mettiti nei miei panni

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Lo scarto estetico tra la fine degli anni 70 e i primi 80 non ha avuto precedenti e, lasciatemelo dire, da un certo punto di vista ha fatto una strage. Le principali vittime di quel lustro sono stati i nostri coetanei di allora con fratelli maggiori di cinque o sei anni e una famiglia indigente alle spalle che riservava loro il peggior trattamento possibile, ovvero imporgli un abbigliamento ereditato dal passato e rispondente a canoni e forme agli antipodi del gusto allora corrente. Vestirsi con roba usata non era ancora cool, e soprattutto il divario creato tra uno dei più sentiti gap generazionali, quello tra gli impegnati e i disimpegnati, secondo solo a quello sussistente tra chi studiava e chi pretendeva il sei politico comunque, manifestatosi qualche anno prima, richiedeva posizioni chiare e scelte di campo decise.

D’altro canto le madri che tenevano d’occhio il budget famigliare – che ancora nessuno chiamava così e nemmeno c’era Excel che consentiva di verificare le soglie di rischio con le tabelle pivot – non si ponevano nemmeno il problema che l’ampiezza del fondo dei pantaloni, giusto per fare uno degli esempi più eclatanti, si era nel frattempo ridotta di un buon 80% e che certi materiali e certi colori, per esempio il fustagno marrone scuro, non erano previsti nei nuovi criteri stabiliti dalle tendenze più seguite. Così la vera spaccatura culturale che poneva i portatori di calzoni a zampa di elefante e dei modelli con pinces e stretti sulla caviglia al di qua e al di là di un muro, non consentiva indecisioni, vie di mezzo, compromessi. Anche gli indifferenti e chi popolava la zona grigia si stavano sempre più adattando al nuovo corso. Nessuno avrebbe ostentato consapevolmente un retaggio sociale e politico così impegnativo, tanto più che il lato edonista e proto-berlusconista della nostra società stava permeando ogni nostra abitudine e consumo. Dal cibo alle foto ritagliate dai settimanali pop e incollate sui diari scolastici, dai videogiochi da bar agli ascolti sempre più visivi perché dettati da programmi come Mister Fantasy.

Rimanevano fuori solo quelli che non si potevano permettere vestiti nuovi e alla moda ed erano costretti ad alternare i lasciti dei loro fratelli maggiori, un fenomeno che non era così raro, ai tempi. Per esempio io mi sono salvato, ma solo perché avevo davanti a me due sorelle. Ma ricordo nitidamente compagni di scuola, amici, sodali di attività estrascolastiche gestire con difficoltà il proprio look. La scampanatura sulle caviglie sottili che si dipanava sotto i banchi. Gli ampi colletti che a malapena golf dalle fantasie improbabili contenevano sotto il colletto. Cardigan a tre quarti con trecce verticali assicurati in vita con cinte in lana. Tutte cose che solo qualche stagione prima avevano percorso addosso a ribelli le strade della rivoluzione, si erano macchiate dell’erba dei concerti dopo l’ingresso con l’autoriduzione, si erano bruciacchiate per i lapilli caduti da sigarette rinforzate di oblio illegale ed erano state amorevolmente rammendate in casa in una tacita constatazione amichevole dovuta ai tempi che correvano. Erano stati sfilati in sacchi a pelo da partner occasionali durante notti di occupazione di massa al liceo. Ma poi la storia aveva voltato pagina per tutta una serie di fattori e un intero popolo – come è stato dimostrato poi – era riuscito ad allontanarsi il più possibile da quello stile di vita. Per questo chi era povero o aveva genitori poco propensi a investire nell’omologazione dei propri figli si trovava a convivere con quello che rimaneva di una gloriosa fase di lotta in un ambiente in cui bastava una puntata di Dallas o un gruppo new romantic a incutere un legittimo desiderio di rivalsa sociale.

Ed è facile, a questo punto, evidenziare uno dei vantaggi del pensiero unico che caratterizza finalmente il nostro tempo. Oggi nessuno potrebbe soffrire più così notando le differenze tra i propri stivaletti a punta color becco d’oca e le Amerigan Eagle rosse del proprio compagno di banco. Quello che indossiamo oggi, nel 2013, non è così diverso da ciò che si vedeva in giro nel 2006, per esempio. E il fatto che la qualità scadente di ciò che acquistiamo non permetta una sopravvivenza superiore a una stagione ai nostri capi di abbigliamento non lascia spazio a passaggi di proprietà. Meglio buttare e rifarsi il guardaroba daccapo, siamo più ricchi e possiamo permettercelo. Questo, almeno, è ciò che si dice in giro.

14 pensieri su “mettiti nei miei panni

  1. Buongiorno, quando giri la cinepresa sul nostro passato prossimo il film che scorre sul teleschermo è sempre reale e raccontato in maniera perfetta.
    Le toppe sui gomiti dei maglioni…te le ricordi? E chi se le dimentica più!

  2. speakermuto

    Io ho sempre avuto vestiti di due taglie più grandi, pur essendo figlio unico, per il semplice motivo che, secondo mia madre, poi sarei cresciuto.

  3. Saremo anche piú ricchi ma il passaggio di abiti lo vive mia figlia oggi come io allora. Lei da una cugina, io da una sorella. Ma 5 anni sono pochi per lamentarsene e la moda ancora non interessa. Certo che i danni, in fatto di abbigliamento, degli anni ’80 mi hanno segnata profondamente.

  4. speakermuto

    Che mi sono abituato a vestire “ampio” e lotto con mia moglie, che invece vuole che vesta attillato.

    Il risultato è che i maglioni infeltriti sono inutilizzabili.

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