dolce casa

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Abbiamo bevuto un cappuccino in fretta, il bar della stazione di servizio è come al solito preso d’assalto dalle comitive di turisti provenienti dall’est, né mia moglie ne io siamo degli esempi di tolleranza alle resse, ormai siamo persone di una certa età. Abbiamo tentennato sino all’ultimo per decidere se fosse meglio affrontare il viaggio in automobile o utilizzare il treno. Io preferisco il treno, in genere, perché ormai guidare mi stressa soprattutto per i viaggi lunghi, anche solo di un paio d’ore, quando oltre la distanza subentra la fatica di stare seduto, tenere le mani al volante a lungo. Mia moglie invece preferisce l’auto, e alla fine mi convinco anche io a patto che ci si fermi a metà strada, un minimo di ristoro, una visita in bagno. Poi però la fretta di arrivare prevale sempre, e la sosta dura sempre una manciata di minuti, la consumazione al bar che è sempre tiepida, il clamore e il fastidio degli entusiasmi delle trasferte altrui o di chi viaggia per lavoro e non sa di che parlare se non delle cose che vendono gli autogrill e non si vedono altrove.

L’idea era venuta a me, ma si trattava di un’esperienza che avevo pianificato da tempo. Ci avevo pensato la prima volta a venticinque anni o giù di lì, quando rientrando a casa – la casa in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima – avevo notato nell’androne del condominio i pezzi smontati del vecchio letto matrimoniale e dell’armadio della camera dei miei genitori, quella che da sempre era rimasta al suo posto e la cui presenza davo per scontato. Ma dopo che li avevo lasciati, avevano pensato a dotarsi di qualche comodità in più a rinnovare un po’ l’ambiente in cui vivevano, in concomitanza con i vuoti affettivi che si erano creati, a partire da una nuova camera da letto. Io me l’ero presa con la loro fretta di fare piazza pulita del passato, non capivo che urgenza ci fosse, anzi la capivo ma era come se si disfacessero di qualcosa che era anche mio anche se ora non ero più fisicamente lì a controllare ogni giorno che tutto fosse al suo posto. E avevo anche fantasticato su come sarebbe stato recarmi in visita in quell’appartamento da vecchio, quando i miei non ci sarebbero stati più, e quelle stanze sarebbero state affittate da chissà chi. Lo considerai un impegno, e decisi di non rimuovere mai più quel proponimento.

La seconda volta ci avevo pensato una mattina d’inverno, sul treno che mi stava portando in ufficio, provato da un riscaldamento irrazionale e tutto preso da un libro di DeLillo. Una ragazza, al telefono, stava raccontando a un’amica di aver stretto amicizia per caso, mentre era in fila per rinnovare l’abbonamento, con un’anziana signora che ora abitava il vecchio stabile in cui sua mamma era nata e cresciuta. Si meravigliava per la coincidenza e non vedeva l’ora di metterle in contatto per consentire alla madre una visita ai luoghi natii. Ricordo che avevo interrotto la lettura, cosa che sul treno mi capitava spesso, non è facile concentrarsi tra tutte quelle comunicazioni personali. Avevo riflettuto sulle possibilità che la madre non avesse granché desiderio di ritornare nelle stanze della sua infanzia, magari aveva subito maltrattamenti, era cresciuta nella miseria, oppure semplicemente come difesa dall’essere sommersa dalla commozione, a una certa età fa male. Poi però ricordo di aver ricondotto quella conversazione a quell’altro episodio precedente, quella sorta di promessa che mi ero fatto. Quindi mi ero segnato tutto sul taccuino, quello che portavo sempre con me per appuntarmi le cose che vedevo e i passaggi più toccanti dei romanzi che divoravo, e addirittura ne scrissi un post, ai tempi tenevo un blog come quasi tutti quelli che conoscevo che facevano il mio mestiere.

Penso alla chiusura del cerchio, la resa dei conti, mentre risaliamo nell’abitacolo della vettura. Mia moglie ed io ci avviamo così per l’ultimo tratto del viaggio, che poi è la parte più bella perché sbuchi fuori dall’appennino e a un certo punto vedi il mare, che è quello che mia moglie preferisce prima del pezzo finale che, non ho mai capito perché, ritiene sia il più faticoso, malgrado siano una manciata di chilometri. Forse si riferisce alle curve, o a quel punto si ha solo voglia di arrivare e non ti passa più. Ci scambiamo impressioni sul fatto che ormai nostra figlia è distante, ha la sua vita, e trovare il tempo per organizzare questa gita di cui so già che mi pentirò non è stato difficile. Ha giocato a mio favore l’aver rintracciato facilmente i nuovi inquilini, la famiglia del figlio di un mio vecchio amico, i quali si sono prestati senza problemi ad accontentare un anziano milanese in pensione.

La città è sempre la stessa, è sempre stata la stessa e ce lo dicevamo sempre quando trascorrevamo i fine settimana in visita qui, e io le raccontavo di come fosse sempre stata uguale, che non ci sarebbe stata mai nessuna possibilità, e chissà come sarà ora. Mentre parcheggio l’automobile, lei mi ricorda di comprare un po’ di focaccia come eravamo soliti fare, anche se adesso so già che mi risulta pesante, non è che digerisca l’olio così facilmente. Il portone è diverso da come ce lo ricordavamo, non c’è nemmeno più la farmacia a fianco, dopo le liberalizzazioni del 2012 probabilmente non ha retto alla concorrenza, in un città già economicamente dimessa. Cerco il numero corrispondente al nome sul citofono, suono, e mentre aspetto una risposta mi stringo a lei, e le dico troppo tardi che mi sto commuovendo, che fa male a una certa età, e che forse è meglio tornare indietro.

6 pensieri su “dolce casa

  1. Io quando torno nella mia città natale la trovo immobile.
    E mi dispiace. Lì vivono ancora i miei e mio fratello e non riesco ad immaginarla vuota della mia famiglia.

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