più di là che di qua

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Si passava da una festa all’altra, a quanto pare c’era sempre qualche cosa da festeggiare. Un compleanno o una laurea, il vernissage di una nuova casa o la dismissione di quella precedente, la festa d’addio di qualcuno. Eventi organizzati da privati che poi alla fine diventavano pubblici tanto che in certi appartamenti c’era paura che il pavimento crollasse, case antiche i cui costruttori non avevano minimamente pensato alla portata massima in peso, con l’aggravante del ballo che non so se peggiori la situazione, ma suppongo di sì. Una sera proprio per una casualiltà di questo tipo aveva avuto origine una sorta di leggenda metropolitana, il piano su cui si affacciavano i due appartamenti i cui proprietari avevano unito gli sforzi organizzativi si era crepato, stiamo parlando di una abitazione medioevale che forse aveva resistito ai saraceni ma non al centinaio di giovani adulti ospiti dell’artista tedesco e della sua vicina.

Ma il bello di quella trovata era che si poteva passare da una casa all’altra. Da una parte c’era la musica, l’appartamento A comprendeva una sala abbastanza grande per un party danzante, e malgrado la penombra riconoscevi le solite facce, quello altissimo biondo amico di non ricordo chi, l’architetta con i capelli corti e gli occhiali da nerd che si metteva a piedi nudi per ballare quando era ubriaca, ma non pensate a balli sfrenati o a chissà cosa. La musica era molto sofisticata, da club, poco rock e più sul versante dub e elettronico, fino alla lounge che era per palati fini.

Dall’altra, l’appartamento B, si poteva mangiare e bere, i meno danzerecci restavano in pianta stabile lì a spettegolare su tutto, danzerecci compresi. Immancabili i due proprietari del negozio di abbigliamento femminile del centro, oramai con i capelli bianchi ma elegantissimi nei loro dolcevita attillati, due molto raffinati che malgrado le vite sentimentali disastrose non avevano mai ammesso la loro attrazione reciproca o forse si ma la cosa non era di dominio pubblico. Stazionavano nei pressi di un catino pieno di un cocktail colorato che sconsigliavano apostrofandolo come sciacquatura di coglioni. Poco invitante, decisamente.

Poi così come ci si sentiva straordinariamente a proprio agio e pervasi da un divertimento mai provato sino ad allora, così a un certo punto ci si ritrovava fuori, in più di quelli con cui la serata era cominciata, e pronti a tirar tardi in un locale o in un’altra festa. Non era facile per gli outsider venirne a conoscenza, si trattava di un ambiente piuttosto esclusivo e ristretto, ma gli inserti di nuova linfa umana, quasi sempre maschile, erano tuttavia percepiti come un segnale positivo.

E non era nemmeno il caso di portare nulla, in caso di invito, chi metteva a disposizione la propria casa aveva tutto e un gesto di cortesia, un paio di bottiglie o una torta salata, sarebbe passato inosservato. Gente come il gemello insopportabile della coppia di omozigoti praticamente indistinguibili a malapena si accorgeva della tua presenza in casa sua, quel gigantesco labirinto strappato a un prezzo di affitto irrisorio alla curia con cui aveva forti agganci di famiglia. Portare un vino pregiato significava versarlo direttamente nel cesso, troppa superficialità. E anche quando te ne andavi oramai erano tutti troppo sbronzi per notarlo, non aveva senso nemmeno ringraziare il padrone di casa. Fare conversazione era comunque estremamente semplice, era sufficiente non lesinare in complimenti a chiunque ti rivolgesse la parola. A meno che non si decidesse di sparlare su qualcosa o qualcuno, ma occorreva aver ben chiaro chi fosse in buoni rapporti con chi.

Poi, e probabilmente è successo nell’ultima festa di quella stagione di spensieratezza, ci smascherammo a vicenda, eravamo entrambi così stremati dalla vita professionale che lasciavamo con serenità che nel weekend ci fosse qualcuno – il nostro partner di allora – che guidasse per noi. Ci incrociavamo agli stessi orari due volte la settimana, ogni lunedì mattina e ogni venerdì sera, e c’era già abbastanza materiale da unirci in cameratismo. Il fatto che qualcuno mi avesse riconosciuto pur conoscendomi di meno di tanti altri mi fece sorridere amaramente, sapete quel sorrisetto che si fa quando ci si trova a imitare gli attori cool dei film. C’erano un paio di birre nel frigo, forse le ultime ma sarebbe troppo scontato per un finale della storia, tutto da trascorrere giù in strada a progettare di mettere su una agenzia new media a Milano.

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