o almeno chiamarci con il suo nome

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Al primo ascolto non mi sembra così male, qualche chance che è un po’ la birra media e un po’ le aspettative che ho portato con me da casa. Ma è solo il primo pezzo, poche battute e parte il cantato in italiano, come pensavo il testo mi mette a disagio. Occulto la smorfia di disappunto all’istante. Dal sedile del passeggero, la macchina è ferma parcheggiata sul marciapiede antistante il pub, vedo il resto del corpo che ha dato vita a quella discutibile melodia. Il cantante del gruppo chiude gli occhi, con la nuca sfiora il poggiatesta del posto di guida di quel fuoristrada vero, in un’epoca in cui qualunque veicolo di dimensione superiore è chiamato così, e assapora per la milionesima volta, suppongo, la sua creatura sonora rendendola tangibile lì sul volante, con le mani che battono il tempo. Finisce il primo ritornello, estrae la busta di tabacco e rolla una sigaretta, io ne approfitterò subito dopo.

Non diresti che il ragazzo è cileno, i suoi genitori sono fuggiti da Pinochet un paio di decenni fa, io stesso non l’avrei capito se non me l’avesse raccontato poco prima, rompendo il ghiaccio del nostro primo appuntamento. Siamo lì per capire se lui e suoi compari sono la band che fa per me e viceversa. In effetti la loro musica non ha nulla degli Inti Illimani, per chi pensa che uno che è cileno debba per forza fare quel genere lì con gli zufolotti. Anzi, se devo dirla tutta, il rock elettronico che mi sta sottoponendo non è poi così male, potrei davvero divertirmi a programmare tutto quel ben di dio analogico. Ma le parole, diamine, proprio non ce la farei mai. Non è difficile calcolare il coefficiente di compatibilità già tra la prima e la seconda traccia di quell’album che dopo mi sarà lasciato come supporto da ascoltare con calma, a casa, per pensarci su.

Potrei tranquillamente dare subito il responso negativo se non venissimo entrambi distratti da una folla che va radunandosi nella piazzetta poco più avanti e da un’ambulanza che irrompe alle nostre spalle, a sirene spiegate, la intravediamo negli specchietti retrovisori. Non mi preoccupo nemmeno di chiudere con eccessiva forza lo sportello di quella jeep militare, sono già in strada mentre lui ancora armeggia con i comandi dello stereo per mettere in pause un presunto capolavoro.

Una bambina di quattro anni, tutti i dettagli e le dinamiche le scoprirò solo il giorno dopo sul sito del Corriere, è volata giù dal balcone del suo appartamento al terzo piano, è stato un incidente e lei non ha avuto scampo. Io ho una figlia poco più piccola e mi sento male all’istante per lei che mi aspetta a casa, per quel corpo simile al suo che invece è caduto, per i due genitori protagonisti già smarriti in una trama scritta per errore ma che non conoscerà editing meno tragico di quello.

Quanto a me, so per certo che da domani cambierò abitudini. Passo di lì praticamente tutti i giorni per andare a pranzo in quello stesso pub in cui ho appena bevuto una birra media con un cantante e frontman italo-cileno. Ma anche lui si rende conto che non è giornata, non è proficuo ciò che non nasce sotto una buona stella.

2 pensieri su “o almeno chiamarci con il suo nome

  1. A volte i cambi di abitudini fanno proprio bene e ci aiutano a lasciare spazio alla novità che vorrebbe tanto viaggiarci dentro.
    E già che ci sono ..: Buon Anno! 🙂

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