attendere prego

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A446 that’s my number, mi viene da cantare appena ritiro il bigliettino dalla macchinetta, ma l’euforia della coincidenza con uno dei miei pezzi reggae preferiti si smorza quando mi rendo conto che la coda all’ufficio postale si preannuncia lunga. La cifra presente sul display relativa alla categoria A, pagare un banale bollettino, ha un valore inferiore al mio di trenta unità circa. Così indugio in un eccesso di ottimismo cercando una sedia vuota. Solo ottimismo, appunto: l’unica libera è illusoria ed è occupata da un tizio di una bassezza d’altri tempi che aveva lasciato il suo posto solo per porgere una penna a qualcuno in piedi. Torna seduto, la differenza tra i due stati si coglie solo nel piano orizzontale, non in quello verticale. Riprende il suo dialogo con il vicino, che ha un cappellino in lana dell’Inter calcato sugli occhi. Fuori si gela, dentro la concentrazione di corpi e il riscaldamento hanno favorito la diffusione di un microclima tropicale. Quello che era rimasto seduto risponde a una domanda che era rimasta sospesa in una parlata incomprensibile, ma chiude l’intervento dicendo “fa la quinta media”, al che deduco che si stava riferendo alla scolarizzazione che avrà il nipote, di certo più adeguata della sua, e che si esprime in un dialetto italiano strettissimo. L’altro butta un occhio sul suo numerino, e sta.

La signora al mio fianco che sa di lacca a basso costo, sarebbe sufficiente una sniffata sulla sua nuca per alleviare questa attesa con una dose di oblio, compone grazie all’ausilio del T9 un messaggio, “non mi sembra vero che non lo rivedrò più” e si ferma lì, con il pollice sospeso come se volesse concludere in qualche modo, lasciandomi in suspense. Il led da cui compare il carattere lampeggia, e mi chiedo quale possa essere il seguito, ma il testo che compone prima di confermarne l’invio mi disorienta. “Se ci penso mi viene il magone”. Che strano, avrei detto si trattasse di una manifestazione di appurata felicità e mi aspettavo un finale tipo “ora possiamo uscire alla luce del sole”, invece l’argomento è tutt’altro. Mi sporgo per osservare il volto dell’autrice che vedevo solo di spalle, e una ragazza vicino con una pila di raccomandate da spedire coglie in flagrante la mia espressione di disappunto, così faccio una plateale ammenda con le sopracciglia e mi sposto più in là.

Giusto in tempo per essere spettatore dell’ingresso deciso di un noto presentatore tv e sedicente intellettuale nonché responsabile di una casa editrice, la cui sede è qui a pochi passi. Varca la soglia sorreggendo una borsa di carta con quel logo che non ha eguali e che trovo ogni volta su quei libri, ne leggo molti di quell’edizione lì. Lui smadonna sottovoce per la ressa e il tempo che perderà, e a me viene da fissarlo perché in effetti è un uomo affascinante e non è non solo per il potere che conferisce la celebrità. Non crediate che io non guardi gli uomini interessanti, anzi. Fama o no, il numerino è ancora più sfavorevole del mio. Si avvicina al bancone in cui si fanno passare i pacchi per le spedizioni e urta un ombrello che cade, lo raccoglie e lo porge a una signora anziana che si stava lamentando della multa che deve pagare. Le hanno addebitato una sanzione per aver mescolato rifiuti nello stesso contenitore specifico riservato strettamente a un’unica tipologia da differenziare. Lei ha ottant’anni, sbraita, fa del suo meglio ma può capitare che “uno si sbaglia”, anche nell’uso del congiuntivo. Sono certo che l’intellettuale celebre apprezzi appieno la spontaneità di quel quadro di situazionismo vivente.

Non seguono la scena i due giovanotti appoggiati al tavolinetto a fianco a me, quello in cui si potrebbero compilare i moduli se i contenitori sopra ne fossero provvisti. Sembrano divertirsi un mondo ricordandosi a vicenda i particolari di un episodio avvenuto tanti anni prima, quando loro, ora intorno ai cinquanta, erano giovani. Era un giorno di gennaio e aveva nevicato così tanto che era persino crollato un palazzetto in cui si tenevano i concerti, vero? Sì, il Vigorelli, gli risponde l’amico, avevamo tutti fumato di mattina e sembrava psichedelico anche solo muoversi nella neve così vestiti di nero. Gli unici punti scuri in tutto quel bianco, nemmeno le gazze, il che aumentava la visione distorta delle cose. Insomma che ci mettiamo a fissare da vicino non so perché la vetrina di un negozio di abbigliamento classico da uomo, e a quel punto giro la testa e mi vedo la faccia di Gino Bramieri a pochi centimetri dalla mia, tutto infreddolito e intabarrato in un montone che cerca di decifrare il prezzo di un abito scuro indossato con scostante eleganza dal manichino. Mi volto e vedo Gino Bramieri, proprio lui, che stringe gli occhi come chi non ci vede benissimo e non capisco se è vero oppure no, rimango lì fuorissimo a scrutare quei lineamenti conosciuti che in genere vedevi solo nei programmi su Canale 5, poi faccio qualche passo indietro e scappo, se c’è la fame chimica c’è anche il terrore chimico, no? Corro al riparo perché non capisco più nulla e sento che sto per esplodere. E scappo anche io, io narratore, chiaro, il segnale acustico precede di poco la notifica che il mio turno è arrivato. A446, that’s my number.

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