un paese di santi, poeti, navigatori e allenatori delle squadre in cui militano i nostri figli

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Una interessante dinamica sociale tra persone di estrazione diversa che si trovano per puro caso nello stesso gruppo a condividere un’esperienza comune è quella dei genitori dei giocatori di una squadra sportiva giovanile e dilettante. Si tratta di un insieme particolare perché è privo di quella austerità che di norma contraddistingue altri gruppi più istituzionali come i genitori di una classe scolastica che si riuniscono fin troppo poco con l’obiettivo di dare addosso a insegnanti, alla mancanza di progettualità dell’interclasse, all’assenza di una preside dedicata, al comune che non accende in tempo il riscaldamento o lascia andare l’edificio a pezzi ma tanto ora c’è Renzi che mette tutto a posto.

Intanto per le partite – di qualsiasi sport si tratti – c’è una cadenza maggiore, spesso settimanale. Ci si incontra nei giorni di festa e quindi in abiti e comportamenti meno formali – a parte quelli che vogliono sempre darsi un tono con la camicia per non trasmettere l’impressione che la propria figlia abbia un papà di quelli che mettono la tuta macchiata alla domenica, e potete indovinare di chi sto parlando ehm – e malgrado l’eterogeneità della composizione si consuma e si celebra un rito in cui, almeno in teoria, il conflitto di interesse tra tifare una squadra o solo l’atleta/giocatore di pertinenza viene messo da parte. Se tra i banchi di scuola vige – giustamente, lasciatemelo dire – l’egoismo più sfrenato perché è in gioco il futuro dei nostri figli, sui campi di calcio, basket o volley a meno che non siate di quelli che ritengono lo sport un investimento sul futuro professionale del vostro ragazzo ci è consentito di stare più rilassati.

Siamo tutti lì per divertirci, l’importante è partecipare. Certo virgola certo. Andate a raccontarlo a qualcun altro. O, per usare un francesismo, col cazzo.

Voi non avete idea delle trame, della dietrologia e di ciò che di noi dagli spalti mettiamo in campo a fianco dei nostri piccoli campioni. Prendete me, che da bambino ho militato in una squadra di basket giocando solo una manciata di secondi nel terzo tempo di quattro, e solo quando il margine lo permetteva. Il successo sportivo di mia figlia sarebbe una bella rivalsa, però capite bene che il sonno della ragione che intende la prole solo come porzione complementare della propria realizzazione mancata genera mostri.

Il trucco è quindi lasciare a casa l’orgoglio dell’agonismo e la sua proiezione per portare invece con sé alle partite un pizzico di autocontrollo che sta bene su tutto. Nessuno di quelli che vedete sul campo sarà mai un azzurro di qualcosa, potete starne certi. Ma è altresì fondamentale non dare retta al prossimo nel corso dei tempi regolamentari, perché soventemente nella mamma o nel papà con cui vi troverete a dividere la panchina improvvisata con un materassino da ginnastica, si nascondono spessi i semi della zizzania o gli impulsi secessionisti da sottogruppo nascosti sotto le concilianti sembianze del dialogo sul più e sul meno. Teorie cospiratrici per indurvi a schierarvi con loro tra i tutti contro il gruppo dei più bravi, o tra i tutti contro il gruppo dei cocchi dell’allenatore e il tutto in un arbitrario organigramma stilato a seconda di patologie comportamentali, attitudine al complottismo, vittimismo estremo della stessa matrice di quello grazie al quale, in altre epoche storiche, ci hanno pure giustificato dei genocidi. Il mo consiglio è di darvi un tono, concedere poca confidenza, basare il vostro punto di vista solo e unicamente sul livello di coinvolgimento e il conseguente entusiasmo di chi pratica quello sport, per di più pagato da voi. Il resto lasciatelo a chi sembra non avere proprio un cazzo a cui pensare.

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