che cosa c’è dietro ogni cosa

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E se fossero le cose ad aver creato l’uomo? Le pietre, i divani, i tombini nell’aldilà fossero loro a giudicarci? Se fosse il carbonio la vera condanna, il fattore che sottomette l’umano al divino? Le cose ci osservano mute e, per quello che ne sappiamo, la materia inanimata – secondo i nostri standard – potrebbe invece registrare i nostri comportamenti e i moti di coloro che nella nostra struttura sociale sono i loro proprietari, costruttori, affittuari, acquirenti a rate, e condannarci un giorno a trovare stracci, telefonini rotti, tv in bianco e nero, specchietti retrovisori penzolanti dopo una svista in una strada troppo stretta, indumenti scelti in un impeto di sottodimensionata consapevolezza dei nostri ingombri, tutti seduti insieme sugli scranni di un tribunale ultraterreno a darci dei voti e a porci delle domande per capire. Siamo stati rispettosi con i fratelli cassetti con le guide difettose o, in un impeto di fretta condizionata dalla rabbia, abbiamo esercitato la nostra supremazia fisica sbattendoli senza nemmeno pensare alla responsabilità di chi ha assemblato l’armadio che li contiene, trascurandone i dettagli o, peggio, rivolgendo appellativi poco leali al Grande Costruttore Svedese (in questa logica corrispondente a un San Pietro della nostra credenza, non nel senso del mobile) e al nostro tentativo di ingegneri genetici con il foglietto delle istruzioni? Quanti bicchieri avete sulla coscienza, sgusciati dalle mani insaponate se non scagliati alle vostre spalle durante goffi tentativi di brindisi secondo culture che nemmeno vi appartengono? Di quanti muri ci siamo presi gioco, oltraggiandone con colori spray la superficie spinti dall’insano desiderio di apporre un segno indelebile che testimoni il nostro passaggio, espressione della nostra volontà malata di legare indissolubilmente ciò che non possiamo persuadere con le parole ad appartenerci in qualche modo? Non stupiamoci, pertanto, se spesso le cose si ribellano al nostro volere, se un laptop poggiato solo per un quarto della sua superficie su una scrivania cade a terra per non riaccendersi più, se piccoli oggetti riordinati in grossi contenitori si nascondono alle nostre ripetute ricerche senza nemmeno proferire un verso di riconoscimento per lasciarsi ritrovare, se gli angoli appuntiti sono pronti a colpire le nostre nuche, le nostre ginocchia e i nostri mignoli dei piedi per farci notare la loro presenza, che diamo sempre per scontato. Accendiamo un interruttore e appare la luce. OK, ma per quanto sarà così? Dovremmo riflettere sull’importanza che hanno avuto le cose nella nostra evoluzione, da quando lanciavamo le ossa in aria travestiti da scimmie nei film di Kubrik fino a quando abbiamo imparato a usare Ok Google rivolgendo, alle cose sempre più intelligenti, domande appropriate al loro livello di sviluppo che, detto tra noi, possiamo anche sognarcelo.

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