la vera storia dell’agenda digitale

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Mi dice Luca che l’idea di portarsi a casa quell’agenda del 92 dalla cantina di casa dei suoi genitori è stata di sua moglie. Si tratta di un modello che ricordo benissimo perché ai tempi andava di moda e ce l’avevamo tutti uguale, a parte il colore. Copertina di plastica e un design molto hi-tech, soprattutto per i tempi. La mia era rossa, manco a farlo apposta. Rosso bordeaux trasparente che con il bianco della copertina di cartoncino sotto assumeva una sfumatura violacea. Il prodotto era vincente perché i brand di planner – così si chiamavano – probabilmente avevano trovato un accordo su alcuni aspetti del formato come dimensioni delle pagine e distanza dei buchi in modo che, una volta acquistata la cover, ogni anno si poteva scegliere la “ricarica” interna più adatta, settimanale o quotidiana. Ero rimasto felicemente sorpreso dell’esistenza di uno standard e dell’economia di scala che questo poteva comportare per tutti, sia le aziende che i consumatori. Ma avere un planner per tipi come Luca o il sottoscritto era poco più di un vezzo, almeno parlando per me. Potevo ricordarmi benissimo degli impegni imminenti tanto erano esigui, e marcarli nero su bianco era solo un tentativo per dimostrare a noi stessi di avere un vita di successo. La tentazione di scrivere quante volte facevamo l’amore con gli asterischi vicino a ogni data nemmeno fossimo dei sedicenni però era forte, considerando la scarsità degli altri argomenti su cui pianificavamo le settimane. Poi c’erano le esibizioni e i concerti che programmavamo con le rispettive band, ma che si concentravano tutte nei fine settimana. Facendo lavori di quel tipo, musicisti con aspirazioni impossibili da raggiungere, non è che avessimo riunioni o presentazioni a clienti. Insomma, ogni anno finivamo con lo stufarci di tenere quel memoriale del futuro prossimo e da marzo in poi le pagine rimanevano intonse, rendendo l’investimento nella ricarica più che sprecato, di solito coincidente con gli acquisti natalizi. Un discorso diverso va invece fatto per la rubrica telefonica, la parte finale del planner. Nel 92 i cellulari non esistevano o forse erano appannaggio dei più abbienti ma sinceramente non ricordo, così in rubrica ci finivano i contatti utili, i locali da chiamare per proporre una serata musicale, le ragazze stando attenti poi a non mostrarle troppo in giro, e gli amici. Nella rubrica dell’agenda di Luca ci sono anch’io, alla lettera B. Al primo posto con il numero che ancora adesso compongo quando da Milano voglio sentire come sta mia mamma. Ma, a parte relazioni con persone difficili da dimenticare, la maggior parte dei nominativi si fa fatica a collocarli nella nostra vita passata, a ordinare indirizzi, città, ruoli e importanza in quel preciso momento storico. Ben poche di quelle conoscenze sono sopravvissute e i telefoni fissi non ce li ha quasi più nessuno così quei numeri, probabilmente, non esistono più.

2 pensieri su “la vera storia dell’agenda digitale

  1. Anch’io usavo solo la rubrica, tanto che poi ho comprato solo quella. Era desolante vedere le pagine semivuote dell’agenda con scritti appuntamenti che non controllavo mai perché tanto li ricordavo benissimo. Ogni tanto tentavo di riempirle con una sorta di diaristica che non avevo la costanza di aggiornare… e poi non è che avessi granché da appuntare

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