De La Soul – Say No Go

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Prima di trasformarsi in una delle più ricche potenze multinazionali sulla faccia della terra, l’hip hop è stato per anni un laboratorio artigianale in cui minuziosamente si saldavano insieme rimasugli di poco conto e scarti di altre canzoni per creare le basi sulle quali poi darci dentro con le rime.

A cavallo tra le due ragioni sociali, mentre l’old school si trasformava in qualcosa di nuovo e assai più remunerativo, i De La Soul pubblicavano uno degli album più influenti in quota rap di fine anni ottanta che è stato “3 Feet High and Rising”. Un disco su cui, se lo conoscete, c’è ben poco da aggiungere: la sua portata innovativa e dirompente è stata già ampiamente riconosciuta dalla storia della musica intera e, ad oggi, il suo valore resta indubbiamente ineguagliato.

Lo stile dei De La Soul costituisce una pietra miliare nel rap perché dimostra che un altro hip hop è possibile: ritmiche più rilassate, atmosfere hippie e psichedeliche e, soprattutto, campionamenti come se piovesse.

Probabilmente il pezzo che trasmette meglio tutto questo è “Say no go”, pubblicato come singolo nel 1989, apparentemente una hit danzereccia ma con testo tutt’altro che spensierato: si parla di crack e dell’epidemia che dilaga nelle città statunitensi (come la celebre “New Jack City” di Ice T). Qui in Italia, al netto della comprensione delle parti cantate, “Say no go” contribuisce principalmente a far conoscere il terzetto di fricchettoni afroamericani di Long Island e ad accompagnare i ragazzini in estasi sul dancefloor. Del resto la struttura si presta perfettamente a fare uscire di testa l’ascoltatore: il brano è una stratificazione di loop ritmici e armonici che conferiscono un carattere ipnotico senza precedenti. Sai quando inizia e, se ti prende bene, potrebbe anche non finire più.

Se volete divertirvi a identificare i sample di cui il successo dei De La Soul è composto ecco qualche dritta. “Crossword Puzzle” di Sly Stone è il brano che dà l’ossatura a “Say no go” e la sua andatura funky, compresi gli stacchi di fiati, la chitarra wah-wah e persino le rispostine di Hammond vengono da lì. Il loop di batteria che pompa il ritmo è campionato di sana pianta dalle prime battute di “I’m Chief Kamanawanalea” dei Turtles. Il giro di basso è di “I Can’t Go For That (No Can Do)” di Hall & Oates, abbassato di una quarta o giù di lì. L’inconfondibile fraseggio ricorsivo di chitarra – il vero tormentone psichedelico del pezzo – è preso da “Baby let me take you” dei Detroit Emeralds. Il tutto mescolato, riassemblato e accelerato di qualche bpm per renderlo mixabile al meglio con la house più conosciuta dei tempi.

Forse ingiustamente penalizzati dalla loro originalità, in un momento in cui l’hip hop imponeva appartenenza, parametri, canoni ed estetica ben definita, i De La Soul dopo il grande successo di “3 Feet High and Rising” non hanno avuto il giusto riconoscimento che meritavano. Vincitori, anni dopo, di un Grammy Awards per la co-partecipazione a fianco dei Gorillaz, li ricordiamo con affetto per il loro look che informale è dir poco (troppo scazzati per essere un gruppo rap) e il loro atteggiamento hip hop un po’ buontempone e disimpegnato, caratteristiche ostentate proprio nel video di questa canzone sulla quale stare fermi resta difficile ancora oggi, a trent’anni di distanza.

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