la scuola digitale

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Quando ho superato il concorso per entrare di ruolo nella scuola primaria ho subito pensato a quanto mi sarebbe stato utile il background professionale maturato in venticinque anni nei settori del digitale e al valore che avrei potuto portare in classe. Ho fatto il programmatore, il tuttofare sull’Internet e sui social media, il progettista e sviluppatore di applicativi multimediali e interattivi e persino l’esperto di comunicazione sul web, seguendo tutti i trend dalla nascita della rete fino ad oggi. Durante l’anno che è trascorso dalla pubblicazione della graduatoria alla presa di servizio mi sono documentato e ho approfondito il modo in cui, quella che per comodità chiamiamo anacronisticamente informatica, può migliorare l’esperienza dei ragazzi in aula e a casa, sui libri. Mi sono guardato in giro e sono venuto a conoscenza di progetti interessanti portati a termine grazie all’impegno di colleghi anche molto meno digital del sottoscritto. Ho trovato in rete numerosi esempi che mi hanno ispirato e che ho pensato di applicare sul campo una volta entrato in ruolo. Al momento, però, i casi in cui ho potuto sperimentare l’approccio digitale all’insegnamento non mi hanno soddisfatto appieno. Mi risulta però difficile, al momento, trovare la causa di questo impasse. Probabilmente dovrei parlarne con chi ha più esperienza in questo campo. Ma per avviare un confronto su questi argomenti è utile fare il punto della situazione, o almeno provarci.

In questa fase di boom del digitale non è ancora chiaro se, a scuola, gli strumenti informatici e una forma mentis digital debbano essere il mezzo o il fine. Se sono un mezzo, la questione non è semplice: la tecnologia si evolve a una velocità impensabile per gli addetti ai lavori, figuriamoci per la scuola italiana, figuriamoci per la scuola primaria italiana. Basti pensare alle risorse online che sono disponibili oggi, mentre la mentalità più diffusa è ancora legata ad aspetti obsoleti come software e hardware, installare programmi, se non addirittura utilizzare dvd o cd e stampare materiale. A casa si usano solo dispositivi smart con interfacce touch interconnessi ad altissima velocità e always-on, mentre a scuola si trovano pc e laptop, anche potenti, con relative periferiche, il tutto però ancora legato alla precedente generazione.

Se mi chiedo però tra quindici anni, quando i miei alunni entreranno (si spera) nel mondo del lavoro, quali competenze digitali saranno più utili, è impossibile dare una risposta. Oppure, se non vogliamo pensare al futuro della tecnologia proprio per la velocità con cui essa si evolve, perché continuiamo a intendere l’informatica come un mezzo e non come un fine? Ha più senso insegnare a raccogliere e organizzare i contenuti delle ricerche sui software di presentazione (Powerpoint e simili, offline e online) oppure insegnare a trovare i contenuti e basta, tanto sono disponibili senza soluzione di continuità in rete? Anzi, perché insegnare i contenuti? Perché non superare il concetto del sapere in sé visto che la rete pensa e conosce per noi e noi possiamo fare altro? Per i millennials il sapere è già lì. Portarlo dentro di noi è uno spreco di tempo. Non è meglio concentrarsi su come utilizzarlo e applicarlo?

Nella mia scuola ogni aula è dotata della LIM. Prima di fare l’insegnante, abituato alle tecnologie di collaborazione e comunicazione integrate alle smartboard con cui spesso mi trovavo a lavorare, non avevo capito che le LIM non fossero altro che dei proiettori di quello che si vede sullo schermo del pc, con l’aggiunta della funzionalità touch sulla superficie di proiezione. Credevo che fosse un sistema in cui docente e alunni – dotati di tablet o altro terminale – concentrano in un ambiente virtuale condiviso i materiali e i contenuti delle lezioni e sono connessi tra di loro. Da quando sono in classe mi sono reso conto invece intanto dell’infondatezza delle mie supposizioni, quindi di quanto possa essere utopistico un sistema progettato in questo modo, e spero che una scuola digitale così sia solo frutto della mia immaginazione distorta e che nessuno arrivi mai a pensare di delegare la relazione fisica tra i protagonisti della scuola a una piattaforma di lavoro come quelle che si usano nelle aziende moderne.

Con i ragazzini che ho in classe non riesco proprio a immaginare una didattica basata su strumenti e risorse di questo tipo, e non credo che il problema sia riconducibile ancora al fatto che viviamo in una fase di transizione. Nella mia aula ci sono le cartine geografiche e i manifesti appesi, c’è la gomma pane che devo requisire mentre spiego, ci sono i gessi colorati per distinguere l’ordine dei milioni da quello delle migliaia e persino la linea del tempo appesa alle pareti. Ci sono un branco di bambini cresciuti che si voltano, fanno cadere di continuo astucci e quaderni, si scambiano i bigliettini frutto dei primi turbamenti sentimentali, non riescono a stare seduti composti per più di una manciata di secondi. Proprio non me li vedo con gli occhi piantati su uno schermo touch, magari con gli auricolari, separati dai loro compagni anche solo per litigare, separati dal maestro, dalla finestra verso la quale si voltano in continuazione attirati dal richiamo ancestrale delle vestigia della natura o di quella poca che è rimasta e che comunque ancora fa piovere, fa posare le cavallette e le cimici sulle tapparelle, accende e spegne la luce del sole con le nuvole.

La LIM comunque la uso. Mostro ai ragazzi qualche diavoleria che trovo sul web, i video, i soliti giochini didattici che un’intera generazione di insegnanti affamata (giustamente) di novità ha confuso come porta di accesso per le competenze. Ascoltiamo la musica, leggiamo le slide che mi preparo a supporto delle lezioni, faccio provare ai ragazzi l’ebbrezza dell’interattività: poggiano il dito sulla lavagna touch e succede qualcosa, di certo meno entusiasmante dell’esperienza che provano sulla Playstation, sullo smartphone del papà o sull’iPad da millemila euro che hanno a casa. Ambienti virtuali di apprendimento e cloud costituiscono una bella sfida ma prima non dobbiamo esimerci dal mettere nero su bianco un piano per capire bene in che modo possano essere utili, perché l’approccio basato sulla dimestichezza individuale degli insegnanti lascia il tempo che trova.

In questa fase, e chissà ancora per quanto tempo, il digitale funziona ancora come dimensione collaterale dell’attività in classe. Anche gli esperimenti di classe capovolta o le alternative ai modelli tradizionali che mescolano la multicanalità (passatemi il termine) sono meno che un ibrido. Permettetemi, per chiudere, una metafora che trovo piuttosto calzante: abbiamo applicato dei sensori alla didattica cartacea per informatizzarla, ma ben altra cosa sarà un metodo nativo sul digitale. Ma, a quel punto, chissà se sarà ancora necessario un corpo docente.

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