tienimi stretta la mano

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Il treno delle sette e cinquantotto è quello più gremito ma, stamattina, porta il doppio dei passeggeri. Qualche carrozza in meno (non sarebbe la prima volta che Trenord fa questo genere di esperimenti sociali) oppure qualche treno prima svanito nel nulla che ha riversato l’utenza qui (idem come sopra). Entro come sempre nella carrozza di testa. L’area compresa tra le due porte del vagone è occupata per la maggior parte da una donna sulla sessantina seduta su una sedia a rotelle, uno di quei modelli con le ruote spesse che ti danno all’ospedale, e, in piedi dietro di lei, quella che presumibilmente sembra la figlia. Hanno i tratti del viso in comune e avrebbero anche gli stessi capelli neri e crespi se la ricrescita della donna sulla carrozzella non indicasse palesemente i postumi di una di quelle cure a cui ciascuno di noi spera di non doversi sottoporre mai, nella sua vita. Un desiderio con cui investiamo anche chi abbiamo di più caro. Madre e figlia non proferiscono parola ed è meglio così nella calca dei pendolari che si precipitano al lavoro. Siamo in troppi, tutti schiacciati, con in mezzo quell’oasi di dolore affrontato con la massima dignità. Il convoglio imbocca una scambio e il sussulto lascia tutti in balia dell’equilibrio. La figlia cinge d’istinto il petto della donna che, con una mano, si aggrappa saldamente, per quanto le sia possibile, al braccio che l’ha protetta. Il treno poco dopo si stabilizza ma la mano della donna sulla sedia a rotelle non molla la presa. Madre e figlia proseguono il viaggio così, tenendosi forte verso un destino che le aspetta non la prossima e nemmeno la fermata dopo, ci guardiamo negli occhi tutti noi intorno e in silenzio proviamo a sperare che per una mattina il treno continui la sua direzione all’infinito.