni dai significati più sfidanti, al punto che mi metto subito al risveglio sui siti di intelligenza artificiale per trovare le immagini più adeguate a descriverli.

al completo

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Solo un veloce promemoria per quelli che su Dice sono in lista d’attesa per un biglietto per “Alcuni Aneddoti Live”. Purtroppo gli organizzatori non ne vogliono sapere e non danno nemmeno a me gli ingressi omaggio. Pensavo di poter riservare qualche posto ai lettori più affezionati, c’è gente che riceve la mia newsletter dal 2010 e non si è ancora disiscritta, se ci penso roba da matti, ma il limite dell’automatizzazione dei processi è proprio che ogni scorciatoia andrebbe a scapito della tracciabilità e della trasparenza e ricordate che io non ricavo una lira che è una in più rispetto al mio cachet. Vi prego anche di non presentarvi all’ingresso di servizio, o meglio presentatevi perché spero di potervi abbracciare a uno a uno, ma non potrò neppure lasciarvi sgattaiolare dietro le quinte. Ci sono certi omoni addetti alla sicurezza che non vanno tanto per il sottile e non vedono l’ora di farsi belli con il proprietario della struttura, che peraltro mi dicono essere uno storico elettore di estrema destra.

Farò il possibile per non arrivare sui gomiti alla serata dell’evento. Come per le precedenti edizioni, il rischio che qualcuno spoileri il programma in anticipo o sveli l’identità dei componenti della redazione mette a dura prova il mio sistema nervoso. Oggi, durante l’intervallo a scuola, origliavo persino i miei alunni intenti nella pratica del dissing, un giochino da maranza e preso dalla cultura hip hop con il quale sperimentano la tenuta nervosa delle due mie alunne che si punzecchiano sin dalla prima. Sono intervenuto giusto in tempo per evitare che si passassero reciprocamente le unghie sulla faccia ma questo non ha impedito che si prendessero a spintonate in bagno subito dopo. Purtroppo per loro le ho colte in flagrante e ho segnalato il comportamento a entrambe con una bella nota sul diario ed è un peccato che non sia ancora entrato in vigore il gravemente insufficiente, altrimenti l’avrei inaugurato con questo exploit.

Poi la cosa è finita lì ma il mio nervosismo ormai era salito alle stelle. Nell’intervallo lungo ho retto a malapena tre o quattro brani del loro repertorio trap pop e mi sono tenuto a stento dall’insultarli per i loro gusti pessimi. Una di loro, che peraltro non partecipava nemmeno al gruppo di ascolto sotto la LIM, ha biasimato la mia insofferenza rispetto ai loro ascolti ricordandomi quella frase fatta sui gusti e sul discuterne che, lasciatemi dire, lascia il tempo che trova. Ho imposto di spegnere casse e pc e siamo passati a parlare del ramadan che, a breve, le compagne egiziane osserveranno ma la mia attenzione oramai se l’erano giocata definitivamente. Ho pensato così che, in una delle sessioni parallele di “Alcuni Aneddoti Live”, magari quella dedicata alla carenza di band di ragazzini nel nostro paese, potremmo trattare anche questo tema. Sentitevi comunque liberi di suggerirmi altri spunti o condividere le vostre considerazioni qui sotto nei commenti. In ogni caso, ci si vede dal vivo prestissimo, e non vedo l’ora.

ai piatti

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A proposito di reddito di cittadinanza, assegno di inclusione e sussidio di disoccupazione salta agli occhi l’omissione di una qualsiasi forma di riconoscimento economico per chi si occupa dell’accudimento quotidiano della famiglia, la professione universalmente riconducibile a quella della casalinga. Ricoprendo questo ruolo – per quanto sia in grado e giuro con la massima umiltà – per motivi di organizzazione domestica, provo a immaginare quanto tempo-vita non retribuito possano aver dedicato miliardi di donne nella storia dell’umanità. Mia mamma lavorava e in più era chiamata a tenere le fila di un nucleo di cinque persone, in un momento storico e sociale in cui gli uomini erano dispensati dal dover fornire qualunque tipo di supporto se non portare a casa il pane. Nessuno le ha mai corrisposto nulla per tutte le cose che ha fatto per il marito e figli, né come stipendio e tantomeno sotto forma di contributi pensionistici.

Io trascorro così tanto tempo in cucina che, in un sogno, avevo addirittura installato nel piano di lavoro tra i fornelli e il lavabo una console da dj, sulla quale facevo pratica in quella che considero – anche nella vita reale – l’attività più utile che io possa esercitare per il prossimo. Selezionare musica da far ascoltare o ballare a terzi è per me una vera e propria missione, un modo per prendermi cura degli altri e il canale espressivo più immediato per trasmettere il mio trasporto a qualcuno. E il fatto che non mi sorprendeva aver integrato lo spazio in cui mi dedico con amore alla mia famiglia preparando cose buone da mangiare dell’equipaggiamento per mettere i dischi ha un significato inequivocabile.

Mi stupivo così di trovare un analogo set al Nuovo Armenia di Dergano. Facendo finta di bere un drink, sbirciavo dentro al lavabo in acciaio del bar per catturare i segreti del mestiere di un dj di grido fino a quando mi chiedeva di sostituirlo qualche minuto per prendersi una pausa. Il punto è che non si può rimpiazzare qualcuno di cui non si sa che dischi o cd – in quel caso erano flac su un pc – è provvisto. Così, dopo due o tre brani messi a caso, mi trovavo in forte difficoltà nel proseguire la selezione. Se volete sapere com’è andata a finire, mentre l’ultima traccia sfumava, iniziavo a suonare con le mani a tempo la superficie dell’acqua con cui era riempito il vano per lavare i bicchieri. Tenevo un ritmo decisamente trascinante e riuscivo persino a modulare, sfruttando quella tensione superficiale che si insegna in quarta elementare, una melodia adeguata, come se quel dispositivo naturale fosse in qualche modo triggerato con un virtual synth nel computer.

Tutto questo fino a quando il dj residente tornava alla sua postazione, mi ringraziava e proseguiva con il suo spettacolo. Sollevato dall’impegno, ne approfittavo così per recarmi ai funerali privati di Ernesto Assante, cerimonia alla quale non ero stato assolutamente invitato ma di cui mi arrogavo il diritto alla partecipazione come riconoscimento morale per la mia devozione ossessiva alla musica. Potendo vantare una meno che irrisoria comparsata nella storia dell’industria musicale, pochi mesi da meno che turnista in una band sconosciuta nonché fanalino di coda del roster di una major, mi auto-dichiaravo meritevole di far parte del jet set del giornalismo di settore sia per le mie trascurabili recensioni di novità musicali su una webzine amatoriale letta da quattro gatti, sia in virtù delle centinaia di euro che investo nell’acquisto di dischi in vinile. E il bello che non sapevo nemmeno che la famiglia del giornalista scomparso non avesse organizzato una cerimonia vera e propria, ma una sobria formula di funerale laico in un circolo ARCI.

Nella salone delle feste in stile partito comunista anni 70 non c’era l’urna con le ceneri e non era stato nemmeno allestito alcun rinfresco. Cercavo di cogliere tra gli invitati che, in gruppetti sparsi, condividevano aneddoti inerenti il loro comune amico e collega, qualcuno che mi riconoscesse fino a quando mi allontanavo, con lo stesso stato d’animo che ho provato in tutte le occasioni in cui ho presenziato a incontri con gruppi di gente conosciuta online raccolta intorno a una passione comune, forse l’esperienza sociale più fallimentare nella storia dell’umanità e pratica di cui posso considerarmi davvero un pioniere. Solo al risveglio, stamattina, ho valutato se l’associazione tra i piatti dei dj e quelli che assolutamente non bisogna sciacquarli prima di metterli in lavastoviglie – così dice il manuale di istruzioni della mia Miele – sia stata la fonte di ispirazione di tutto ciò o, almeno, una battuta da quattro soldi da sfruttare per un racconto.

The Last Dinner Party – Prelude To Ecstasy

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Altro che ultima cena: con un menu di undici portate (più aperitivo con tanto di orchestra) le The Last Dinner Party ci offrono un ricco buffet per il vernissage del loro esclusivo e divertente progetto musicale.

In un mondo in cui la trasgressione è la regola, alla fine passano per alternativi quelli che le regole le seguono. Non drogarsi, non tatuarsi, lo scoutismo, smettere di fumare, entusiasmarsi per i Promessi Sposi, preferire maglioncini e Clarks alle tute e alle sneakers: ecco i veri eccessi del nostro tempo. Faccio l’insegnante e quando incontro un ragazzino con i capelli lunghi, uno che si distingua dalla massa, senza marsupio e borsello, uno che non si rasa le righe sul cranio e non si concia come i fenomeni della trap, mi viene da fermarlo, mi viene da stringergli la mano e fargli i complimenti. Finalmente qualcosa di completamente diverso. Non fraintendetemi, non sono mica un moderato, un conservatore o un fratellista d’Italia. Soprattutto quando si parla di musica.

Dico solo che, se non fossimo sovraesposti alle più ritrite avanguardie stilistiche, liquideremmo gente che si è fatta le ossa nelle tribute band dei Queen o che armonizza ritornelli nemmeno fossero gli Abba come reazionari, esponenti di un’inutile controriforma artistica, energie e bit sprecati per melensi manierismi mainstream, retromaniaci post-classicisti epigoni di specie artistiche fortunatamente estintesi grazie ai techno-meteoriti degli anni novanta. E invece, a valle della recensione della milionesima band prog-post punk di South London, al cospetto di un disco come Prelude To Ecstasy ecco che gridiamo al miracolo e, parlo per me, ci strappiamo quei pochi capelli che ci sono rimasti.

E sono certo che ci saremmo immaginati lo stesso l’album di esordio delle The Last Dinner Party come colonna sonora di un sequel distopico di Piccole Donne anche se non le avessimo mai notate suonare negli stralci dei loro live su Youtube, testimonianze di una fervida attività marketing volta a infiammare a puntino l’hype per questo primo disco, o viste interpretare i video degli svariati singoli che l’hanno preceduto e posare per gli shooting promozionali con quegli assurdi abiti di scena d’epoca. Anche se – parlo per me – non si capisce bene quale. Costumi di uno dei soliti passati indefiniti – non per questo avvincenti – in cui si mescola tutto, da Ziggy Stardust a Emily Brontë passando per Stevie Nicks. Un’età dell’oro di cui sappiamo solo che si è perpetuata per secoli prima dell’avvento del web e dei social, anche se web e social sono proprio il pretesto romantico che ci fa rimpiangere un mondo in cui ci estingueremmo nel giro di qualche ora, senza smartphone.

L’unica certezza che ho è che il ruolo di Jo calzerebbe a pennello per Lizzie Mayland, chitarra e cori della band (statene certi) rivelazione di quest’anno che, forse a causa alla sua bisestilità, da un punto di vista strettamente musicale, grazie alle The Last Dinner Party è già cominciato col botto. Per chi potrebbe interpretare Abigail Morris, l’impertinente voce solista, ci devo pensare. Nel frattempo, a loro due e a Emily Roberts (chitarra solista, mandolino, flauto), Georgia Davies (basso) e Aurora Nishevci (tastiere, voce) chiederei come gli è venuto in mente un progetto di questo tipo.

Un nome che ci evoca un consesso di apostoli (rigorosamente uomini) al convivio di saluti finali di un profeta (rigorosamente uomo, almeno fino a prova contraria). Un’estetica un po’ gotica e a tratti rococò che, quando è stata di monopolio maschile ai tempi del glam e delle zeppe, ha spostato la lancetta della fluidità di genere verso valori e falsetti ben oltre il livello di guardia, quasi a ridosso della macchietta. Una proposta plissettata e tutta merletti, così sfrontatamente sfarzosa da emancipare le The Last Dinner Party da qualunque tendenza del momento, spiazzando la critica con un coraggio che nessun esordiente di sesso maschile avrebbe mai azzardato.

E lo so che questi discorsi non si dovrebbero fare e che guardare al genere dei musicisti è conseguenza di una società e di una cultura rock sessista e patriarcale. Il punto è che io adoro i gruppi tutti al femminile. Adoro le batteriste e la loro postura dietro ai tamburi, la fierezza con cui osservano il loro set, i piatti e le pelli. Adoro le bassiste, di cui ormai c’è una consolidata tradizione. Adoro le ragazze che manipolano i potenziometri dei sintetizzatori e persino le chitarriste che pestano con i tacchi il pedale del wah wah e l’effetto dei prodigi dell’onicotecnica mentre le loro dita corrono veloci sul manico. Adoro come si abbina agli strumenti musicali tutto ciò che è femminile (la rabbia, la passione, la grazia, l’estasi, l’ardimento, persino la gravidanza) perché alle voci femminili e alla meraviglia che suscitano siamo abituati. Il resto, condizionati dal testosterone nel rock, ci fa approcciare le band tutte al femminile con una doppia aspettativa proprio come, nel resto del mondo reale, per una donna è tutto difficile (come minimo) il doppio.

E sono altresì convinto che The Last Dinner Party siano un gruppo pazzesco proprio perché suonano e cantano come solo cinque donne possono fare. Anzi, sei, perché è importante nominare anche Rebekah Rayner, la straordinaria batterista che non risulta nella line up ufficiale del gruppo ma che si presta al gioco delle parti con velluti e corsetti tanto quanto le altre ragazze per le esibizioni live. Molto più di una semplice turnista e perfettamente allineata con il suono e l’estetica della band. Un gruppo che, se fosse stato composto da maschi, sarebbe diventato il nuovo Greta Van Fleet da tanto al mucchio.

Il bello di questo disco è che il fatto che evochi tanto Kate Bush quanto riesca a citare (con ineguagliabile intelligenza) una non-hit come “This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us” degli Sparks come se nulla importasse, o che induca l’ascoltatore ad aspettarsi, da un momento all’altro, voci che si sovrappongono ribadendo la richiesta a Scaramouche sulla fattibilità del Fandango o qualche altra trovata kitsch degna di un Eurovision Song Contest di metà anni settanta, non risulta per nulla derivativo. C’è tutto questo, insieme a canzoni che cambiano rotta più volte per rientrare indenni al punto di partenza, inni da arena rock e ballad da meditazione. C’è tantissima musica, pensata, composta, suonata e cantata egregiamente, divertente e mai banale, sempre diversa e sempre di altissimo livello.

Per il resto, se tutto ciò che è a corollario non vi piace, potete chiudere gli occhi o aspettare cosa si inventeranno le The Last Dinner Party per il sequel di questo disco. Il sophistirock di Prelude To Ecstasy, pur con tutte le ingenuità proprie di un album di esordio che di certo non abbatteranno i nostri pregiudizi rispetto a un gruppo di giovani donne che sfidano il patriar-mercato discografico conciate come ai tempi di Emily Dickinson, è una delle cose più fresche e originali sentite finora, il preludio a un anno, si spera, il più femminile possibile, e non solo in musica.

parola per parola

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Quando vado a correre la mattina presto nei campi dietro casa mia incontro abbastanza frequentemente un tizio che vive nei paraggi e che porta a spasso amorevolmente i suoi due cani. Sfoggia pantaloni mimetici e stivali di gomma verdi, un abbigliamento riconducibile alla caccia che trasmette continuità con il comportamento degli animali che lo accompagnano, non particolarmente adatti alla pratica venatoria ma lasciati comunque liberi di importunare – con cieca indulgenza da parte del loro padrone – la fauna selvatica (poco più di cornacchie, gazze e qualche pantegana in trasferta dai numerosi cantieri edili) e i podisti dilettanti. Mi sono meravigliato di pensare a lui durante la visione del film “As bestas”, andato in onda qualche sera fa su Rai boh. I lineamenti dell’uomo che incontro quando vado a correre, temprati dalle brutture dell’hinterland, dal disagio e dalle contraddizioni dei tempi che viviamo, non sorprenderebbero tra la popolazione rurale non solo della Galizia ma di qualunque regione ai margini della civiltà, ostile all’agricoltura sostenibile e desiderosa – come biasimarli – di progresso a ogni costo.

Di certo la popolazione autoctona considererebbe con sospetto il suo approccio con i suoi due cani. La gente di montagna infatti non va troppo per il sottile con gli animali, mentre nelle città l’attenzione e l’affetto di cui godono gli animali domestici ha raggiunto livelli probabilmente mai visti nella storia degli esseri umani. Qualche giorno fa ho notato quell’uomo in coda con me al discount giù all’angolo, in abbigliamento civile ma rigorosamente con i suoi due cani al seguito. Scambiava qualche considerazione con una cassiera temporaneamente intenta a riordinare uno scaffale e canara, a quanto ho capito dalla loro conversazione, tanto quanto lui. Entrambi riconoscevano con rassegnazione che i non proprietari di cani non possono capire chi i cani li ha. Come è possibile, infatti, convincere un cane a non pisciare sui muri o sui dissuasori in prossimità dei portoni dei palazzi o anche su un marciapiede? A differenza della cacca, un bisogno più facilmente intercettabile, fare pipì ha diversi significati per i cani e non si può certo scoraggiare il loro istinto di irrorare il suolo pubblico con inconfondibili segnali lasciati come monito (superfluo, direi, in un ambiente urbano) per i propri simili.

Non ne faccio una questione morale, ma ve lo immaginate un mondo dominato da bestie che comunicano con l’urina anziché a parole come facciamo noi? Nel mio piccolo, la mia gatta che ormai è decisamente vecchia non disdegna dal metterci al corrente del suo disappunto pisciando su un tappeto dell’Ikea in bagno. Mentre i social media traboccano sempre più di video di animali ripresi in strabilianti interazioni con i loro proprietari, c’è una crescente percentuale di cittadini che rimpiangono con altrettanto slancio il mondo dei loro nonni, tempi in cui nessuno avrebbe mai sottoposto un gatto a cure dentali e, abituati a vivere in strada, era comune che un animale domestico all’improvviso sparisse dalla circolazione senza fare più ritorno.

Mi sono chiesto anche che cosa pensi la mia gatta di noi che parliamo in continuazione, dialoghiamo, ci confrontiamo, raccontiamo aneddoti, ogni tanto alziamo la voce, spesso ridiamo e facciamo battute sciocche. Perché le bestie non sentono il bisogno di sviluppare una lingua come noi, chiacchierare tra simili e condividere anche con gli esseri umani le loro considerazioni, i loro bisogni e quello che pensano? E perché gli animali non cantano, non suonano, non esprimono le loro preferenze in fatto di musica? La mia gatta non desiste dal suo pisolino sul divano – posto di fronte ai diffusori dello stereo – indipendentemente dal disco che ascolto, e continua a dormire anche quando metto la musica più estrema.

Capita sempre più spesso, però, mentre ceniamo o pranziamo, che tenti di saltare sul tavolo, sicuramente attirata dall’odore del cibo più che dal momento conviviale, e che si rivolga a noi con versi ovviamente incomprensibili ma emessi nei tempi giusti, come se tenesse una conversazione. E so che, se riprendessi quello che accade e pubblicassi la story da qualche parte sui social, diventeremmo delle star del web. Più la gatta che noi, questo è sicuro.

AI AI AI

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Se ci fossero delle telecamere di sorveglianza nelle classi (tra parentesi, vedrete che prima o poi le installeranno) e qualcuno chiedesse di visionare le riprese come nelle serie tv poliziesche, anziché scorrerle velocemente per trovare il punto in cui si vede il serial killer, il detective interromperebbe la riproduzione invece sul fotogramma in cui il docente viene colto con una di quelle espressioni del tipo Perché lo faccio? Non vedi che io non ci vorrei stare qui? Che è uno stato d’animo legittimo in ogni professione, per carità, ma che, se hai a che fare con le persone sane o malate, desta legittimi sospetti tra la gente comune perché lascia intendere che se non hai voglia di fare l’insegnante è meglio che tu vada a fare altro. Stesso discorso se fai il medico, perché potresti fare dei danni e anche grossi. Le immagini della telecamera a circuito chiuso mostrerebbero il collega che, per riempire gli ultimi dieci minuti prima della mensa, troppo pochi per introdurre un nuovo argomento, coglie l’occasione per condividere un’esperienza senza precedenti. Il video di “Grace” degli Idles, il singolo del quinto album appena uscito, realizzato con l’intelligenza artificiale applicata sul video di “Yellow” dei Coldplay. Una figata pazzesca. Si vedrebbe l’insegnante scrivere qualche spunto per far riflettere gli alunni: “Yellow” è del 2000, Chris Martin, che è nato nel 77, ai tempi aveva ventitré anni, e il disco “Tangk”, appena uscito, cantato interamente da Joe Talbot nato nell’84, mentre Chris Martin ora ha 47 anni e, cercando le foto su Google, si vede con la barbetta e qualche ruga in più. Com’è possibile che gli Idles abbiano ingaggiato il frontman dei Coldplay per il video della loro canzone e, soprattutto, che sia ancora tale e quale a se stesso ventitreenne? Le riprese continuerebbero quindi con alcuni bambini della classe che alzano la mano per rispondere con i soliti interventi a sproposito – peraltro proprio dietro la cattedra, a fianco dei cartelli “solo aneddoti brevi” e “please clap on the 2 and the 4”, si nota l’avviso “solo cose attinenti, grazie” – e la frustrazione sul volto dell’insegnante, fino al turno di Fatima che, finalmente, capisce di cosa si tratta. La registrazione continuerebbe con il docente che allora propone un po’ di esperimenti con Dell-E per mettersi in gioco con le immagini realizzate con l’intelligenza artificiale, inventando dei prompt spassosissimi e super creativi come “un gruppo di guerrieri etruschi al centro commerciale di Arese” o “Astor Piazzolla che suona il suo bandoneon nella piazzola di un campeggio”, e poi con il tentativo di coinvolgimento dei suoi alunni a fare altrettanto. Si sentirebbero quindi idee come “Lionel Messi senza capelli”, “Marcus Rashford in stile maranza”, “un cane bassotto a forma di salsiccia”, “un gatto sul dorso di un cavallo”, “mio padre” fino all’apoteosi, “un unicorno che fa la spesa” e, per finire, si leggerebbe il labiale del docente sussurrare una cosa tipo “ma andatevene tutti affanculo”.

quasi dieci minuti di quando quando quando quando di Annalisa

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