il caso rovazzi

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Che la musica non sia più la musica come la intendiamo noi è un dato di fatto e ormai consolidato almeno dai tempi di Napster. Non è la prima volta che succede. Non dico che non sia un danno, ma le cose cambiano perché ci sono miliardi di persone che lo vogliono o sono indotte in qualche modo a volerlo o le cambiano e non se ne accorgono ma funziona così e quando le generazioni che hanno visto la musica come la intendiamo noi saranno cenere nessuno vi farà più caso e, finalmente, l’annosa diatriba sulla qualità, sulla dematerializzazione e sulla svalutazione dell’arte farà compagnia a noi nell’urna come una eco di felici momenti passati sul web a difendere il primato dei Led Zeppelin (il primo nome che mi è venuto in mente, giusto perché ho appena rivisto per la milionesima volta Jimmy Page con gli occhi lucidi alla loro celebrazione al cospetto di Obama di qualche anno fa) e degli ascoltatori dei Led Zeppelin su Rovazzi e gli ascoltatori di Rovazzi.

Punto primo: la musica non è più la musica come la intendiamo noi già dai tempi dei video. I video musicali hanno aggiunto uno strato visivo alla musica che ne ha depauperato il valore immaginifico. E anzi, vi dirò: probabilmente i grandi happening live avevano già strizzato un po’ via dalla musica le emozioni che il solo ascolto ci dava. Con i live di massa abbiamo iniziato a dare un volto alle voci e ai suoni, con il video oltre al volto anche un’interpretazione visiva del contenuto di una canzone. Mi seguite?

Pensate poi anche a cosa è successo dopo: si sono messi a fare musica quelli che non sapevano suonare e cantare e hanno venduto milioni di copie, e via un altro strato. La musica specifica per ballare? Via ancora un pezzo. Poi quelli che mettono i dischi per far ballare si sono persino arrogati il diritto di dire che suonano, e giù un’altra mazzata (attenzione: i miei non sono giudizi etici). Poi come un gigante schiacciatutto si è presentato il digitale con diverse conseguenze: la totale disponibilità della musica sempre e ovunque (che per me è una manna dal cielo), nuovi modi di suonare, comporre, arrangiare, eseguire, interpretare, mescolare. Sedicenti musicisti che prima dell’avvento dei campionatori avrebbero perseguito altri passatempi ingegneristici e che invece sono diventati musicisti digitali e, anche loro, artefici del cambiamento.

Punto secondo: Rovazzi, dicevamo. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose. Le impressioni dell’utente che il web registra con i suoi sistemi di raccolta e analisi dei dati sono intanto approssimate (direi anche approssimative) e poi lo sapete come funziona su Internet, che è un sistema talmente liquido (per dirla come coso là Bauman) e talmente effimero (il ciclo di vita di un qualsiasi fenomeno digitale a partire dalla mio status su Facebook sino al meme del momento è inferiore a quello di un qualsiasi insetto comune) che è fondamentale attaccarsi a tutto per dimostrare il proprio valore e, conseguentemente, farsi pagare il giusto da chi pensa che quell’Internet dell’effimero sia un buon investimento. Vi faccio un paio di esempi veloci: se siete iscritti a quella palla che è LinkedIn, avrete sicuramente ricevuto quegli spassosissimi avvisi del tipo hei amico il tuo profilo sta avendo successo! È stato visitato da 1 persona. La nostra soglia critica è talmente messa male che non ci fa nemmeno più ridere la cosa, ma se qualcuno venti anni fa vi avesse preso per il culo in questo modo non gli avreste dato una testata sul naso? L’altro esempio è il valore di influenza attribuito a gente con decine di migliaia di follower su Twitter o milioni di visualizzazioni su Youtube. Ora, stiamo tutti al gioco dei Social Network per scucire soldi a chi ne ha ancora e va bene. Ma le decine di migliaia di follower su Twitter o i milioni di visualizzazioni su Youtube di uno che indipendentemente da Twitter aveva già un certo peso sull’opinione pubblica rispetto alle migliaia di follower su Twitter o i milioni di visualizzazioni su Youtube di uno che le ha chieste di porta in porta come un piazzista di altri tempi, c’è una bella differenza, non credete?

Punto terzo: oggi la musica io la vedo dello spessore di un foglio di carta velina, anche quella dei gruppi nuovi che mi piacciono di brutto, ma perché della musica in sé senza una pubblicità, senza un tormentone sociale, senza un coro da stadio, senza un radio edit trasmesso tra una gag e l’altra su una radio commerciale a tutto volume in un’auto da guidare in tangenziale, senza un auricolare nello smartphone con cui dividere con un amico il canale destro dal sinistro e chi se ne importa della stereofonia, senza l’evento che riempie di centinaia di migliaia di persone gli stadi a costi che un tempo gli autoriduttori altro che molotov, senza le parole da scrivere sull’asfalto per fare la corte a qualcuno, senza il cantante ormai vecchio che muore, insomma l’esperienza di ascolto, come si dice oggi che tutto – anche fare la cacca al cesso – è un’esperienza di qualcosa, non esiste più.

E in questa complessità che noi non possiamo nemmeno immaginare perché siamo ancora lì con i dischi in vinile e con David Bowie, c’è chi ci sfrangia i coglioni con il senso e il perché e il percome di uno come Rovazzi, quello di “Andiamo a comandare”, quello delle 30.151.781 visualizzazioni su Youtube (dati aggiornati al 9 luglio) che in confronto “Vamos a la playa” è un esercizio compositivo da cameretta, quello che non è musica perché ha fatto solo un pezzo e lo distribuisce solo in streaming, quello che tutti si chiedono ma come è possibile, la musica è morta, quella non è musica, aiuto, aiuto. Certo, quella non è la musica come la intendiamo noi. È semmai il gelato appena uscito, lo slogan che si diffonde come una reazione nucleare tra i giovani, è il nuovo modello di iPhone, il gel per divertirsi a letto, la notizia sulla colonna delle stronzate dei quotidiani online che va avanti per mesi, il trend del momento, la serie americana che bisogna guardare, il caldo che per non collassare bisogna bere molta acqua e non uscire nelle prime ore del pomeriggio, il viaggio a Miami e la pettinatura a cresta. Sono tutti prodotti ma nemmeno del mercato. Sono cose che nascono senza che nemmeno ci facciamo caso e che funzionano così da sempre. Non è musica, ma chi se ne importa, è Rovazzi. È un’evoluzione e che poi sia una merda perché non è un long playing rock con la copertina dei Led Zeppelin chi siamo noi per dirlo?

Conclusione: – Hei che figata cosa è quella cosa lì che scotta? – Boh, me la sono trovata davanti alla grotta stamattina dopo il temporale, ho visto che gli animali feroci scappano, tiene caldo e se ci metto la carne sopra diventa più buona, provala anche tu.

2 pensieri su “il caso rovazzi

  1. Tutto giusto e condivisibile. Un paio di aggiunte: la musica è intrattenimento; se Rovazzi non è musica de iure (?), è intrattenimento de facto, così come due youtuber che seguo occasionalmente: Jared Dines e Steve Terreberry, entrambi produttori di parodie dei cliché dell’heavy metal ed entrambi ottimi musicisti che vanno oltre la musica.

    Una considerazione ulteriore potrebbe essere: cosa è musica de iure? Beethoven, Paganini, Charlie Parker, Thelonius Monk si sono sempre scontrati con la definizione di musica dei loro tempi. Le esecuzioni di chitarra “virtuosa” (lo “shredding” prima o il “djent” ora) non sono musica, se il paragone è Bach e non Paganini, ma in generale la musica per chitarra può esser vista come “altro”: intrattenimento, cultura popolare, sotto-cultura ecc.

    Mo basta che il commento è lungo e me ne scuso! 🙂

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