tutti sulla stessa barca

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Siamo in fila tutti con le scarpe in mano. Se avessi saputo che era categorico salire scalzi avrei scelto con maggior cura i calzini. Uno degli steward di bordo raccoglie i documenti di identità necessari per il check-in. Ce l’hanno raccomandato in tutte le salse: salire su una imbarcazione di questo tipo, uno yacht da 65 metri, è come entrare in casa d’altri e il padrone è libero di imporre tutti i vincoli che vuole. Ma io oltre le scarpe in mano ho anche buona parte dell’attrezzatura da lavoro, una telecamera e un cavalletto, così vorrei estrarre il portafoglio dalla borsa a tracolla, ah sì ho anche quella con il libro da quattrocento pagine che sto leggendo, ma ho il terrore di poggiare a terra qualunque cosa. Dopo il terrorismo psicologico cui siamo stati soggetti durante il brief temo di rigare il parquet anche solo respirando.

Che poi non è il fortunato proprietario che impone i vincoli che vuole, perché il padrone di casa è un armatore statunitense che ha un ordine di grandezza economica che noi umani non riusciamo nemmeno a immaginare, e ora si sta godendo i suoi millemila milioni di dollari chissà dove. Dicono che possieda “anche” una squadra per ogni massima divisione americana di qualunque sport. D’altronde, per permettersi una nave così per vacanze e relax non oso pensare di cosa si circondi quando lavora ed è teso. Le linee di comportamento sono state invece stabilite dal comandante, che scopro rivestire quella posizione dodici mesi l’anno malgrado lo yacht sia utilizzato per nemmeno un sesto di tutto quel tempo. Stesso discorso per l’equipaggio, una ventina di persone che vivono lì sopra preparando tutto affinché quando Rockerduck si decide e arriva tutto sia perfetto e funzionante. Solo di iPad a disposizione per accendere e spegnere luci e tv c’è il mio stipendio di un anno.

E uno di questi ora e davanti a me, seduto dietro una specie di cocktail bar posto all’ingresso – e non chiedetemi se è poppa o prua perché non me ne intendo – e mi osserva mentre cerco di capire quale possa essere la sequenza di mosse più adatta a questa infernale procedura di accettazione. Inutile descrivere il suo aspetto e quello degli altri che lavorano su quel concentrato di lusso. Giovanissimo, bellissimo, biondo, abbronzato, fisico perfetto e in piena salute come tutti, del resto, maschi e femmine strapagati per fare non capisco bene che cosa, ho un’idea troppo romantica e novecentesca del lavoro pur lavorando nel marketing.

Poi ho l’intuizione su come comportarmi. Poso tutte le borse e la custodia del cavalletto, appoggio le snickers sformate sullo zaino della telecamera, e a quel punto mi sovviene che la carta di identità, consegnando la quale potrò avere anche io in cambio il pass per entrare, l’ho lasciata per una ragione analoga all’ingresso del cantiere. Mi resta solo una possibilità: la patente di guida. La consegno con non poca ritrosia allo steward fotomodello pensando che uno del suo calibro avrà la buona creanza di non fare alcun commento sulla fotografia che è lì dal 1984 e non rende giustizia. Non perché ora io sia tanto più bello, quanto perché ricordo benissimo di essermi seduto nella cabina delle fototessere una mattina prima di entrare a scuola, quando la sera precedente la tizia di cui ero follemente innamorato mia aveva scaricato per il suo vicino di casa. E la mattina della foto mai e poi mai avrei pensato che la patente, a meno di non smarrirla, ti resta tutta la vita. Per questo non avevo prestato molta attenzione al look. La cresta che mi tiravo su con la lacca era un ammasso di ricci, la collanina di plastica tamarra come pegno d’amore non l’avrei tolta nemmeno sotto tortura anche se l’amore non c’era più, la camicia new wave probabilmente era finita in lavatrice dopo una serata di tormenti all’addiaccio e al suo posto sfoggiavo una dozzinale maglietta girocollo nera. Il tutto intorno a una faccia distrutta espressione compresa, malgrado i diciassette anni e tutto quello che uno a diciassette anni dovrebbe sprizzare intorno.

E quel cimelio è ancora lì, su una patente rosa vecchio modello che cade a pezzi, la stessa che ora è in mano a uno che ha la metà dei miei anni, ha gia fatto il doppio delle esperienze che ho fatto io in quarantacinque e percepisce una paga che sarà almeno quattro volte la mia. Non gli sfugge lo squallore in foto dei miei diciassette anni e il contrasto con lo squallore dal vivo dei miei quarantacinque, così pensa di condividere quell’esempio di fallimento made in Italy agli altri giovinastri dell’equipaggio che sono lì intorno. Il divertimento consta nell’opera di demolizione psicologica altrui per la quale chissà quanto avranno sborsato i loro genitori per un degree al college.  Un divertimento assicurato, ed è solo il primo dei trattamenti immeritati di cui sarò vittima in quella succursale di Las Vegas su cui mi trovo per svolgere il mio lavoro. Come a dire: oltre il danno, la beffa.

Così passo il tempo della mia permanenza a bordo terrorizzato dal momento in cui, alla fine delle riprese, dovrò farmi restituire la patente riconsegnando il pass. E non posso nemmeno biasimare nessuno, perché non so nemmeno come si dice in inglese. Ma per fortuna i turni cambiano, e dopo due ore c’è un altro borioso extraterrestre che ha già preparato i documenti di tutti sul bancone, basta riconoscere il proprio e nasconderselo nel portafoglio, per sempre.

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