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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Ciascuno di noi ha almeno un conoscente che, ogni 18 maggio, anniversario della morte di Ian Curtis, si rammarica del fatto che il 26 aprile il grande popolo dei cultori della musica doc non celebri con la stessa enfasi l’analogo amaro destino di Adrian Borland, il cantante dei The Sound morto suicida sotto un treno nel 99. Di tutte le dinamiche a cui il rock è soggetto la presunta rivalità postuma con i Joy Division per l’abisso di fama riscossa è quella di più dubbio gusto, anche se è chiaro a tutti che nel rock (che nel nostro caso è post-punk ma il principio è lo stesso) puoi essere in gamba quanto vuoi ma c’è sempre un fattore X (ci hanno fatto pure un programma di successo in proposito) che non dipende da niente e nessuno e che decide la vita e la morte (al momento solo in senso figurato) degli artisti.

Una variabile che fa sì che un album come “Jeopardy” sia diventato negli anni molto meno iconico di un “Unknown Pleasures” anche solo a partire dalla copertina, altrettanto emblematica ma che, al momento, non troverete stampata sulle magliette a 14.99 da H&M. Non so se sia un peccato o no. Il fatto è che “Jeopardy” è un disco straordinario e merita, ancor prima della giusta fama e di un posto tra i primi dieci album new wave di tutti i tempi, ascolti attenti.

E il problema di “Jeopardy” forse è che è troppo bello e anche troppo unico per un gruppo dal nome semplice e dall’approccio defilato come i The Sound. Un disco che quasi suona come un greatest hits, qualcosa di mai più raggiungibile, l’apice di un estro esploso forse troppo in anticipo, difficile da coltivare e far crescere ancora. Almeno questo è quanto sostengono la critica specializzata e l’opinione pubblica. Se vi va, potete dissociarvi con me da questa linea a partire da oggi stesso. A me dei The Sound piace tutto, anche “Thunder Up”, anche il materiale che Adrian Borland ha pubblicato da solo.

La sua chitarra inconfondibile è la prima cosa che si nota nel fade-in di “I can’t escape myself”, seguita dalla goccia dissonante di synth e dalla più che ossessiva sezione ritmica di basso e batteria. Il testo e la fuga da sé di cui racconta non lasciano dubbi: nella prima traccia di “Jeopardy” c’è già tutto. Tutto il suono e lo stato d’animo di chi è già stato e che verrà, tutte le band che daranno al post punk un ruolo primario nella storia della musica, tutto quello che Adrian Borland inseguirà fino alla morte.

E poi c’è l’esplosione: “Heartland” con quella soluzione armonica così in controtendenza rispetto allo scarso amore per l’abbinamento degli accordi tra di loro che ha fatto del post-punk un pugno in occhio, anzi, nelle orecchie degli ascoltatori mainstream del tempo. Poi, se volete i Joy Division, eccovi accontentati in “Hour of Need”. Preferite gli Ultravox di John Foxx e di “Young Savage”? Provate con “Wold Fail Me”, c’è persino un po’ di sax.

“Missiles” è un’altra traccia monumentale, con Borland che grida una risposta di pace in un tempo di forti tensioni politiche, in piena guerra fredda. “HeyDay”, “Resistance” e “Jeopardy”, la titetrack, sono new wave allo stato puro, mentre “Night Versus Day” spinge il disco a un registro più dark, portato all’estremo dalla struggente “Unwritten Law” e quel suo testo così testimonianza di una verità elementare: una mano è una mano, un coltello è un coltello, il sangue è sangue, la vita è la vita. E quindi, all’apice del parossismo, ecco la no-wave di “Desire” a raffreddare gli animi, a smorzare l’impeto, a chiudere il disco sullo stesso identico registro con cui era iniziato.

In “Jeopardy” c’è molto e forse c’è troppo. È un disco schizofrenico come il disagio che ha accompagnato Borland lungo la sua esistenza. E comunque, se proprio volete fare la gara, secondo me tra “Unknown Pleasures” e “Jeopardy” non c’è proprio paragone. I The Sound vincono a mani basse.

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