credersi un cantante di grido al karaoke, sempre che il karaoke lo si pratichi ancora

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Jason non sembra di queste parti, dev’essere per questo che lo fissano tutti. Ma di strano in realtà ha solo un nome discutibile, una pigmentazione leggermente olivastra e certi lineamenti che ricordano un cantante di successo, italianissimo come lui. Jason ha scritto sul suo blog che il suo lavoro lo annoia in un modo che non riesce nemmeno a raccontare e, come me e voi, spera nel colpaccio che gli cambi la vita. Jason aveva una zia, addirittura la sorella di sua nonna, che gli ha fatto da madrina alla nascita e che lo adorava. Quando è morta di vecchiaia, ormai sono passati quasi dieci anni, Jason ha sperato di raggranellare qualcosa con l’eredità ma la zia non ha fatto testamento e quindi gli averi – pochi, per giunta – si sono dispersi tra i numerosi parenti del marito defunto poco prima e quelli dalla sua parte ma di grado più stretto del suo. Ma Jason non si è perso d’animo e si è coricato per mesi e mesi con la speranza che la cara zia si facesse viva – per modo di dire – in sogno a dargli qualche dritta su un modo veloce e semplice per arricchirsi. Un metodo che, come potete immaginare, non ha portato alcun risultato. Ci ha provato poi con suo papà quando è morto, e ormai sono passati quasi due anni. Ma pare che suo papà, che era malato di Alzheimer, si sia dimenticato di Jason anche nell’aldilà qualunque esso sia. Jason pensa a suo padre spesso ma, di rimando, non ottiene nulla, nemmeno un blando segnale. Neppure un banale vaticinio come il vincitore di Sanremo con cui bullarsi con i colleghi, per dire.

Fino a quando è successo davvero e in un modo che nessuno, Jason per primo, avrebbe mai potuto immaginare. Una sera stava ascoltando un disco di Bowie – Bowie era appena morto, occorre ricordarlo – e dalla magia della puntina dello stereo che ha sfregato su un granello di non so che tipo di polvere è apparso lui. Il duca bianco ha abbassato il volume (Jason si ricorda benissimo la canzone che stava ascoltando, era “Love is lost” da “The Next Day”) e come un genio della lampada qualunque ha concesso a Jason una possibilità per cambiare il corso della sua vita. Ma lo sapete meglio di me: Bowie non è uno che conosce le lotterie italiane, non può certo darti in numeri o i risultati della prossima giornata di campionato. Bowie ha dettato a Jason le note e il testo di una canzone e gli ha detto che quella canzone pubblicata sarebbe diventata una hit, un disco da milioni di copie vendute, una miniera d’oro per l’autore. Jason si è segnato parole e musica, e appena chiusa l’ultima battuta sul pentagramma Bowie si è accomiatato augurando a Jason, in inglese naturalmente, buona fortuna. Good luck, credo si dica così.

Jason si è precipitato al piano per suonare la canzone che Bowie in persona, o almeno nello spirito, gli aveva donato, l’ha registrata alla prima esecuzione e poi l’ha riascoltata. Il pezzo però, così come scritto sotto dettatura dal fantasma di Bowie, era tutt’altro che inedito. Aveva la strofa di “Don’t stand so close to me” dei Police e il ritornello di un vecchio brano di una nullità del calibro di Paul Young dal titolo “Come back and stay”, ve lo ricordate? Potete immaginare com’è andata a finire. Jason mi ha detto che non crede sia stato realmente Bowie a giocargli quel brutto tiro. Ha la collezione completa dei suoi dischi e lo adora dai tempi della trilogia berlinese, d’altronde chi non. Mi ha detto che il mondo è pieno di cantanti che hanno cercato di imitarlo, ed convinto che uno di questi, una volta morto anche lui, abbia cercato di sfogare in qualche modo l’invidia per i fan che, a differenza di Bowie, non ha mai avuto. Jason e io così ci siamo messi all’opera per fare una specie di censimento su Internet di tutti quelli che si sono ispirati a Bowie per trovare il sosia burlone. Ne abbiamo trovati a centinaia, qualcuno anche già morto, ma mica abbiamo ancora finito.

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