sette anni di sciagure

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La colpa non è dello specchio in sé, semmai della sua ubicazione e della luce che prendono le cose prima di essere riflesse (o simultaneamente, si tratta di un fenomeno che nessuno ha mai capito) che le fanno sembrare diverse. Abbiamo uno specchio preferito e uno in cui proprio non ci riconosciamo. I peggiori sono quelli nei negozi di abbigliamento in cui gli estranei che vediamo di fronte a noi che ci proviamo abiti di qualità sempre più scadente e, come se non bastasse, durante i saldi, non ne vogliono sentire di scansarsi da lì per restituirci l’idea che abbiamo di noi: giovani, senza pancia, il tono muscolare che ci meritiamo dopo tutti gli sforzi che facciamo in palestra, i capelli scuri e folti, la pelle del viso tesa come un tamburo. Lasciate perdere anche gli specchi dei parrucchieri che hanno quel difetto che vi fa venire automaticamente le occhiaie scure e le borse. Non capisco perché continuino ad avere un mercato. Gli specchi di casa non sono da meno e ogni volta ti danno ragione su quello di te che non ti piace più e che cambia ogni volta. Le braccia scoperte. Il girocollo senza camicia. Il pantalone stretto. Il pantalone largo. La maglia fuori. La maglia dentro. Nell’era dell’immagine digitale questi obsoleti schermi naturali e analogici sono destinati all’estinzione e oggi, a pochi giorni della nuova regolamentazione sulla privacy – quel GDPR che vedete scritto da tutte le parti – il modo di ficcanasare nella nostra anima proprio degli specchi è fuori conformità. Mettiamoci in regola, in qualche modo.